Catalunya e questione nazionale

Premessa

Nel settembre 2015 abbiamo analizzato le cause fondamentali, ovviamente dal nostro punto di vista politico, delle periodiche convulsioni catalane. Non possiamo che riproporre anche oggi, a distanza di due anni, le stesse considerazioni (proprio perché non è affatto mutato il contesto socio-economico capitalistico in cui si svolgono le vicende catalane). Il nostro punto di vista è quello della classe proletaria mondiale, una classe che può spezzare la gabbia dell’oppressione capitalistica solo trascendendo i confini nazionali, proiettando la lotta (partendo da un punto di forza già acquisito) contro gli avversari più vicini al proprio raggio di azione (come avvenuto storicamente nel 1920, con l’attacco dell’Armata rossa all’esercito dello stato borghese polacco). Dunque cosa c’entra l’internazionalizzazione della lotta di classe con l’indipendenza nazionale catalana: la risposta è nulla. Proviamo a sintetizzare in poche righe i concetti già contenuti nel testo del 2015. Le lotte nazionali contemporanee sono tendenzialmente lotte per la difesa di interessi capitalistici di specifiche aree economiche più sviluppate di altre, per questo motivo desiderose di ottenere vantaggi fiscali dal movimento di secessione/indipendenza dallo stato centrale preesistente ( riduzione/azzeramento della quota di costi tributari da versare annualmente). Tuttavia gli stati preesistenti al moto di secessione, e gli stati nati successivamente al raggiungimento della secessione, sono allo stesso modo uno strumento di oppressione della classe proletaria, dunque non si comprende la ragione di un coinvolgimento/parteggiamento del proletariato per uno dei due o più padroni in competizione. Nel capitalismo, così come esiste la concorrenza fra singole imprese economiche, così esiste pure la concorrenza fra aree economiche sussistenti all’interno di una stessa economia nazionale o addirittura fra diverse economie nazionali o blocchi economico-politici sovranazionali. Le bandiere scintillanti sotto cui gli attori capitalistici combattono le loro lotte possono essere molteplici, tuttavia unico è il motivo di fondo del contendere, ovvero il potere economico e politico. Qualche anima candida, di fronte alle attuali vicende catalane, sciorina anche oggi il solito repertorio dell’indignazione democratica, ignara del terreno capitalistico su cui sorgono quelle vicende.

Catalunya e questione nazionale: bandiere nazionali e processi reali di lotta (per i propri interessi) da parte di differenti aree economico-aziendali capitalistiche.

L’abito non fa il monaco, e anche le fiere dichiarazioni di fervore religioso o indipendentista non fanno né l’uomo pio, né il cosiddetto patriota autentico. Ci accingiamo a proporre alcune analisi sul recente voto in Catalogna, voto che ha attualizzato la ricetta nazionale-indipendentista come scorciatoia ‘evergreen’ per tutelare e rafforzare la posizione di determinate aree economiche capitalistiche. Il capitalismo produce incessantemente diseguaglianze sociali e squilibri di sviluppo economico fra aree territoriali e geografiche, sia all’interno di uno stesso recinto statale-nazionale, sia fra differenti recinti statali-nazionali.

Lo squilibrio fra i livelli di sviluppo di aree economiche diverse assume un aspetto funzionale (generalmente) alla creazione di un esercito industriale di lavoratori di riserva inoccupati, pronti a sostituire la forza-lavoro occupata, in caso di richieste salariali non compatibili da parte di questi, oppure da occupare quando il ciclo delle vendite spinge verso una maggiore produzione di beni e di servizi. Basta ricordare l’esempio storico dell’impiego massiccio di forza-lavoro meridionale, nel dopoguerra, nelle industrie del nord Italia, per dare l’idea del meccanismo di un sottosviluppo funzionale di certe aree economiche, rispetto al quadro economico capitalistico generale. Prima di fornire alcuni dati economici comparativi delle varie regioni spagnole, vorremmo abbozzare una breve ricognizione delle posizioni di Engels in merito alla questione nazionale. A proposito del risorgimento nazionale italiano, il 23 gennaio 1848 egli scrive “Il movimento (risorgimentale) in Italia è pertanto un movimento decisamente borghese. Tutte le classi entusiasmate dalle riforme, dai principi e dai nobili fino ai pifferai e ai lazzaroni, si presentano per il momento come borghesi. Il papa, per il momento, è il primo borghese d’Italia. Quando i borghesi l’avranno fatta finita con il nemico esterno, in casa propria essi separeranno i montoni dalle pecore… e allora i lavoratori di Milano, di Firenze e di Napoli scopriranno che è proprio ora che comincia il loro lavoro.” Comincerà il lavoro vero per i proletari, ovvero scontrarsi con la dominazione sociale borghese dei connazionali, altrettanto feroce e pervasiva di quella riferibile al precedente regime oppressivo ‘straniero’. Il sostegno proletario alla lotta anti-feudale, o per l’indipendenza nazionale è temporaneo e condizionato, esso significa solo contribuire alla scomparsa di stratificazioni sociali anacronistiche, stratificazioni che impediscono il necessario chiarimento delle forze che realmente si affrontano nel campo storico del capitalismo moderno. La comune di Parigi, tuttavia, dimostra che in occidente, almeno a partire dal 1870 non ci sono più le ragioni sociali per ulteriori adesioni a lotte borghesi nazionali, poiché nel momento decisivo per la conservazione o la rottura del sistema, la borghesia trascende le barriere nazionali (francesi/prussiani nel caso della comune) e fa blocco contro il nemico di classe proletario. Ancora nel 1920, a Baku, si tiene il congresso dei popoli dell’oriente, ultimo scampolo sensato, dal punto di vista storico-politico di un coinvolgimento in lotte nazionali-rivoluzionarie, leggiamo cosa scrive la corrente in Prometeo n. 2, II serie del febbraio 1951‘Questi (i popoli oppressi di colore) si raggruppano in un blocco potente attorno alla Russia e si levano contro il blocco occidentale, che ha alla testa le grandi potenze coloniali bianche. Non sono soltanto gli anti-atlantici a gridare che questa era la grande prospettiva rivoluzionaria russa fin dal principio: alleanza, con lo Stato dei Soviet, da una parte della classe operaia dei paesi occidentali, dall’altra dei popoli oppressi di colore, per abbattere l’imperialismo capitalista. Sono gli stessi giornalisti della sponda americana che, rievocando la lotta come era impostata trenta anni addietro, rendono omaggio al loro nemico per la potente continuità storica nella sua strategia mondiale.

Nel settembre del 1920, dunque tra il secondo e il terzo Congresso della III Internazionale, ben ferma sulle direttive del marxismo rivoluzionario, si tiene, ricordano quei giornalisti, a Baku il Congresso dei popoli di Oriente. Quasi duemila delegati, dalla Cina all’Egitto, dalla Persia alla Libia. E’ Zinoviev, che pure non aveva l’allure del guerriero, che legge il manifesto conclusivo dei lavori, è il presidente della Internazionale Proletaria; e alla sua voce gli uomini di colore rispondono con un solo grido levando spade e scimitarre. “L’Internazionale Comunista invita i popoli dell’Oriente a rovesciare colla forza delle armi gli oppressori di Occidente; a tal uopo proclama contro di essi la Guerra santa, e designa l’Inghilterra come primo nemico da affrontare e combattere!”.

Ma un non diverso grido di guerra è lanciato verso il Giappone, contro il quale si invoca l’insurrezione nazionale dei Coreani, mentre l’odio bolscevico viene nel proclama di Zinoviev dichiarato anche alla Francia e all’America, “ai pescecani statunitensi che hanno bevuto il sangue dei lavoratori delle Filippine”.”

Un uomo piccolo dai corti baffi biondi, dalla calma voce e dagli occhi luminosi e limpidi legge dalla tribuna del Kremlino le sue tesi sulla questione nazionale e coloniale, e la risolve in nuova chiarezza tra l’ammirazione dei rappresentanti del proletariato e del marxismo nel mondo. Sì, la Seconda Internazionale non aveva capito nulla di questo, aveva condannato l’imperialismo, ma poi era caduta nelle sue spire per non avere inteso che contro di esso bisognava mobilitare tutte le forze: nella madre patria il disfattismo della insurrezione sociale, nelle colonie e nei paesi semi-coloniali anche la rivolta nazionale. Era caduta nell’inganno della difesa della patria, i suoi capi traditori avevano mangiato nel piatto dell’imperialismo, invitando i lavoratori della grande industria ad accettare qualche briciola del feroce sfruttamento su milioni di uomini di oltremare’.

Si può ben arguire che a Baku i comunisti sostengono le lotte di indipendenza nazionale-rivoluzionaria contro l’oppressione coloniale, nella prospettiva che il proletariato, che in esse gioca un ruolo attivo, possa in una fase successiva prendere la guida del processo di cambiamento. Riprendiamo un altro stralcio da Oriente, Prometeo n. 2, II serie del febbraio 1951

Il fine essenziale del partito comunista è la lotta contro la democrazia borghese, di cui si tratta di smascherare l’ipocrisia (Lenin)”. Questa ipocrisia copre la realtà della oppressione sociale nel mondo borghese tra padrone ed operaio, e la realtà della oppressione dei grandi e pochi Stati imperiali sulle colonie e semi-colonie. Per stabilire la nostra strategia in Oriente, le tesi di Lenin ribadiscono una serie di capisaldi. “Dobbiamo por fine alle illusioni nazionali della piccola borghesia sulla possibilità di una pacifica convivenza e di una eguaglianza tra le nazioni sotto il regime capitalista”. “Senza la nostra vittoria sul capitalismo non possono essere abolite né le oppressioni nazionali né l’ineguaglianza sociale”. “La congiuntura politica mondiale attuale [1920] mette all’ordine del giorno la dittatura del proletariato; e tutti gli avvenimenti della politica internazionale convergono inevitabilmente intorno a questo centro di gravità: la lotta della borghesia internazionale contro la repubblica dei Soviet, che deve raggruppare attorno a sé, da una parte tutti i movimenti di classe dei lavoratori avanzati in tutti i paesi, dall’altra quelli emancipatori nazionali nelle colonie e nazioni oppresse”. Nel compito della Internazionale Comunista va tenuto conto “della tendenza alla realizzazione di un piano economico mondiale la cui applicazione regolare sarebbe controllata dal proletariato vincitore di tutti i paesi”.

Altri punti fondamentali stanno a base della tattica “orientale”. Non potrebbero essere più rassicuranti. “Diventa attuale il problema della trasformazione della dittatura proletaria nazionale (che esiste in un solo paese e non può perciò esercitare una influenza decisiva sulla politica mondiale) in dittatura proletaria internazionale (quale realizzerebbero almeno diversi paesi avanzati, capaci di influire in modo decisivo sulla politica mondiale)“. Prometeo n.2 del 1951 cita dunque ripetutamente Lenin, riportato in corsivo, per ben inquadrare il contesto storico di accentuata fase di attacco del proletariato agli istituti borghesi (in occidente e in oriente) e il fine strategico-politico di fronteggiare la lotta controrivoluzionaria della borghesia internazionale contro la repubblica dei soviet (raggruppando in sostegno ad essa ‘tutti i movimenti di classe dei lavoratori avanzati in tutti i paesi, dall’altra quelli emancipatori nazionali nelle colonie e nazioni oppresse’). L’appoggio alla lotta dei movimenti emancipatori nazionali nelle colonie e nazioni oppresse, non è quindi fine a se stesso, per i comunisti nel 1920, ma ha lo scopo rivoluzionario di scardinare l’attacco della borghesia internazionale (imperiale) alla repubblica dei soviet, e di innescare (in oriente e occidente), anche previo sostegno in oriente ai movimenti ‘emancipatori nazionali nelle colonie’ in oriente, la ‘trasformazione della dittatura proletaria nazionale (che esiste in un solo paese e non può perciò esercitare una influenza decisiva sulla politica mondiale) in dittatura proletaria internazionale’.

Il testo contenuto in Prometeo affronta espressamente il tema del passaggio dall’economia agraria di sussistenza, o meglio dall’azienda agricola di autoconsumo a carattere familiare, all’economia agraria su base capitalistica. Tale passaggio rappresenta uno degli snodi del divenire della dominazione coloniale/imperiale nelle aree ‘orientali’, cioè nelle aree in cui sono attive delle lotte nazionali-rivoluzionarie. Citiamo ancora: “Che cosa dicessero le tesi nazionali lo ricordammo anche nel citato articolo Oriente. Lenin parlò brevemente per giustificare la sostituzione del termine di movimenti «democratici borghesi» nei paesi arretrati, con quello di: «nazionalisti rivoluzionari». Il secondo termine metteva avanti una insurrezione in armi indigena contro occupatori bianchi imperialisti, il primo poteva far pensare ad un blocco legalitario con locali borghesi scimmiottatori del parlamentarismo occidentale. Ma tutta la costruzione verte su di un fatto di peso storico innegabile, oggi reso più grandioso, oggi che, dopo il disfattismo degli stalinisti, danno più filo da torcere all’imperialismo di Occidente i moti nelle colonie e semi-colonie che quelli proletari delle metropoli, oggi che istituti tremendamente statici come quelli terrieri e teocratici di Oriente stanno paurosamente crollando in un mareggiare di guerre civili.

L’indiano Roy presentò tesi supplementari, accolte da Lenin. Marxisticamente incontestabile è la tesi VI, con cui chiudiamo questa parte.

«L’imperialismo straniero artificialmente imposto ai popoli d’Oriente ne ha senza dubbio frenato lo sviluppo sociale ed economico, privandoli della possibilità di attingere il grado di sviluppo invece raggiunto in Europa e in America. A causa della politica imperialistica intesa ad impedire lo sviluppo industriale nelle colonie, il proletariato indigeno in senso proprio ha cominciato ad esistere solo da poco. La sparpagliata industria domestica locale ha ceduto il campo di fronte alla concorrenza dei prodotti delle industrie centralizzate dei paesi imperialistici: l’immensa maggioranza della popolazione è perciò costretta a dedicarsi all’agricoltura o alla produzione di materie prime per l’esportazione. D’altro lato, si può osservare una sempre più rapida e intensa concentrazione del suolo nelle mani dei grandi proprietari fondiari, del capitale finanziario e dello Stato, il che contribuisce a sua volta ad accrescere il numero dei contadini senza terra [citiamo questo soprattutto per mostrare il nesso stretto tra problema nazionale-coloniale ed agrario]. E l’enorme maggioranza della popolazione si trova in uno stato di oppressione.

In conseguenza di questa politica, lo spirito ribelle, presente ma non completamente dispiegato nelle masse popolari, trova espressione soltanto nella classe media colta [non dimenticate che vi parla un indiano, ed egli, come un cinese, ci può regalare più millenni di ‘civiltà’ e di ‘cultura’ di quanti noi ne possiamo regalare all’America].

La dominazione straniera frena costantemente il libero sviluppo della vita sociale. Per questo il primo passo della rivoluzione deve essere il suo abbattimento. Appoggiare la lotta per l’abbattimento della dominazione straniera nelle colonie non significa quindi far proprie le aspirazioni nazionali della borghesia indigena, ma aprire al proletariato delle colonie la via della sua emancipazione».

Il testo parla delle aspirazioni nazionali della borghesia indigena, dell’affermazione di esse come passo preliminare per la successiva emancipazione del proletariato, così come Engels  parla della situazione risorgimentale italiana e delle sue prospettive ‘ Quando i borghesi l’avranno fatta finita con il nemico esterno, in casa propria essi separeranno i montoni dalle pecore… e allora i lavoratori di Milano, di Firenze e di Napoli scopriranno che è proprio ora che comincia il loro lavoro’.

Ora (2015) dobbiamo confrontarci con la situazione contemporanea, poiché venuto meno il quadro di rapporti coloniali/imperialisti degli anni 20, o del periodo immediatamente successivo alla fine della seconda guerra mondiale, diventa problematico continuare a ipotizzare l’utilità (per il progresso della lotta di classe) di ulteriori tattiche di sostegno a eventuali lotte nazionali, o addirittura a lotte con sfondo religioso, mentre ci dobbiamo interrogare invece sul significato reale dei fenomeni di reviviscenza nazional-religiosa contemporanei, come abbiamo tentato di fare nel lavoro sull’Ucraina e in quello sullo stato islamico e la politica americana del caos, individuando le linee di congiunzione fra le esigenze permanenti di dominio (di risorse naturali e forza-lavoro) dei blocchi imperiali, e le dinamiche di scomposizione e ricomposizione della lotta per l’accaparramento di quote di plus-valore e per il controllo dell’apparato statale condotta dai ‘fratelli coltelli’ delle varie borghesie nazionali. Nella situazione capitalistica attuale diventa dunque predominante la funzione puramente ideologica delle variegate mascherature ‘nazionali-religiose’, miranti a occultare sotto il velo di queste improbabili rivendicazioni, totalmente disinnestate dalla tendenziale omogenizzazione del contesto storico-economico capitalistico, la lotta feroce per la spartizione del bottino di plus-valore e la conseguente esigenza di controllo della attrezzatura di oppressione statale nazionale ( utilizzata per opprimere il proprio proletariato e combattere con le borghesie rivali esterne, o con frazioni rivali interne).

In ‘Tracciato d’impostazione’ (1946) vengono definite le linee di sviluppo del capitalismo, riassumendone in tre fasi le caratteristiche fondamentali, prima fase:

La borghesia appare come classe apertamente rivoluzionaria e conduce una lotta armata per rompere le forme dell’assolutismo feudale e clericale, vincoli che legano le forze lavoratrici dei contadini alla terra e quelle degli artigiani al corporativismo medievale.”In questa situazione il nascente proletariato partecipa alla lotta contro il morente regime feudale, soprattutto contro le sue sopravvivenze sovrastrutturali. Con la comune di Parigi il proletariato prova a scardinare il nuovo regime di oppressione borghese, verificando l’unità di classe della borghesia internazionale quando il suo unitario sistema sociale è minacciato. Da questo momento svanisce ogni residuo senso politico-storico di sostegno alla propria borghesia nazionale in occidente (anche se la situazione e il senso politico-storico precedente al 1871 permane in Russia al momento della rivoluzione bolscevica, in altri paesi dell’Est, e si ripropone con caratteri diversi in ‘oriente’ fino al secondo dopoguerra).

In una seconda fase (1871/1914), il capitalismo si manifesta in maniera ‘riformista’.

Nella seconda fase, stabilizzatosi ormai il sistema capitalistico, la borghesia si proclama esponente del migliore sviluppo per il benessere di tutta la collettività sociale e percorre una fase relativamente tranquilla di svolgimento delle forze produttive, di conquista al proprio metodo di tutto il mondo abitato, di intensificazione di tutto il ritmo economico.”

Parliamo chiaramente di una fase di miglioramento e crescita delle forze produttive materiali, all’interno di un quadro sociale di alienazione e di sfruttamento persistente della stragrande maggioranza dell’umanità. La terza fase inizia nel 1914, con la scelta nazionalista dei maggiori partiti socialisti dell’epoca (in occasione della prima guerra mondiale). Questa è la fase dell’imperialismo, della guerra tendenzialmente permanente (cronica/acuta) fra blocchi di borghesia concorrente aggregati intorno a mostruosi apparati militari-industriali ( assistiti da complementari apparati scientifico-tecnologici). Questi apparati sono ora funzionali al dominio globale e all’esigenza di distruzione di capitale costante e variabile in eccesso.

La terza fase è quella del moderno imperialismo, caratterizzato dalla concentrazione monopolistica dell’economia, dal sorgere dei sindacati e trust capitalistici, dalle grandi pianificazioni dirette dai centri statali. L’economia borghese si trasforma e perde i caratteri del classico liberismo, per cui ciascun padrone d’azienda era autonomo nelle sue scelte economiche e nei suoi rapporti di scambi. Interviene una disciplina sempre più stretta della produzione e della distribuzione; gli indici economici non risultano più dal libero gioco della concorrenza, ma dall’influenza di associazioni fra capitalisti prima, di organi di concentrazione bancaria e finanziaria poi, infine direttamente dello stato. Lo stato politico, che nell’accezione marxista era il comitato di interessi della classe borghese e li tutelava come organo di governo e di polizia, diviene sempre più un organo di controllo e addirittura di gestione dell’economia’.

Siamo ai nostri giorni, lo sviluppo del modo di produzione capitalistico ha sovvertito i precedenti rapporti fra città e campagna, e attraverso la potente industrializzazione dell’economia (con annessa introduzione di macchinario e conseguente espulsione di lavoro salariato dal processo produttivo) ha determinato la crescita di una massa enorme di popolazione eccedente i ‘regolari’ bisogni di valorizzazione del capitale investito, i connessi flussi migratori ‘epocali’, e la conseguente necessità di controllo e repressione. Su questa ultima ‘necessità’ si gioca il ruolo preminente che l’attrezzatura statale ha assunto in questa fase, e che ci spinge a caratterizzare il vero volto del dominio borghese, sia nella fase apparentemente democratico-parlamentare che in quella apertamente dispotico-totalitaria, come quella di un regime unico sostanzialmente autoritario e ‘fascista’ (riunione generale del 1953, svoltasi a Genova ‘il partito rivoluzionario di classe è solo ad intendere che oggi i postulati economici, sociali e politici del liberalismo e della democrazia sono antistorici, illusori e reazionari, e che il mondo è alla svolta per cui nei grandi paesi l’organamento liberale scompare e cede il posto al più moderno sistema fascista’). Un regime basato sull’impiego di Moloch statali per il controllo e la repressione della lotta di classe, cioè delle azioni di lotta dei lavoratori occupati e sfruttati e anche di coloro che il sistema pone ai margini della stessa possibilità di sopravvivenza biologica nelle nuove realtà metropolitane (disoccupati, sottoccupati, autoctoni e migranti). In un quadro contemporaneo generale di drammatica realizzazione delle marxiste leggi tendenziali di crescita dell’eccedenza di forza-lavoro (non impiegabile con profitto nel processo produttivo capitalistico), e di conseguente impoverimento progressivo della popolazione, trovano senso e spiegazione anche le fughe e gli arroccamenti nazionalistici-indipendentisti di quelle aree economiche ‘forti’ (Catalogna, Veneto), che con l’indipendenza sognano di sfuggire ai rischi delle tensioni politico-sociali innescate dal divenire del modo di produzione capitalistico. Un borghese arroccamento e una difesa estrema di temporanee condizioni privilegiate (tentando di coinvolgere in questa difesa anche i propri proletari), dentro la immanente lotta fra fratelli-coltelli tipica della realtà socio-economica capitalistica. Nient’altro che un accentuazione della dialettica fra aree economiche differenziate tipica del sistema capitalistico (l’accentuazione è chiaramente collegata al momento economico contingente). Di conseguenza, una volta compreso l’arcano economico-sociale che si cela dietro queste anacronistiche rivendicazioni separatiste, autonomiste, indipendentiste o localistiche, si deve decisamente condannare ogni confluenza di energie proletarie in loro sostegno, così come è da escludere la lotta per l’interesse nazionale, o per il risultato gestionale annuale dell’azienda in cui si lavora come schiavo salariato. L’eventuale lotta comune di borghesi e proletari per la creazione di un nuovo apparato statale-nazionale, esito finale di queste ricorrenti rivendicazioni separatiste, autonomiste, indipendentiste e localistiche, per il proletariato non significherebbe altro, paradossalmente,  che farsi spingere (dalla propria borghesia indipendentista) a fabbricare con le proprie mani le mura di una nuova prigione statale in cui continuare a vivere da schiavi (1).

(1)“Il capitalismo, premessa dialettica del socialismo, non ha più bisogno di essere aiutato a nascere (affermando la sua dittatura rivoluzionaria) né a crescere (nella sua sistemazione liberale e democratica). Esso inevitabilmente concentra nella fase moderna il suo patrimonio economico e la sua forza politica in unità mostruose. Il suo trasformismo e il suo riformismo assicurano il suo sviluppo e difendono la sua conservazione al tempo stesso. Il movimento della classe operaia non soggiacerà al suo dominio solo se si porrà fuori dal terreno dell’aiuto alle pur necessarie evoluzioni del divenire capitalistico, riorganizzando le sue forze fuori da queste prospettive superate, scrollandosi di dosso il peso delle tradizioni del vecchio metodo, denunciando – già con un’intera fase storica di ritardo – il suo concordato tattico con ogni forma di riformismo”. Tracciato d’impostazione, “Prometeo” luglio 1946

Qual è la via per arrivare, su tali basi, alla soluzione di problemi come, ad esempio, quello nazionale? Questo vogliamo ricordare, nelle linee più elementari. I revisionisti parlavano di un esame condotto volta per volta sulle situazioni contingenti, ed esente da preoccupazioni di principi e di finalità generali. […] A questi criteri si giunge con una considerazione in cui sta tutta la forza rivoluzionaria del marxismo. Noi non possiamo né dobbiamo risolvere la questione, poniamo, dei dockers inglesi o dei lavoratori della Finlandia coi soli elementi tratti dallo studio, con metodo deterministico – storico, della situazione di quella categoria operaia o di questa nazione, nei limiti di spazio e di tempo che si pongono in modo immediato alle condizioni del problema. Vi è un interesse superiore che guida il nostro movimento rivoluzionario, col quale quegli interessi parziali non possono contrastare se si considera tutto lo svolgimento storico, ma la cui indicazione non sorge immediatamente dai singoli problemi concernenti gruppi del proletariato e dati momenti delle situazioni. Questo interesse generale è, in una parola, l’interesse della Rivoluzione Proletaria, ossia l’interesse del proletariato considerato come classe mondiale dotata di un’unità di compito storico e tendente ad un obiettivo rivoluzionario, al rovesciamento dell’ordine borghese. Subordinatamente a questa suprema finalità noi possiamo e dobbiamo risolvere i singoli problemi.” Bordiga, 1924.

Postilla: echi teorici

In una riunione generale del 1953, svoltasi a Genova il partito definiva il tema delle rivoluzioni multiple e la rivoluzione capitalistica occidentale, arrivando, per le aree di doppia rivoluzione, a sostenere alcune cose precise. Inoltre ci è parso interessante inserire in fondo alla postilla alcuni passi tratti da testi pubblicati per la prima volta negli anni 60, nel ‘Programma comunista’, e riferentisi alle riunioni sul tema del partito, le parti citate hanno  evidenti implicazioni con la questione nazionale. Abbiamo ingrandito la dimensione dei caratteri di alcuni passaggi che ci sembrano particolarmente chiarificatori per la vexata quaestio di cui stiamo trattando. Speriamo così di fornire un supporto di documentazione a tutti coloro che ricercano risposte su tale argomento, spesso fonte di divergenti letture e interpretazioni.

LE RIVOLUZIONI MULTIPLE

1. La posizione della Sinistra Comunista si distingue nettamente (oltre che dall’eclettismo di manovra tattica del partito) dal bruto semplicismo di chi riduce tutta la lotta al dualismo sempre ed ovunque ripetuto di due classi convenzionali, sole ad agire. La strategia del moderno movimento proletario ha precise e stabili linee valevoli per ogni ipotesi di azione futura, che vanno riferite a distinte “aree” geografiche in cui si suddivide il mondo abitato, e a distinti cicli di tempo.

2. L’area prima e classica dal cui gioco di forze fu tratta la prima volta l’irrevocabile teoria del corso della rivoluzione socialista è quella inglese. Dal 1688 la rivoluzione borghese ha soppresso il potere feudale e rapidamente estirpate le forme di produzione feudali, dal 1840 è possibile dedurre la concezione marxista sul gioco di tre essenziali classi: proprietà borghese della terra – capitale industriale, commerciale, finanziario – proletariato, in lotta colle due prime.

3. Nell’area europea occidentale (Francia, Germania, Italia, paesi minori) la lotta borghese contro il feudalesimo va dal 1789 al 1871, e nelle situazioni di questo corso si pone l’alleanza del proletariato coi borghesi quando lottano colle armi per rovesciare il potere feudale mentre già i partiti operai hanno rifiutata ogni confusione ideologica colle apologie economiche e politiche della società borghese.

4. Col 1866 gli Stati Uniti di America si pongono nelle condizioni dell’Europa Occidentale dopo il 1871, avendo liquidato forme capitalistiche spurie con la vittoria contro il sudismo schiavista e rurale. Dal 1871 in poi, in tutta l’area euramericana, i marxisti radicali rifiutano ogni alleanza e blocco con partiti borghesi.

5. La situazione pre-1871, di cui al punto 3, dura in Russia e in altri paesi dell’Est europeo fino al 1917, e si pone in essi il problema già noto alla Germania 1848: provocare due rivoluzioni, e quindi lottare anche per i compiti di quella capitalista. Condizione per un passaggio diretto alla seconda rivoluzione proletaria era la rivoluzione politica in Occidente, che venne meno, pure avendo la classe proletaria russa conquistato sola il potere politico, conservandolo per alcuni anni.

6. Mentre nell’area europea di Oriente può oggi considerarsi compiuta la sostituzione del modo capitalista di produzione e di scambio a quello feudale, nell’area asiatica è in pieno corso la rivoluzione contro il feudalesimo, e regimi anche più antichi, condotta da un blocco rivoluzionario di classi borghesi, piccolo borghesi e lavoratrici.

7. L’analisi svolta ormai ampiamente illustra come in questi tentativi di doppia rivoluzione si siano attuati vari esiti storici: vittoria parziale e vittoria totale, sconfitta sul terreno insurrezionale con vittoria sul terreno economico-sociale e viceversa. Fondamentale è per il proletariato la lezione delle semi-rivoluzioni e delle controrivoluzioni. Classici tra tanti esempi sono: Germania post-1848: doppia sconfitta insurrezionale di borghesi e proletari, vittoria sociale della forma capitalista e graduale stabilirsi di potere borghese. Russia post 1917: doppia vittoria insurrezionale di borghesi e proletari (febbraio e ottobre), sconfitta sociale della forma socialista, vittoria sociale della forma capitalista.

8. La Russia, almeno per la parte europea, ha oggi un meccanismo di produzione e scambio già capitalistico in pieno, la cui funzione sociale è riflessa politicamente in un partito e un governo che ha esperito tutte le possibili strategie di alleanze con partiti e Stati borghesi dell’area di Occidente. Il sistema politico russo è un frontale nemico del proletariato e ogni alleanza con esso è inconcepibile, fermo restando che aver fatto vincere nella Russia la forma capitalistica di produzione è risultato rivoluzionario.

9. Per quei paesi dell’Asia, ove ancora domina l’economia locale agraria di tipi patriarcali e feudali, la lotta anche politica delle “quattro classi” è un elemento di vittoria nella lotta internazionale comunista, pur quando ne sorgano in via immediata poteri nazionali e borghesi, sia per la formazione di nuove aree atte alla posizione delle rivendicazioni socialiste ulteriori, sia per i colpi portati da tali insurrezioni e rivolte all’imperialismo euro americano.”

In conclusione, la tattica che applicherà il partito proletario internazionale pervenendo alla sua ricostituzione in tutti i paesi, dovrà basarsi sulle seguenti direttive. Dalle pratiche esperienze delle crisi opportunistiche e delle lotte condotte dai gruppi marxisti di sinistra contro i revisionismi della II Internazionale e contro la deviazione progressiva della III Internazionale, si è tratto il risultato che non è possibile mantenere integra l’impostazione programmatica, la tradizione politica e la solidità organizzativa del partito se questo applica una tattica che, anche per le sole posizioni formali, comporta attitudini e parole d’ordine accettabili dai movimenti politici opportunistici. Similmente, ogni incertezza e tolleranza ideologica ha il suo riflesso in una tattica ed in un’azione opportunistica. Il partito, quindi, si contraddistingue da tutti gli altri, apertamente nemici o cosiddetti affini, ed anche da quelli che pretendono di reclutare i loro seguaci nelle file della classe operaia, perché la sua prassi politica rifiuta le manovre, le combinazioni, le alleanze, i blocchi che tradizionalmente si formano sulla base di postulati e parole di agitazione contingenti comuni a più partiti.

Questa posizione del partito ha un valore essenzialmente storico, e lo distingue nel campo tattico da ogni altro, esattamente come lo contraddistingue la sua originale visione del periodo che presentemente attraversa la società capitalistica.

Il partito rivoluzionario di classe è solo ad intendere che oggi i postulati economici, sociali e politici del liberalismo e della democrazia sono antistorici, illusori e reazionari, e che il mondo è alla svolta per cui nei grandi paesi l’organamento liberale scompare e cede il posto al più moderno sistema fascista.

Nel periodo, invece, in cui la classe capitalistica non aveva ancora iniziato il suo ciclo liberale, doveva ancora rovesciare il vecchio potere feudalistico, od anche doveva ancora in paesi importanti percorrere tappe e fasi notevoli della sua espansione, ancora liberistica nei processi economici e democratica nella funzione statale, era comprensibile ed ammissibile una alleanza transitoria dei comunisti con quei partiti che, nel primo caso, erano apertamente rivoluzionari, antilegalitari ed organizzati per la lotta armata, nel secondo caso assolvevano ancora un compito che assicurava condizioni utili e realmente “progressive”

perché il regime capitalistico affrettasse il ciclo che deve condurre alla sua caduta.

Il passaggio tra le due epoche storiche della tattica comunista non può essere sminuzzato in una casistica locale e nazionale, né andarsi a disperdere nell’analisi delle complesse incertezze, che indubbiamente presenta il ciclo del divenire capitalistico, senza sfociare nella prassi deprecata da Lenin di “un passo avanti e due indietro”.

La politica del partito proletario è anzitutto internazionale (e ciò lo distingue da tutti gli altri) fin dalla prima enunciazione del suo programma e dal primo presentarsi della esigenza storica della effettiva sua organizzazione. Come dice il Manifesto, i comunisti, appoggiando dappertutto ogni movimento rivoluzionario che sia diretto contro il presente stato di cose, politico e sociale, mettono in rilievo e fanno valere, insieme alla questione della proprietà, quei comuni interessi del proletariato tutto intero, che sono indipendenti dalla nazionalità.

E la concezione della strategia rivoluzionaria comunista, fin quando non fu traviata dallo stalinismo, è che la tattica internazionale dei comunisti si ispira allo scopo di determinare lo sfondamento del fronte borghese nel paese in cui ne appaiono le maggiori possibilità, indirizzando a questo fine tutte le risorse del movimento.

Per conseguenza, la tattica delle alleanze insurrezionali contro i vecchi regimi storicamente si chiude col grande fatto della Rivoluzione in Russia, che eliminò l’ultimo imponente apparato statale militare di carattere non capitalistico. Dopo tale fase, la possibilità anche teorica della tattica dei blocchi deve considerarsi formalmente e centralmente denunziata dal movimento internazionale rivoluzionario.

L’eccessiva importanza data, nei primi anni di vita della III Internazionale, alla applicazione delle posizioni tattiche russe ai paesi di stabile regime borghese, ed anche a quelli extra-europei e coloniali, fu la prima manifestazione del ricomparire del pericolo revisionistico.

La caratteristica della seconda guerra imperialistica e delle sue conseguenze già evidenti è la sicura influenza in ogni angolo del mondo, anche quello più arretrato nei tipi di società indigena, non tanto delle prepotenti forme economiche capitalistiche, quanto dell’inesorabile controllo politico e militare da parte delle grandi centrali imperiali del capitalismo; e per ora della loro gigantesca coalizione, che include lo Stato russo.

Per conseguenza, le tattiche locali non possono essere che aspetti della strategia generale rivoluzionaria, il cui primo compito è la restaurazione della chiarezza programmatica del partito proletario mondiale, seguita dal ritessersi della rete della sua organizzazione in ogni paese. Questa lotta si svolge in un quadro di massima influenza degli inganni e delle seduzioni dell’opportunismo, che si riassumono ideologicamente nella propaganda della riscossa per la libertà contro il fascismo, e, con immediata aderenza, nella pratica politica delle coalizioni, dei blocchi, delle fusioni e delle rivendicazioni illusorie presentate dalle colludenti gerarchie di innumeri partiti, gruppi e movimenti.

In un solo modo sarà possibile che le masse proletarie intendano l’esigenza della ricostituzione del partito rivoluzionario, diverso sostanzialmente da tutti gli altri, ossia proclamando non come contingente reazione ai saturnali opportunistici ed alle acrobazie delle combinazioni dei politicanti, ma come direttiva fondamentale e centrale, il ripudio storicamente irrevocabile della pratica degli accordi tra partiti.

Nessuno dei movimenti, a cui il partito partecipa, deve essere diretto da un sopra-partito o organo superiore e sovrastante ad un gruppo di partiti affiliati, nemmeno in fasi transitorie.

Nella moderna fase storica della politica mondiale, le masse proletarie potranno di nuovo mobilitarsi rivoluzionariamente soltanto attuando la loro unità di classe nella azione di un partito unico e compatto nella teoria, nella azione, nella preparazione dell’attacco insurrezionale, nella gestione del potere.

Tale soluzione storica deve in ogni manifestazione, anche circoscritta, del partito,apparire alle masse come l’unica possibile alternativa contro il consolidamento internazionale del dominio economico e politico della borghesia e della sua capacità non definitiva, ma tuttavia oggi grandeggiante, di controllare formidabilmente i contrasti e le convulsioni che minacciano l’esistenza del suo regime’.

Postilla 2

Avevamo anticipato, all’inizio dell’esposizione, la fornitura di alcuni scarni dati numerici comparativi fra l’area economica catalana e il resto della Spagna, in modo da dimostrare l’esistenza di un certo divario di indicatori economici, e il conseguente (ipotizzabile) condizionamento che ne deriva sul piano della diffusione di aspirazioni sociali indipendentiste, tradottosi poi nel recente voto popolare e nei correlati disegni politici.

Nella Catalogna è concentrato il 16% della popolazione spagnola, cioè 7 milioni e mezzo di abitanti, su un totale di oltre 47 milioni. Nella regione catalana viene realizzato il 20% del PIL spagnolo e il 23% della produzione industriale. Inoltre hanno sede in questa area circa 5.700 multinazionali estere, ovvero quasi la metà (circa 46%) delle imprese estere che investono in Spagna. Il 25% dell’export spagnolo viene prodotto in Catalogna,che manda sui mercati internazionali quasi il 30% del proprio PIL. Nell’area catalana il PIL pro capite è più alto della media nazionale e anche continentale: cioè 26.500 euro contro i 22.500 della Spagna. La disoccupazione è al 19,1%, mentre la media nazionale è 22%. Questi dati esprimono quella che, a nostro avviso, è la importante determinante economica che sta a fondamento degli attuali processi di scomposizione e ricomposizione degli equilibri inter-capitalistici spagnoli (certamente non l’unica determinante, ma a nostro avviso quella decisiva, in ultima istanza).

Quali prospettive politiche potrebbero aprirsi, il condizionale è di obbligo, se davvero la Catalogna diventasse indipendente?

La scomposizione dello stato nazionale iberico potrebbe determinare l’accelerazione di analoghi processi separatisti presenti da decenni in altre aree economiche europee. Si può prevedere, tuttavia, che tali processi possano realizzarsi con successo solo nelle aree economiche ‘forti’, cioè nelle aree dove la separazione implicherebbe un immediato e momentaneo miglioramento dei parametri relativi al reddito annuale pro-capite e al Welfare (determinato dal minore gettito fiscale da inviare alle casse dello stato centrale, e quindi nella susseguente diminuzione dell’imposizione fiscale). Pensiamo in questo caso ad aree come quella del nordest italiano, mentre ci sembra poco probabile che le spinte secessioniste-indipendentiste giungano a pieno compimento nelle aree ‘deboli’ rispetto ai parametri nazionali. Pensiamo alla Sardegna in Italia, o alla Scozia in Gran Bretagna, dove un recente referendum per l’indipendenza è stato bocciato dal voto della maggioranza degli scozzesi. Questi processi separatisti, da noi definiti come semplice e fisiologica scomposizione e ricomposizione di precedenti equilibri di interesse inter-borghesi, potrebbero, secondo taluni analisti politici, accelerare il disfacimento dell’attuale società capitalistica, e quindi il suo ‘inevitabile’ tramonto. Sulla parola ‘tramonto’ e anche su ‘inevitabile’ siamo d’accordo, bisogna solo capire cosa ci aspetta dopo l’inevitabile tramonto: il passaggio dalla preistoria alla storia, oppure il salto definitivo nella barbarie? Leggiamo cosa dice il Manifesto ‘La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta‘.

Lotta di classe: proviamo ad ipotizzare i riflessi che potrebbero verificarsi nel conflitto di classe basico che caratterizza ogni società di oppressi e oppressori, e quindi anche l’attuale società borghese spagnola (in seguito alla indipendenza della Catalogna). Le minori entrate fiscali incamerate dalle casse dell’erario spagnolo dovrebbero tradursi, in breve tempo, nella riduzione dei servizi sociali e assistenziali usufruiti principalmente dalla classe proletaria. Questo dato materiale, traducibile in un immediato peggioramento delle condizioni di vita della classe proletaria spagnola, potrebbe fornire la miccia per l’innesco di un più elevato livello di conflittualità sociale (si tratta di una ipotesi da verificare nel corso reale degli eventi, anche se non depone molto a favore del successo di tale ipotesi, il basso livello di risposta di classe registrato dopo i continui peggioramenti delle condizioni di vita dal 2008 ad oggi). L’attuale capitalismo, nella terza fase di sviluppo di cui parla la corrente, sopravvive a se stesso riformando e rinnovando tutto il possibile e l’immaginabile, pur di rallentare le interiori contraddizioni del suo modo di produzione e le leggi tendenziali che ne segnano il divenire. La scomposizione e la ricomposizione degli equilibri di potere socio-economico fra i fratelli coltelli borghesi è la regola delle giornate capitalistiche, e lungi dal prefigurare immediati scenari catastrofici (almeno in questo caso), rappresenta invece un momento funzionale alla realizzazione della logica intrinseca al sistema sociale classista.

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