Le statistiche riferiscono di oltre cinquantamila senza tetto solo in Italia. Questo è un numero che non mette in conto i soggetti che di fatto, se fossero privati della rete di protezione parentale, dovrebbero vivere come i senza tetto. Di recente è stata perfino istituita una cattedra accademica di sociologia della sopravvivenza. Segno della rilevanza del fenomeno del barbonaggio e quindi della ricerca di sopravvivenza ad esso correlata. La stragrande maggioranza dei senza tetto, secondo recenti studi ed inchieste, non sceglie di essere un barbone, ma è costretta a vivere in strada a causa di problemi economici e per la mancanza di reti familiari e amicali protettive. Una parte (15%-20%) rientra dopo qualche anno nei parametri di vita precedenti il barbonaggio, recuperando in qualche modo il reddito per pagare il fitto, il cibo, le spese di acqua, luce e gas. Una recente sentenza ha assolto un giovane barbone che aveva trafugato pochi euro di cibo in un supermercato, adducendo a ragione sufficiente il fatto che il soggetto aveva agito sotto l’impellente impulso di non morire di fame. Ipotizziamo che tale impellente ragione riguardi di sicuro i 70 milioni di bambini a rischio di morte per fame e malattia, citati in un recente allarme di una organizzazione internazionale.
Il barbone in definitiva è il frutto avvelenato di una organizzazione sociale spietata, l’effetto collaterale di un modello economico proteso alla conservazione del privilegio di una minoranza sociale. La società borghese svela il suo cuore segreto quando mostra lo spettacolo del senza tetto, del derelitto che vaga sotto i ponti, o nelle stazioni ferroviarie, rovistando nei bidoni della spazzatura alla ricerca di un avanzo da mettere sotto i denti. Quando si presenta l’occasione il genitore avveduto addita ai figli l’importanza dello studio, l’importanza di imparare un mestiere e non fare la fine di un barbone. Nella figura sociale del clochard si sostanzia l’incubo di chi teme di perdere le proprie sicurezze economiche, o di non avere i requisiti necessari per conseguire un reddito. L’incubo di cadere in basso, di toccare il fondo, ed essere costretto a chiedere l’elemosina, dormendo sotto i ponti e cercando il cibo nella spazzatura. Il piccolo borghese, pensando alla vita di stenti e privazioni del clochard, accetta con più rassegnazione il prezzo del servilismo richiesto dal capo ufficio, le vessazioni di qualche collega sadico, la monotonia del lavoro impiegatizio. Piccoli sacrifici, in fondo, in cambio della contropartita di vivere sotto un tetto, al caldo, con un pasto assicurato e degli abiti puliti. Queste considerazioni spingono molti ad accettare un lavoro poco gratificante, a farsi sfruttare facendo buon viso al cattivo gioco dei superiori e dei colleghi. Le motivazioni che spingono al servilismo nascono spesso dalla paura di precipitare nel girone della povertà, nella miseria estrema, di cui in un modo o in un altro trapelano immagini e notizie anche sui mass media di sistema.
Le drammatiche notizie sulla povertà estrema di vasta parte della specie umana, sono, se possibile, rese ancora più inaccettabili dalle immagini dello spreco consumistico in cui si crogiola un altra parte dell’umanità. Per non parlare dell’abietto e volgare sfoggio di abitudini di vita sfarzose e lussuose, tipiche di una minoranza di ultraricchi. In un mondo così segnato da appariscenti diseguaglianze e iniquità, le religioni monoteiste promettono il riscatto dalle sofferenze terrene, per le moltitudini, in un paradiso ultraterreno in cui l’anima immortale troverà confortevole rifugio. In attesa di questo premio riparatore nell’aldilà, le religioni predicano (spesso) la rassegnazione e la mansuetudine verso gli oppressori che qui ed ora, in questa valle di lacrime terrena, impediscono agli uomini di spezzare le catene della propria schiavitù. Indubbiamente le religioni prescrivono al fedele la carità, la misericordia e l’amore verso il prossimo, come percorso di elevazione spirituale personale, ma si tratta pur sempre di esortazioni che non hanno ancora impedito, nel corso della storia, la violenza del dominio di classe, la violenza dell’uomo sull’uomo. E dunque torniamo al problema della scelta di campo vera, reale, fra il bene della specie umana e il male che questa specie (la sua parte oppressa) subisce dai propri sfruttatori. Tertium non datur. Le argomentazioni precedenti non hanno lo scopo di legittimare una astratta violenza reattiva degli oppressi a danno dei propri oppressori, ma solo di riconoscere che sul piano della realtà spesso non basta una preghiera o una lacrima per impedire al singolo, o a una classe sociale, di continuare a opprimere le proprie vittime. Soprattutto non bastano le semplici esortazioni morali e le preghiere a fermare l’oppressione, quando un intero sistema socio-economico giustifica e supporta l’azione parassitaria e lo sfruttamento dell’uomo a danno dell’altro uomo. E dunque è un sistema di vita, e una correlata concezione del mondo che devono tramontare se la classe oppressa deve a sua volta tramontare. Tertium non datur..