La questione generale delle cosiddette ‘catastrofi’, tipiche della modernità capitalistica, è stata ampiamente affrontata, soprattutto negli anni 50 e 60 dalla corrente, sulla scorta della teoria socio-economica marxista. Differenze di rilievo, fra quella chiave di lettura, e la nostra chiave di ricerca e interpretazione dei fatti attuali non sussistono. Anzi, non possono sussistere, data la persistenza del quadro socio-economico capitalistico in cui gli eventi catastrofici, passati e presenti, continuano a verificarsi con drammatica regolarità. Il gravissimo episodio avvenuto su una linea ferroviaria in Puglia, nel mese di luglio 2016, al di là delle eventuali, ipotetiche, responsabilità specifiche che saranno appurate dalle inchieste giudiziarie, ci pone il solito interrogativo: un meccanismo socio-economico basato sullo scopo ultimo del profitto, non è forse nocivo e pericoloso in se stesso? Di conseguenza, i drammi e le catastrofi dei nostri giorni, non sono principalmente un derivato inevitabile di un certo modello di organizzazione della società e dell’economia? Obiezione prevedibile; una certa componente di rischio e di pericolo è strutturalmente ineliminabile dall’esistenza. Questo è vero, ma è anche vero che quando gli stati hanno fra i compiti fondamentali il reperimento delle somme per il pagamento degli interessi sul debito pubblico, allora si determinano delle conseguenze. Il taglio dei costi inutili e improduttivi della pubblica amministrazione servirebbe, nella vulgata comune, a recuperare delle risorse per potenziare l’offerta di servizi sociali. Di fatto i servizi sociali vengono mortificati e tendenzialmente ridotti (sanità, trasporti pubblici, scuola, pensioni, assistenza agli anziani), mentre gli interessi sul debito pubblico (posseduto in parte dalle banche) sono regolarmente erogati ai titolari di bot, cct e btp. Cosa vogliamo sostenere con queste considerazioni, nulla di speciale, semplicemente sosteniamo che lo stato, oggigiorno, anno 2016, in tutte le plaghe capitalistiche del pianeta, tendenzialmente riduce i servizi sociali, taglia i cosiddetti rami secchi della pubblica amministrazione, impone austerità e sacrifici, e aumenta il prelievo fiscale sui proletari. Marx ricorda che è attraverso l’imposizione tributaria sulla popolazione (proletaria) che si determina un incremento indiretto del grado di sfruttamento (a immediato interesse del capitale finanziario possessore del debito pubblico). Quindi parliamo (Marx parla) di un doppio livello di sfruttamento: in fabbrica e fuori dalla fabbrica. Incremento dell’estrazione di plus-lavoro (in termini assoluti e relativi) in fabbrica, e incremento dello sfruttamento indiretto attraverso il pagamento di tributi per il capitale finanziario, titolare del debito pubblico (leggasi ‘Imprese economiche di pantalone’).
Cosa possiamo aggiungere, il plusvalore viene realizzato nel processo produttivo reale di beni e servizi, anche se poi esso viene successivamente ripartito fra le varie sezioni del capitale sociale in forma di profitto, interesse e rendita. Nell’attuale fase putrescente e decadente prevale l’aspetto finanziario/usuraio del capitale, e di conseguenza il ruolo dello Stato borghese si adegua a servire, in modo prevalente, tale sezione di capitale e di associata borghesia parassitaria. D’altronde l’inizio e la fine di un organismo spesso mostrano dei tratti comuni, delle analogie. Già alle origini il capitalismo sorge statale, pensiamo agli investimenti di capitale pubblico delle repubbliche marinare intorno al 1200/1300; senza quegli investimenti non si sarebbero mai sviluppate le flotte commerciali. Oppure al ruolo dello Stato come garante del debito pubblico, nella fase dell’accumulazione originaria, in Inghilterra, con l’espropriazione della piccola azienda rurale familiare, a vantaggio dei grossi investimenti di capitale nel settore dell’economia agraria (investimenti di capitale a base di debito pubblico, funzionale alla maggiore produzione di generi alimentari, con cui sfamare le masse rurali espropriate e trasformate in proletari da impiegare nell’industria).
Il termine ‘bancocrazia’ è utilizzato da Marx stesso per indicare una situazione economica in cui le banche, attraverso la leva del credito, governano alcuni fondamentali processi dell’economia. Inserite nel settore di attività terziario dei servizi, le banche sono di fatto l’eminenza grigia (da tempo immemore) del capitalismo. Con l’avvento e la diffusione delle imprese nella forma giuridica delle Spa, il loro ruolo, come ricorda Marx, si è ulteriormente ingrandito. Le azioni e le obbligazioni delle Spa sono titoli negoziabili e trasferibili, in borsa, ma anche con l’intervento di mediazione delle banche. Negli ultimi decenni il ruolo di indirizzo dei risparmiatori verso gli investimenti azionari, da parte delle banche, è molto cresciuto. Si parla di azionariato diffuso proprio in relazione al possesso di titoli azionari, da parte di risparmiatori, spesso titolari di porzioni infime di capitale sociale, cioè di azioni emesse dalle spa. Normalmente il promotore finanziario che propone l’acquisto di un fondo di investimento mobiliare (formato da valori mobiliari come bot, cct, btp, azioni e obbligazioni di spa) tende a ridurre l’entità del rischio costituito in particolare dalle azioni (le quali essendo titoli di proprietà di un pezzo del capitale sociale, sono tecnicamente vero e proprio capitale di rischio). Quindi il promotore, salvo diverse indicazioni del cliente, tende a limitare la parte di fondo comune destinata al capitale di rischio azionario. Tuttavia in caso di fallimento anche le obbligazioni, che essendo quote di prestito non sarebbero in modo stretto capitale di rischio, in realtà possono andare in fumo. Le banche raccolgono capitale monetario dai risparmiatori e successivamente lo impiegano, concedendo prestiti alle imprese e alle famiglie. La concessione di finanziamenti, le aperture di credito, dovrebbero avvenire a fronte di adeguate garanzie patrimoniali e reddituali. I richiedenti sprovvisti di tali garanzie non dovrebbero, in teoria, ricevere crediti dalle banche. Se dovessimo ritenere veri e reali i racconti sul libero mercato e sulla concorrenza, dovremmo escludere che una impresa bancaria che ha fatto scelte aziendali sbagliate, debba essere salvata da un intervento pubblico. Eppure, nel luglio 2016, il tormentone estivo è dato proprio dal salvataggio degli istituti di credito in sofferenza (cioè con una parte delle somme raccolte dai risparmiatori, e successivamente concesse in prestito alle imprese, di arduo e difficile recupero). Si tratta di sofferenze bancarie, cioè di crediti in parte immobilizzati, cioè non recuperabili alla scadenza prefissata, o addirittura inesigibili in tutto o in parte. Le perdite su crediti fanno parte del rischio d’impresa, sia in riferimento alle aziende commerciali e industriali (o di altro tipo) sia, soprattutto, in riferimento alle aziende bancarie. Una banca, secondo l’etica capitalistica del rischio d’impresa, dovrebbe ponderare bene l’affidamento delle somme raccolte dai risparmiatori, ed evitare di concedere credito ai soggetti che non presentano adeguate garanzie (patrimoniali e reddituali). Il problema, nella fase economica attuale, è che le imprese stesse, mediamente in calo di attività, non richiedono prestiti come in altri periodi, e anche quelle imprese che li richiedono, fanno poi fatica a restituirli. Quindi le aziende bancarie, per pagare gli interessi ai correntisti, sono comunque costrette a reperire fonti alternative di investimento del capitale monetario disponibile, da cui tentare di trarre lucro. Alle volte il capitale monetario dei correntisti viene impiegato nell’acquisto di fondi comuni, un prodotto finanziario chiaramente accettato dal cliente della banca, desideroso di ottenere un adeguato livello di redditività per i propri risparmi. Ma non sempre questo avido desiderio si realizza, e alle volte accade che il sogno del tocco di Mida, che tutto trasformava in oro, diventi, per contrappasso, l’incubo della perdita del capitale monetario affidato alla banca. Allora perché gli Stati borghesi dovrebbero impiegare denaro pubblico per i salvataggi bancari? Perché le banche non possono fallire come le aziende industriali e commerciali? Il motivo è innanzitutto nel debito pubblico, cioè nel capitale finanziario che lo stato borghese remunera pagando interessi periodici, ottenuti dalle entrate tributarie, cioè dall’imposizione fiscale indiretta (Iva) sui beni di consumo primari, dai tributi sui servizi pubblici (tasse comunali e varie), e infine dall’irpef (imposta diretta sul reddito, e quindi anche sulle retribuzioni proletarie). Certo, qualcuno dirà che le entrate tributarie non servono solo a pagare gli interessi sul debito pubblico, e infatti, rispondiamo noi, servono pure a mantenere in piedi un minimo di servizi sociali, e sopratutto un apparato statale, funzionali al dominio della classe borghese. Ora, tralasciando questi particolari, appare evidente il nesso fra Stato, debito pubblico, banche e capitale finanziario. Quattro nomi, un unico marchio, quello della dominazione. Il cosiddetto salvataggio bancario, per cui la stessa Europa prevede la creazione di un fondo di 150 miliardi di euro (per curare i piccoli acciacchi degli istituti di credito con la pancia piena di titoli tossici, cioè carta straccia), è un segno dei tempi (e del fatto che le politiche di austerità e i tagli al welfare sono destinati a durare).