“Signori, il tempo della vita è breve. Ma quand’anche la vita, cavalcando la sfera del quadrante, giungesse al suo traguardo dopo un’ora, anche quel breve corso sarebbe esageratamente lungo, se trascorso in un’esistenza vile. Se vivremo, vivremo per calcare i nostri piedi sui corpi di re; se moriremo, morire sarà bello trascinando alla morte anche dei principi.“ William Shakespeare, “Enrico IV
Premessa
La presente ricerca si svolge intorno ai temi prettamente politici della ragion di stato, nella sua interconnessione con la volontà di potenza di una classe sociale detentrice del controllo della macchina stato. Nella disamina di alcuni aspetti essenziali di questo rapporto di interconnessione toccheremo opere e ambiti di pensiero lontani, almeno temporalmente (Machiavelli, Botero), e meno lontani (Engels, Lenin, Meinecke). La riproposizione del testo ‘Stato e Rivoluzione’, appena avvenuta sul nostro sito, ha proprio lo scopo di marcare alcuni aspetti fondamentali della questione, in modo da inserire anche le nostre analisi nell’alveo di una critica materialistica delle ipocrite deformazioni del tema della ragion di stato, regolarmente riproposte da parte dei corifei della democrazia borghese e dello status quo (qualunque forma e colore esso rivesta).
La citazione di Shakespeare fa intravedere la possibilità di un tipo diverso di umanità, lontana da una esistenza vile, per quanto essa breve sia, vissuta invece per ”calcare i nostri piedi sui corpi di re”. Calcare i piedi sul corpo dell’oppressione di classe, per vivere una vita che quand’anche ”giungesse al suo traguardo dopo un’ora”, sarebbe libera dall’alienazione e dalla servitù.
Nel tema della ragion di stato anche il pensiero dei filosofi politici (borghesi e pre-borghesi) è costretto a riconoscere una incoercibile dimensione amorale, come caratteristica del governo del regno, del principato, della repubblica, seppure limitata nello spazio e nel tempo della situazione di eccezione. Il soggetto del potere, il principe, qui inteso come capacità di direzione e controllo del corpo sociale da parte di una forza politico-militare organizzata, estrinseca la sua arte del dominio seguendo, in ultima istanza, il motto machiavelliano ‘il fine giustifica i mezzi’. Tale ‘extrema ratio’ ricorre sia nei rapporti con il corpo sociale (classe dominata) presente nei territori dove il ‘potere regio’ esercita le sue funzioni, sia nello spazio esterno della lotta con altri poteri statali concorrenti. Il contemporaneo quadro internazionale dei conflitti inter-imperialistici rende vivamente attuale un approfondimento dei temi in questione, in modo da consentire soprattutto la ripresa del filo rosso delle elaborazioni marxiste sull’argomento.
Come al solito pubblicheremo i capitoli in cui si suddivide il presente lavoro in momenti diversi, tentando di concludere comunque la loro pubblicazione nel giro di due settimane.
Capitolo uno: Lo stato come attrezzatura di dominio
La lunga citazione sottostante, tratta da ‘Stato e Rivoluzione’, ha lo scopo di ricordare la posizione marxista in merito alla funzione dell’apparato statale: questa funzione è assimilabile a quella di un organo costruito dalla classe dominante come strumento di oppressione verso la classe dominata, e in secondo luogo per affrontare le contese interne alla stessa classe dominante (che si spartisce su basi territoriali il bottino di risorse naturali e forza-lavoro totali).
“Lo Stato dunque – dice Engels, arrivando alle conclusioni della sua analisi storica– non è affatto una potenza imposta alla società dall’esterno e nemmeno “la realtà dell’idea etica”, “l’immagine e la realtà della ragione”, come afferma Hegel. Esso è piuttosto un prodotto della società giunta a un determinato stadio di sviluppo, è la confessione che questa società si è avvolta in una contraddizione insolubile con se stessa, che si è scissa in antagonismi inconciliabili che è impotente a eliminare. Ma perché questi antagonismi, queste classi con interessi economici in conflitto, non distruggano se stessi e la società in una sterile lotta, sorge la necessità di una potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che attenui il conflitto, lo mantenga nei limiti dell'”ordine”; e questa potenza che emana dalla società, ma che si pone al di sopra di essa e che si estranea sempre più da essa, è lo Stato” (pp. 177-178, sesta edizione tedesca). Qui è espressa, in modo perfettamente chiaro, l’idea fondamentale del marxismo sulla funzione storica e sul significato dello Stato. Lo Stato è il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi. Lo Stato appare là, nel momento e in quanto, dove, quando e nella misura in cui gli antagonismi di classe non possono essere oggettivamente conciliati. E, per converso, l’esistenza dello Stato prova che gli antagonismi di classe sono inconciliabili. E’ precisamente su questo punto di capitale e fondamentale importanza che comincia la deformazione deI marxismo, deformazione che segue due linee principali. Da un lato gli ideologi borghesi, e soprattutto piccolo-borghesi, costretti a riconoscere, sotto la pressione di fatti storici incontestabili, che lo Stato esiste soltanto dove esistono antagonismi di classe e la lotta di classe, “correggono” Marx in modo tale che lo Stato appare come l’organo della conciliazione delle classi. Per Marx, se la conciliazione delle classi fosse possibile, lo Stato non avrebbe potuto né sorgere né continuare ad esistere. Secondo i professori e pubblicisti piccolo-borghesi e filistei – che molto spesso si riferiscono con compiacimento a Marx – è proprio lo Stato a conciliare le classi. Per Marx lo Stato è l’organo del dominio di classe, un organo di oppressione di una classe da parte di un’altra; è la creazione di un “ordine” che legalizza e consolida questa oppressione, moderando il conflitto fra le classi. Per gli uomini politici piccolo borghesi l’ordine è precisamente la conciliazione delle classi e non l’oppressione di una classe da parte di un’altra; attenuare il conflitto vuol dire per essi conciliare e non già privare le classi oppresse di determinati strumenti e mezzi di lotta per rovesciare gli oppressori. Così nella rivoluzione del 1917, quando la questione del significato e della funzione dello Stato si pose in tutta la sua ampiezza, si pose praticamente come un problema di azione immediata, e, per di più, di azione di massa, tutti i socialisti rivoluzionari e i menscevichi caddero subito e pienamente nella teoria piccolo borghese della “conciliazione” delle classi “per opera dello Stato”. Innumerevoli risoluzioni e articoli di uomini politici di quei due partiti sono profondamente impregnati di questa teoria piccolo-borghese e filistea della “conciliazione”. Che lo Stato sia l’organo di dominio di una classe determinata, che non può essere conciliata col suo antipode (la classe che è al polo opposto), la democrazia piccolo-borghese non sarà mai in grado di capirlo. L’atteggiamento dei nostri socialisti rivoluzionari e dei nostri menscevichi verso lo Stato è una delle prove più evidenti che essi non sono affatto dei socialisti (ciò che noi, bolscevichi, abbiamo sempre dimostrato), ma dei democratici piccolo-borghesi che usano una fraseologia quasi socialista. D’altra parte, la deformazione “kautskiana” del marxismo è molto più sottile.
“Teoricamente” non si contesta che lo Stato sia l’organo del dominio di classe, né che gli antagonismi di classe siano inconciliabili. Ma si trascura o attenua quanto segue: se lo Stato è un prodotto dell’inconciliabilità degli antagonismi di classe, se esso è una forza che sta al di sopra della società e che “si estranea sempre più dalla società”, è evidente che la liberazione della classe oppressa è impossibile non soltanto senza una rivoluzione violenta, ma anche senza la distruzione dell’apparato del potere statale che è stato creato dalla classe dominante e nel quale questa “estraneazione” si è materializzata. Questa conclusione, teoricamente di per sé chiara, è stata tratta da Marx con perfetta precisione, come vedremo più tardi, dall’analisi storica concreta dei compiti della rivoluzione. Kautsky ha… “dimenticato” e travisato appunto questa conclusione, come dimostreremo particolareggiatamente nel seguito della nostra esposizione. 2. Distaccamenti speciali di uomini armati, prigioni, ecc...”Nei confronti dell’antica organizzazione gentilizia [della tribù o del clan] – continua Engels – il primo segno distintivo dello Stato è la divisione dei cittadini…” Questa divisione a noi sembra “naturale”, ma essa richiese una lunga lotta con l‘antica organizzazione per clan o per stirpi. “…Il secondo punto è l’istituzione di una forza pubblica che non coincide più direttamente con la popolazione che organizza se stessa come potere armato. Questa forza pubblica particolare è necessaria perché un’organizzazione armata autonoma della popolazione è divenuta impossibile dopo la divisione in classi… Questa forza pubblica esiste in ogni Stato e non consta semplicemente di uomini armati, ma anche di appendici reali, prigioni e istituti di pena di ogni genere, di cui nulla sapeva la società gentilizia… “. Engels sviluppa la nozione di questa “forza”, chiamata Stato, forza che è sorta dalla società ma che si pone al di sopra di essa e se ne estranea sempre più. In che consiste principalmente questa forza? Essa consiste anzitutto in distaccamenti speciali di uomini armati che dispongono di prigioni, ecc. Abbiamo il diritto di parlare di distaccamenti speciali di uomini armati, perché il potere pubblico proprio di ogni Stato “non coincide più direttamente” con la popolazione armata, con la sua “organizzazione armata autonoma”. Come tutti i grandi pensatori rivoluzionari, Engels si sforza di attirare l’attenzione dei lavoratori coscienti su ciò che il filisteismo dominante considera come meno degno d’attenzione, come più usuale, come cosa consacrata da pregiudizi non solo tenaci, ma, si potrebbe dire, fossilizzati. L’esercito permanente e la polizia sono i principali strumenti di forza del potere statale. Ma potrebbe forse essere altrimenti? Per la gran maggioranza degli europei della fine del secolo decimonono, a cui Engels si rivolgeva, e che non avevano vissuto né osservato da vicino nessuna grande rivoluzione, non poteva essere altrimenti. Essi non comprendevano assolutamente che cosa fosse questa “organizzazione armata autonoma della popolazione”. Perché è apparsa la necessità di distaccamenti speciali di uomini armati (polizia, esercito permanente), posti al di sopra della società e che si estraneano da essa? A tale domanda i filistei dell’Europa occidentale o della Russia sono inclini a rispondere con una copia di frasi prese in prestito da Spencer o da Mikhailovski e tirano in ballo la crescente complessità della vita sociale, la differenziazione delle funzioni, ecc. Questi argomenti sembrano “scientifici” ed assopiscono meravigliosamente il buon pubblico, velando la cosa principale, essenziale: la scissione della società in classi inconciliabilmente nemiche. Se non ci fosse questa scissione, “l’organizzazione armata autonoma della popolazione” differirebbe per la sua complessità, per la sua tecnica progredita, ecc. dall’organizzazione primitiva d’un branco di scimmie armate di bastoni, o da quella di uomini primitivi o associati in clan, ma tuttavia sarebbe possibile. Essa è impossibile perché la società civile è divisa in classi ostili, e per di più inconciliabilmente ostili, il cui armamento “autonomo” determinerebbe una lotta armata fra di esse. Lo Stato si forma; si crea una forza distinta, si creano distaccamenti speciali di uomini armati; e ogni rivoluzione, distruggendo l’apparato statale, ci dimostra con tutta evidenza come la classe dominante si sforza di ricostruire distaccamenti speciali di uomini armati che la servano, e come la classe oppressa si sforza di creare una nuova organizzazione dello stesso genere, capace di servire non più gli sfruttatori, ma gli sfruttati.” Lenin, Stato e Rivoluzione.
Il lavoro presente è incentrato sulla analisi della interconnessione fra la teoria della ragion di stato, e la effettività/possibilità della conservazione di un ordine socio-economico classista. Lo stato sorge come attrezzatura di oppressione, citiamo ancora le righe di Lenin ”Per Marx lo Stato è l’organo del dominio di classe, un organo di oppressione di una classe da parte di un’altra; è la creazione di un “ordine” che legalizza e consolida questa oppressione, moderando il conflitto fra le classi”.
Sotto l’apparenza di una neutralità ed equidistanza dello stato nei confronti degli opposti interessi delle diverse classi sociali, garantita peraltro dalla presunta uguaglianza della legge per tutti i cittadini, si cela in realtà ”l’organo del dominio di classe, un organo di oppressione di una classe da parte di un’altra”.
La violenza del dominio di classe, tuttavia, per essere meglio efficace, deve tentare di celare il suo vero volto agli occhi dei dominati, deve travestirsi con gli abiti del bene comune e della moralità, deve fingere di servire nobili aspirazioni collettive (nazionali, religiose…). Il marxismo fa piazza pulita di tali imposture, svelando la natura funzionale della sovrastruttura politico-statale rispetto alla conservazione di un determinato dominio di classe. Il momento in cui si incrina la narrazione fantastica del potere è quello in cui il velo legalitario-moraleggiante, che ricopre ordinariamente l’agire del soggetto politico-statale, si converte nella amoralità del fine che giustifica i mezzi di machiavelliana memoria, alias la ragion di stato, intesa come ‘extrema ratio’ che si impone con mezzi di tutti i tipi, per preservare un certo status quo nelle condizioni straordinarie, cioè di eccezione/emergenza, in cui esso è minacciato da forze ostili interne od esterne (al territorio di controllo/giurisdizione).
Capitolo due: Machiavelli e i compiti del principe
“uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione”. Machiavelli, il Principe (XVIII).
L’opera ‘Il Principe’ è di indubbia importanza per delineare un punto di approdo, e al contempo di ripartenza, per la riflessione sulla ‘ragion di stato’. Questo testo è ispirato (anche) dalla preoccupazione di fornire alla dinastia regnante fiorentina (Medici) gli strumenti d’azione fondati sul realismo politico, necessari a un principato moderno per realizzare la formazione di uno stato di grosse dimensioni, accentrato sul modello francese, in grado di trattare ad armi pari con i grandi stati europei, garantendo indipendenza e autonomia politica all’Italia. Dunque ‘Il Principe’ nasce in primo luogo come un prontuario teorico per la soluzione della crisi italiana del 1500; un periodo segnato da anni di guerra e di invasioni di eserciti stranieri. Il principe ideale, guidato dalla ratio politica nata dall’esperienza storica e dalla conoscenza della (presunta) natura immutabile dell’uomo, agisce secondo criteri di realismo, ”spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione”. ottenendo così il successo.
Tuttavia, anche se nel ‘Principe’ ritroviamo la preoccupazione per la crisi contingente dell’Italia, bisogna pur riconoscere che l’opera si propone di delineare una ‘scienza’ politica di validità universale, in grado di individuare le strategie di azione/decisione per un soggetto politico sui ‘generis’, e i mezzi più adeguati alla loro realizzazione, in ogni tempo e nelle più svariate circostanze.
Nel capitolo (XV) Machiavelli ricorda che prima di lui altri studiosi hanno trattato dei principati, spesso limitandosi a delineare il modello ideale di come questi dovrebbero essere, ma un modello ideale non serve ad orientare le scelte dei soggetti politici nella “realtà effettuale” . Questo ultimo concetto (la realtà effettuale) viene indicato come orizzonte prioritario del pensiero e dell’azione politica del principe, sapientemente istruito su di essa (la realtà effettuale) dalle lezioni del passato, cioè dalla memoria e dagli insegnamenti tratti dell’esperienza. La ‘realtà effettuale’ viene conosciuta attraverso l’esperienza di vita, quest’ultima si sedimenta poi in memoria scritta e orale. I testi del Machiavelli ambiscono ad essere l’espressione di questo sedimentarsi della conoscenza nata dall’esperienza. Nel concetto di esperienza è compresa l’osservazione/elaborazione dei fatti contingenti, ma anche lo studio delle fonti storiche del passato, cioè dei fatti e delle circostanze alla base dell’esperienza/conoscenza accumulatasi nel corso dei millenni. Le lezioni del passato sono tratte anche dallo studio attento degli storici vissuti in tempi lontani come Tito Livio. Le cronache del passato, se attentamente lette e interpretate, possono infatti fornire preziosi spunti per una teoria generale atta ad orientare le scelte dei soggetti politici nella “realtà effettuale” .
Dunque, alla base di una teoria generale della politica, intesa come ‘ars regia’ del governo da parte di un soggetto politico (Principe), troviamo gli insegnamenti del presente e del passato, ugualmente utilizzabili sul presupposto della comparabilità delle vicende avvenute in diverse epoche storiche. Da dove nasce questa comparabilità? La risposta in fondo è semplice, e nasce da un assioma apodittico: sono gli attori che mettono in essere queste vicende, cioè gli uomini, che non cambiando mai la propria natura, essenzialmente malvagia, rendono possibile ogni tipo di comparazione fra presente e passato. In altre parole la storia umana è solo la manifestazione di una (malvagia) natura immutabile umana. In questo modo si arriva a sostenere un umanesimo negativo, in cui al centro della storia c’è un uomo portatore del marchio di Caino, assimilabile all’hobbesiano ‘homo homini lupus (l’uomo è un lupo per l’altro uomo). Estremizzazioni, che come quella antitetica del ‘buon selvaggio’ di Rousseau, non considerano la dialettica fra un determinato comportamento umano e un determinato ambiente storico-sociale. Tornando alla teoria machiavellica c’è da dire che essa prescrive al principe un agire adeguato alle mutevoli contingenze storiche, quindi un agire efficacemente adattato alla realtà effettuale delle cose, proprio perché la riconosciuta mutevolezza contingente del divenire delle umane vicende, è comunque ancorata alla catena della immutabile natura dell’uomo, e quindi è in definitiva essa stessa calcolabile e prevedibile.
Nel prossimo capitolo tenteremo di delineare il concetto machiavelliano di ‘stato di eccezione’ come base giustificativa della ragion di stato.
Capitolo tre: La situazione di emergenza come base dell’azione straordinaria (extrema ratio)
Un assioma apodittico fonda le tesi machiavelliane: la natura umana è malvagia, sostanzialmente immutabile in questa sua caratteristica nel corso del tempo. Nel capitolo XVIII del principe così viene posto l’argomento: “se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto (non osservare la parola data n.n) non sarebbe buono; ma perché è sono tristi e non la osserverebbono a te, tu etiam non l’hai a osservare a loro”. Il principe può anche essere spergiuro, poiché nessuno mantiene la parola data, almeno quando ciò non è conveniente per i propri interessi.
Sulla base di partenza di una concezione della natura umana come dato in sé fisso e immodificabile, a cui è estranea ogni considerazione sulla varietà degli stati differenti dell’essere reale, e quindi del loro differente grado di raffinazione, spiritualizzazione ed evoluzione, si conclude che il soggetto politico (il principe) non deve illudersi sulla vera, immutabile, natura dell’uomo, ma deve invece adeguare/conformare la prassi di governo sulla realtà effettuale di questa natura specifica dell’uomo.
Rispetto all’ancora predominante visione religiosa, che assegnava all’uomo un ruolo specifico all’interno di un quadro/piano divino immutabile, Machiavelli riporta l’uomo sulla terra, inserendolo ugualmente in un quadro immutabile, non più divino/trascendente, ma naturale.
La naturalizzazione negativa del comportamento sociale dell’animale uomo non tiene conto, tuttavia, di alcune evidenze empiriche, riscontrabili perfino dall’osservazione etologica di un branco di lupi, di leoni o di scimmie. L’elemento prevalente in questi gruppi è la cooperazione funzionale alla sopravvivenza, e anche il fattore potere, inteso come il riconoscimento da parte del branco di un leader, è finalizzato alla ricerca/bisogno della sopravvivenza.
Dunque l’indubbio salto in avanti della teoria machiavelliana, dato dal superamento della precedente visione morale-teologica del divenire umano, rischia di trasformarsi a sua volta in una metafisica della natura umana, nel momento stesso in cui l’agire del singolo o del gruppo sociale viene astratto dall’epoca storica, dall’ambiente socio-culturale, e quindi dalle condizioni concrete di esistenza.
Il naturalismo machiavelliano, come si può ben arguire, individua nella storia umana delle costanti naturali (la principale costante è la malvagità dell’uomo), tuttavia, come detto all’inizio del capitolo, la natura, la materia, ovvero l’essere reale, possiedono la proprietà essenziale della varietà e della molteplicità degli stati di manifestazione fenomenica.
Il comportamento umano, ma anche quello di altre forme di esistenza, si dispiega in un reticolo dialettico di azioni e reazioni estremamente complesso, in cui i termini bene e male sono in realtà la maschera con cui il gruppo sociale definisce ciò che è funzionale o disfunzionale, in una certa fase evolutiva, al proprio sviluppo, alla propria vita.
Una volta espresse queste considerazioni critiche, possiamo apprezzare il realismo del Machiavelli che definisce ‘instrumentum regni’ (1)il ruolo della religione (almeno in rapporto al potere politico-statale).
Il rinascimento è l’epoca in cui si sviluppano, insieme ai prodromi del capitalismo, la tensione verso l’indagine scientifica delle cose, e dunque il superamento della precedente visione teologico-morale legata al feudalesimo. Nel Machiavelli tale tensione scientifica si manifesta nella rivendicazione di una ‘autonomia’ della politica rispetto alla morale e alla religione, a tutto vantaggio dell’attenzione verso la ‘realtà effettuale’.
In questa ‘realtà effettuale’ il principe, per evitare il fallimento e la rovina del principato, e quindi i disordini, il caos e i conflitti collegati a tale prospettiva, deve mettere in campo, talvolta, delle decisioni che violino i confini della morale comune. In fondo, sembra sostenere il Machiavelli, è per la realizzazione di un bene superiore che il principe viola i comuni dettami morali (il fine giustifica i mezzi). Dunque, se vogliamo, i mezzi immorali, talvolta impiegati dal soggetto politico-statale, sono finalizzati alla salvaguardia del bene generale della società. Soprattutto nelle situazioni di eccezione, in cui si richiedono misure di intervento drastiche e tempestive, il principe deve ricorrere a tutti i mezzi possibili, scegliendo il male minore, qualunque esso sia, pur di evitare al principato il male maggiore dell’anarchia, del caos, e infine della perdita dell’indipendenza. Ecco sintetizzata, in parole povere, la dinamica politica che sfocia nella prassi guidata dalla ragion di stato.
Nel successivo capitolo affronteremo l’ulteriore elaborazione di tale concetto/prassi in Botero, uno studioso secentesco che molto ha scritto in merito all’argomento.
(1)”Debbono, adunque, i principi d’una republica o d’uno regno, i fondamenti della religione che loro tengono, mantenergli; e fatto questo, sarà loro facil cosa mantenere la loro republica religiosa, e, per conseguente, buona e unita. E debbono, tutte le cose che nascano in favore di quella, come che le giudicassono false, favorirle e accrescerle; e tanto più lo debbono fare, quanto più prudenti sono, e quanto più conoscitori delle cose naturali.” Machiavelli
Capitolo quarto: Interpretazioni semplicistiche dei testi del Machiavelli
Un destino comune a molti studiosi di valore, catalizzatori in un determinato momento storico di alcuni progressi conoscitivi sorti sulla base di particolari cambiamenti economico-sociali, è quello di essere interpretati in modo scorretto da una quota dei propri epigoni e continuatori. Machiavelli non fa eccezione a questa regola. Il machiavellismo, inteso come insieme di argomentazioni miranti a giustificare la tirannia e l’uso spregiudicato dei mezzi è una deformazione/incomprensione del contenuto dei testi come i ‘Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio’ e ‘Il Principe’.
Nel ‘Principe’ troviamo una argomentazione fondamentale: avendo l’esperienza della realtà fattuale, nel nuovo contesto storico-politico rinascimentale, verificata la non rilevanza di un ordine di leggi trascendenti (tipiche della società feudale-teocratica), allora ne consegue che il soggetto politico-statale deve decidere e agire sulla base della realtà effettuale, cioè del mondo così come è, e non in base a suggestioni illusorie frutto di pregiudizi e condizionamenti culturali. Il quadro storico in cui scrive Machiavelli è quello di un Italia divisa in vari staterelli, litigiosi ed esposti al pericolo di occupazione da parte degli Stati confinanti. L’obiettivo contingente della argomentazione del Machiavelli è dunque quello di favorire la fondazione di uno Stato unitario ‘‘rigenerazione dell’antica virtù repubblicana del popolo italiano”, cioè uno stato nazionale funzionale (diciamo noi) al nascente modo di produzione capitalistico.
Il principe non opera per pura ambizione personale di potere, ma sotto la sferza di una necessità storica: la costituzione di un ‘principato nuovo’, ovvero di una macchina statale unitaria che abbia potestà su un territorio e una popolazione, sufficientemente ampi per consentire all’economia capitalista di crescere e prosperare. Se vogliamo, tale necessità si inserisce pienamente nei processi di transizione storica dei modi di produzione.
In ogni caso il ‘machiavellismo’, inteso come deformazione del nucleo fondante dei testi del Machiavelli, si concretizza successivamente in una teorica della ‘ragion di stato’ fondamentalmente incentrata sulla necessità di conservazione pura della macchina stato nazionale ( e della sua funzione di violenza, latente o cinetica, al servizio delle classi dominanti). Potremmo ipotizzare che sia il Machiavelli, che il successivo machiavellismo, abbiano una ragione storica. Da un punto di vista storico, infatti, il Machiavelli esprime l’esigenza della fondazione di uno stato nazionale forte ed esteso, tipica del capitalismo nascente, mentre autori come Botero e Meinecke (che nei capitoli successivi analizzeremo) esprimono l’esigenza di conservazione di questo stato nazionale (ormai esistente), tipica del capitalismo già sviluppato.
Capitolo quinto: Botero e la ‘ratio status’
In Machiavelli ritroviamo ampie argomentazioni sulla necessità dell’uso di mezzi straordinari, quindi che eccedono la morale e il diritto comune, seppure solo nei casi di particolari situazioni di emergenza, foriere di pericoli mortali per la sopravvivenza stessa del ‘principato’. Il germe della successiva teoria della ‘ratio status’ è dunque posto.
Tuttavia già nel periodo medioevale la ‘ratio status’ è stata pensata come ‘modus operandi’ straordinario, infatti, se da un lato, al sovrano cristiano il pensiero politico del tempo assegnava precisi doveri verso Dio e i sudditi, dall’altro lato postulava la violazione di questi stessi doveri, almeno quando una causa di forza maggiore, la ‘necessitas’, lo imponeva nel nome della salvezza generale del regno.
Nell’opera del gesuita Giovanni Botero (Della ragion di Stato, 1589), il problema dell’impiego di mezzi eccedenti le norme giuridico-morali ordinarie, viene spostato dalla situazione d’emergenza alla prassi regolare dell’apparato statale, in altre parole diviene un aspetto dell’ordinaria amministrazione dello stato. Il testo del 1589 contiene una prefazione in cui Botero esplicita i motivi che hanno ispirato la sua opera ”Questi anni adietro, per diverse occorrenze, parte mie, parte degli amici e de’ padroni, mi è convenuto far varii viaggi, e praticare, più di quello che io avrei voluto, nelle corti di re e di prencipi grandi, or di qua, or di là da’ monti: dove, tra l’altre cose da me osservate, mi ha recato somma meraviglia il sentire tutto il dì mentovare ragione di Stato, et in cotal materia citare ora Nicolò Machiavelli, ora Cornelio Tacito; quello, perché dà precetti appartenenti al governo et al reggimento de’ popoli, questo, perché esprime vivamente l’arti usate da Tiberio Cesare, e per conseguire e per conservarsi nell’imperio di Roma. Mi parve poi cosa degna (già ch’io mi trovavo bene spesso tra gente, che di sì fatte cose ragionava) ch’io ne sapessi anco render qualche conto. Così, messomi a dare una scorsa all’uno, et all’altro autore, trovai, che insomma il Machiavelli fonda la ragione di Stato nella poca conscienza e Tiberio Cesare palliava la tirannia e la crudeltà sua con una barbarissima legge di maestà, e con altre maniere, che non sarebbono state tolerate dalle più vili femine del mondo, nonché da’ Romani, se C. Cassio non fosse stato l’ultimo de’ Romani. Sì che io mi meravigliavo grandemente, che un autore così empio e le maniere così malvagie d’un tiranno fossero stimate tanto, che si tenessero quasi per norma, e per idea di quel, che si deve fare nell’amministratione e nel governo degli Stati. Ma quel che mi moveva non tanto a meraviglia quanto a sdegno si era il vedere che così barbara maniera di governo fosse accreditata in modo che si contraponesse sfacciatamente alla legge di Dio, sino a dire che alcune cose sono lecite per ragione di Stato, altre per conscienza. Del che non si può dir cosa né più irrationale né più empia, con ciò sia che chi sottrae alla conscienza la sua giuridittione universale di tutto ciò, che passa tra gli uomini, sì nelle cose publiche, come nelle private, mostra che non have anima né Dio. Sino alle bestie hanno uno istinto naturale, che le spinge alle cose utili, e le ritira dalle nocevoli, et il lume della ragione e’l dettame della conscienza, dato all’uomo per saper discernere il bene, e’l male, sarà cieco negli affari pubblici, difettoso ne’ casi d’importanza? Spinto io non so se da sdegno o da zelo, ho più volte avuto animo di scrivere delle corruttioni introdotte da costoro ne’ governi e ne’ consigli de’ prencipi; onde hanno avuto origine tutti gli scandali nati nella Chiesa di Dio e tutti i disturbi della cristianità. Ma il considerar poi che i discorsi miei circa le corruttioni non averebbono credito né autorità se prima io non dimostrassi le vere e le reali maniere che deve tenere un prencipe per divenir grande e per governare felicemente i suoi popoli, differendo quel primo pensiero ad altro tempo, mi son mosso a dissegnare almeno il secondo in questi libri della ragion di Stato, ch’io mando a Vostra Signoria Illustrissima”. Della ragion di Stato, 1589
La prefazione evidenzia la preoccupazione dell’autore di fronte alla vasta diffusione delle teorie del Machiavelli, ” mi ha recato somma meraviglia il sentire tutto il dì mentovare ragione di Stato, et in cotal materia citare ora Nicolò Machiavelli, ora Cornelio Tacito”. Tali teorie sono infatti perniciose per la fede cattolica, e il gesuita Botero intende confutarle sul loro stesso piano, quello della scienza politica ” Ma quel che mi moveva non tanto a meraviglia quanto a sdegno si era il vedere che così barbara maniera di governo fosse accreditata in modo che si contraponesse sfacciatamente alla legge di Dio, sino a dire che alcune cose sono lecite per ragione di Stato, altre per conscienza. Del che non si può dir cosa né più irrationale né più empia, con ciò sia che chi sottrae alla conscienza la sua giuridittione universale di tutto ciò, che passa tra gli uomini, sì nelle cose publiche, come nelle private, mostra che non have anima né Dio”.
In apparenza si potrebbe concludere, date queste premesse, che l’opera di Botero non esprima nient’altro che un tentativo di ritorno al passato, quindi un ritorno alla filosofia politica medioevale, ancella della teologia (anche se la stessa filosofia politica medioevale postulava, a un certo punto, la legittimità di decisioni straordinarie, violatrici delle norme giuridico-morali, in nome della ‘necessitas’ e del bene comune).
Tuttavia Botero è un uomo del suo tempo, il tempo della transizione ad un nuovo modo di produzione e ad una nuova classe dominante, una classe dominante portatrice di una visione mercantilistica, in cui affari, interesse e profitto giocano un ruolo decisivo. Il kosmos medioevale-feudale sta tramontando, e Botero annuncia (come Machiavelli) il trapasso a una nuova epoca. La nuova epoca borghese presenta una struttura economica altamente dinamica (la produzione per la produzione), opposta alla stazionarietà dell’economia feudale. Nel seno di questa struttura economica capitalistica risiedono i germi di una permanente dinamica di espansione e contrazione delle attività produttive: una dinamica generatrice di un conflitto sociale permanente, e quindi di una ‘necessitas’ permanente di sovrastrutture statali capaci di esercitare il controllo e la repressione del conflitto (sia in forma di violenza latente, che in forma di violenza cinetica).
Botero teorizza ”le vere e le reali maniere che deve tenere un prencipe per divenir grande e per governare felicemente i suoi popoli ”. In questa teorizzazione giocherà un ruolo importante, come vedremo nel capitolo successivo, la continuità della pratica della ragion di stato. Lo scopo di questa pratica è la governabilità dei piccoli e dei grandi, ovvero dei soggetti sociali (i piccoli) che non hanno nulla da perdere nella rovina dell’apparato statale esistente, e dei soggetti statali esterni (i grandi), bramosi di potere e di conquista.
Botero: ”Ragione di Stato si è notitia di mezi atti a fondare, conservare et ampliare un dominio. Egli è vero che, se bene, assolutamente parlando, ella si stende alle tre parti sudette, nondimeno pare, che più strettamente abbracci la conservatione che l’altre, e dell’altre due più l’ampliatione che la fondatione. E la causa si è perché la ragione di Stato suppone il prencipe e lo Stato, che non suppone, anzi precede affatto, la fondatione, come è manifesto, e l’ampliatione in parte: ma l’arte del fondare e dell’ampliare è l’istessa; perché chi amplia giuditiosamente ha da fondare quel che amplia e da fermarvi bene il piede”.
La ragion di stato è innanzitutto conservazione di un dominio, infatti sembra ”più strettamente abbracci la conservatione che l’altre”, ”E la causa si è perché la ragione di Stato suppone il prencipe e lo Stato, che non suppone, anzi precede affatto, la fondatione”.
Dunque Botero sembra sostenere che la potenza energetica di una forza sociale, organizzata come stato e direzione politica (prencipe), precede la fondazione, l’ampliamento e la conservazione di un dominio. In effetti la fondazione di un dominio territoriale è possibile solo sulla base dell’esistenza di una forza militare organizzata, e quindi di una direzione tattica e strategica di questa forza (da parte del ‘prencipe’) contro gli ostacoli e le condizioni avverse al processo di fondazione, ampliamento e conservazione.
La ragion di stato è conservazione di ciò che viene acquisito nelle fasi di fondazione e ampliamento, ma soprattutto è conservazione dell’energia di dominio preesistente a tutto, perfino alla stessa ragion di stato ”la ragione di Stato suppone il prencipe e lo Stato”.
La rovina di un dominio è sempre all’orizzonte, e infatti la funzione strumentale della ragion di stato è proprio quella di conservare e preservare il dominio da due possibili tipologie di rovina: ”Le opere della natura mancano per due sorti di cause, perché alcune sono intrinseche, altre estrinseche; intrinseche chiamo gli eccessi, e le corruttioni delle prime qualità, estrinseche il ferro, il fuoco e le altre violenze. Al medesimo modo, gli Stati rovinano per cause interne o esterne; interne sono l’incapacità del prencipe, o per fanciullezza, o per dapocaggine, o per scempietà, o per perdita di riputatione, che può accadere in più maniere….Ma estrinseche cause sono gl’inganni e la potenza de’ nemici. Così i Romani rovinarono i Macedoni, i barbari la grandezza romana. Ma quali cause sono più pernitiose? Senza dubbio, che le interne, perché rare volte avviene che le forze esterne rovinino uno Stato, che non abbino prima corrotto l’intrinseche. Di queste due sorti di cause semplici ne nasce un’altra, che si può chiamar mista, quando s’accordano i sudditi co’ nemici, e li tradiscono o la patria, o il prencipe”.
Della ragion di Stato, 1589
Capitolo sesto: Botero ”La conservatione di uno Stato consiste nella quiete e pace de’ sudditi”
”I sudditi, senza i quali non può esser dominio, sono di natura stabili o leggieri, piacevoli o fieri, dediti alla mercantia o alla militia, della nostra santa fede, o di qualche setta’… La conservatione di uno Stato consiste nella quiete e pace de’ sudditi, e questa è di due sorti, come anco il disturbo e la guerra, perché o sei disturbato da’ tuoi, o da’ stranieri; da’ tuoi puoi esser travagliato in due maniere: perché o combattono l’uno contra l’altro, e si chiama guerra civile, o contra il prencipe, e si dice sollevamento o ribellione. Or l’uno e l’altro inconveniente si schiva con quelle arti, le quali acquistano al prencipe amore e riputatione appresso de’ sudditi; perché sì come le cose naturali si conservano con quei mezi co’ quali si sono generate, così le cause della conservatione e della fondatione degli Stati sono l’istesse. Ora, in quei primi secoli non è dubbio, che gli uomini si mossero a creare i re et a dar il prencipato e’l governo di se stessi ad altri, mossi dall’affettione che loro portavano e dalla suprema stima (che noi chiamiamo riputatione) ch’essi facevano del lor valore, onde bisogna dire, che queste due cose anco li tenghino in obedienza et in pace. Ma quale ebbe maggior forza nell’elettione de’ re, la riputatione o l’amore? Senza dubbio, che la riputatione, perché i popoli s’indussero a dar il governo della republica ad altri, non per far piacere e favore a quelli, ma per bene e per salute commune, onde fecero elettione non de’ più gratiosi et amabili, ma di quelli nei quali conoscevano eccellenza di valore e di virtù. Così i Romani ne’ tempi pericolosi commettevano l’imprese non a giovani favoriti e vaghi, ma a personaggi maturi e di molta esperienza: a’ Manlii, a’ Papirii, a’ Fabii, a’ Decii, a’ Camilli, a’Pauli, a’ Scipioni, a’ Marii. Camillo, già odiato e perciò bandito da’ Romani, fu nel bisogno richiamato e fatto dittatore”. Ma quale è la differenza tra l’amore e la riputatione? Ambedue si fondano su la virtù, ma l’amore si contenta anco d’una mediocre virtù; la riputatione non si ferma, se nonnell’eccellenza, con ciò sia che quando il bene e la perfettione d’un uomo eccede l’ordinario et arriva ad un certo segno eminente, quantunque sia di natura sua amabile, in quanto egli è bene, nondimeno l’amabilità resta quasi soverchiata dall’eccellenza, per la quale chi n’è dotato non tanto si ama, quanto si stima. E se questa stima è fondata su la religione e pietà si dice riverenza, se su l’arti politiche e militari si chiama riputatione, sì che le cose atte a far che un prencipe sia nella maniera del suo governo amato sono anco a proposito per far che sia riputato, ogni volta che averanno una certa quasi divina eccellenza”. Della ragion di Stato, 1589
Affettione e riputatione sono importanti per governare i popoli (”queste due cose anco li tenghino in obedienza et in pace”). Tuttavia, non troppo lontano da quella proposizione del Machiavelli, in cui si afferma che per un principe è meglio essere temuto che amato, anche Botero riconosce che la riputatione, basata ”su l’arti politiche e militari”, è più importante ”dell’affettione”. Le arti politiche e militari rimandano all’esperienza della forza, quindi alla capacità pratica di spezzare un ostacolo, ovvero di infrangere la minaccia di una forza avversaria e di imporre il proprio dominio. Dunque nella ”realtà effettuale” è questa forza che, in ultima istanza, costringe i sudditi ”nella quiete e pace”.
”Abbiamo sin ora ragionato in generale delle virtù, con le quali il prencipe si può far amare e riputare, le quali due cose sono i fondamenti d’ogni governo di Stato. Parliamo ora alquanto più in particolare d’alcuni mezi a ciò appartenenti. I primi sono l’abbondanza, e la pace, e la giustitia, perché il popolo che, senza paura di guerra straniera o civile e senza tema d’esser assassinato in casa per violenza o per fraude, ha i cibi necessarii a buon mercato, non può se non esser contento e d’altro non si cura … e l’esperienza ci ha insegnato a Napoli, et in altri luoghi, più d’una volta, non esser cosa nissuna, che più commuova e più esasperi il popolo, che la strettezza del vivere e la carestia del pane. Ma non giova la copia delle vettovaglie, se non si può godere, o per violenza de’ nemici, o per iniquità de’ compagni: perciò bisogna accompagnarla con pace e con giustitia. Appresso, perché il popolo è di natura sua instabile e desideroso di novità, ne avviene che, s’egli non è trattenuto con varii mezi dal suo prencipe, la cerca da se stesso, anco con la mutatione di Stato e di governo: perciò tutti i prencipi savii hanno introdotto alcuni trattenimenti popolari, ne’ quali quanto più si ecciterà la virtù dell’animo e del corpo, tanto saranno più a proposito. I Greci hanno mostrato maggior giudicio ne’ giuochi loro olimpici, nemei, pitii, istmii, che i Romani negli appollinari, secolari, gladiatorii, e nelle comedie, caccie et altri simili, ne’ quali i cittadini romani non essercitavano né l’animo né il corpo, sì che non servivano che di puro trattenimento”. Della ragion di Stato, 1589
Dunque sono le ristrettezze economiche, ‘la miseria crescente’ ( ‘la strettezza del vivere e la carestia del pane’) a fare l’effetto della benzina sul fuoco del conflitto sociale (‘non esser cosa nissuna, che più commuova e più esasperi il popolo). Botero, a fronte di questa ‘realtà effettuale’, suggerisce ai principi ”savii e prudenti” di introdurre e favorire ”alcuni trattenimenti popolari, ne’ quali quanto più si ecciterà la virtù dell’animo e del corpo, tanto saranno più a proposito”.
Panem et circenses, il mezzo già impiegato dai greci e dai romani come efficace rimedio alle intemperanze, potenziali e attuali, del popolo. In verità la storia umana è disseminata anche di altri stratagemmi per acquietare le ”seditioni”, uno di questi è quello a cui ”riccorrevano ordinariamente i Romani nelle seditioni della plebe: menavano l’essercito in campagna contra nemici: così acquetavano gli animi pieni di mal talento contra i nobili; e Cimone, veggendo che la gioventù ateniese non sapeva starsi queta, armatene ducento galere, la menò a far prova del suo valore contra Persiani”…”E Gli Ottomani anche, con un corso perpetuo di grandissime imprese e di vittorie, non solamente hanno ampliato il loro dominio, ma di più (il che non è di minor importanza) hanno assicurato gli acquisti e tenuto in pace i sudditi”. Della ragion di Stato, 1589
Fino a questo punto della esposizione Botero richiama l’attenzione sulla natura instabile del popolo, e quindi sui rimedi che un principe savio e prudente deve adottare per acquietare le ”seditioni”. Nel proseguimento della sua riflessione egli sostiene che il soggetto politico-statale non solo deve avere l’arte di acquietare e trattenere le sedizioni, ma deve fare di più, ovvero deve anticipare le ribellioni, deve togliere acqua al lago dove nuotano i pesci del malcontento e della sedizione: ”Non basta dunque aver l’arte di trattenere il popolo, ma bisogna di più (perché questa è fallace) provedere che non possa, o almeno che non debba, rivoltarsi e turbare la pace publica e la maestà del prencipe, e sopra tutto egli è necessario torli l’occasione e la commodità delle rivolte”. Della ragion di Stato, 1589
A tale scopo è indispensabile analizzare la composizione delle persone, i tipi, che formano la popolazione delle città: ‘‘In ogni Stato sono tre sorti di persone: gli opulenti, i miseri, et i mezani, tra l’uno e l’altro estremo di queste tre sorti. I mezani sono ordinariamente i più quieti e più facili a governare, e gli estremi i più difficili, perché i potenti, per la commodità che le ricchezze apportano seco, difficilmente s’astengono dal male, i miseri, per le necessità, nelle quali si trovano, similmente sogliono esser molto vitiosi” . Della ragion di Stato, 1589
Nel prossimo capitolo analizzeremo le ricette suggerite dal Botero al soggetto politico-statale (prencipe), per disinnescare in anticipo (prevenire è meglio che curare) le dinamiche di conflitto immanenti alle tre tipologie umane appena individuate (gli opulenti, i miseri, et i mezani) presenti nel proprio dominio.
Capitolo settimo: Botero, ”i miseri non possono viver sotto le leggi, perché la necessità nella quale si trovano non conosce legge”
Ratio non prodest ubi vis imperat:
Contro la forza la ragion non vale.
Nel capitolo sesto abbiamo letto dei rimedi storici alle ‘‘seditioni” del popolo (panem et circenses, guerre…). Si tratta di mezzi evidentemente amorali, di cui Botero suggerisce purtuttavia l’impiego al ‘Prencipe’ (ci si può chiedere a questo punto dove risieda la differenza con il Machiavelli, visto che anche per quest’ultimo il fine – il Principato Nuovo – giustifica l’uso di mezzi amorali).
Rovesciando il detto comune ”di buone intenzioni sono lastricate le vie che portano all’inferno”, potremmo invece proporre: ”di mezzi amorali sono lastricate le vie della ‘ratio status’ che conducono alla ‘Iustitia’ perseguita dal ‘Prencipe’ di Botero o al ‘Principato Nuovo’ perseguito dal ‘Principe’ di Machiavelli”.
In entrambi i casi l’impiego di mezzi amorali, compiuto sotto la spinta della ”necessitas” di governare e controllare le spinte dissolutive interne ed esterne al ‘principato’, sembra finalizzato ad uno scopo di tipo morale, quindi, in definitiva, al raggiungimento di un bene superiore. L’uso di mezzi come l’inganno, il tradimento, la violenza, la guerra, in fondo è un male necessario, a cui il ‘Prencipe’ non può sottrarsi se intende preservare o ripristinare il bene superiore della ‘Iustitia’. Una sorta di guerra santa, in cui la lotta per la distruzione del nemico – con i mezzi impiegabili e disponibili in un certo momento – non costituisce un peccato, anzi è da considerarsi azione degna e virtuosa.
Nel corso della elaborazione del concetto di ragion di stato, Botero tenta di navigare fra gli scogli delle aporie prodotte dalla difficile convivenza fra la sfera politica e la sfera morale. Tuttavia non ci sono soluzioni all’orizzonte, e alla fin fine non gli resta che ripercorrere, seppure con una terminologia e dei concetti in parte diversi, le strade sostanziali della filosofia politica medioevale-feudale (ratio status e necessitas), e rinascimentale ( Machiavelli, il fine giustifica i mezzi).
Scendendo nei dettagli cosiddetti ‘tecnici’ della tripartizione del corpo sociale in ”grandi, miseri e mezani”, Botero scrive: ”quelli, i quali abbondano di ricchezze e fioriscono di nobiltà, di parentadi e di clientele, né sanno star sotto altri per la delicatezza della loro educatione, né vi vogliono stare per l’alterezza dell’animo. All’incontro i miseri sono apparecchiati ad obedire nelle cose disoneste, non meno che nelle oneste; quelli danno nel violento e si dilettano della soverchiaria, questi diventano maligni e fraudolenti, quelli offendono il prossimo alla scoverta, questi lavorano e rodono di nascosto…Ma i mezani hanno tanto, che non si trovano aver necessità delle cose appartenenti allo Stato loro, e non sono però così possenti, che possa dar loro il cuore di far dissegni e di entrare ad imprese grandi; sono, per l’ordinario, amici della pace e si contentano dello stato loro, l’ambitione non li balza in aria, né la disperatione li atterra e (come dice Aristotele) sono attissimi alla virtù, e di qua viene che le città grandi (perché hanno gran numero di persone mediocri di fortuna) sono meno soggette alle seditioni che le picciole. Supponendo dunque che i mezani sono da sé quieti, tratteremo degli estremi e del modo, col quale si ha da provedere, che non prorompino in disordini et in tumulti”.
Della ragion di Stato, 1589
I grandi possono essere un problema, poiché le classi dominanti nazionali (i grandi), nel corso della storia, spinti dalla voracità e dalla pulsione ad accrescere il proprio potere, si scindono spesso in frazioni litigiose, rischiando di indebolire la macchina statale da loro stessi creata come mezzo di dominazione (verso i miseri) e di difesa dalle minacce interne (i miseri) ed esterne (le altre macchine statali, create da altre classi dominanti nazionali).
In modo particolare ”Sono anco pericolosi alla quiete publica quelli che non vi hanno interesse, cioè, che si ritrovano in gran miseria e povertà, perché costoro, non avendo che perdere, si muovono facilmente nell’occasione di cose nuove, et abbracciano volentieri tutti i mezi che si appresentan loro di crescere con la rovina altrui; onde scrive Livio che nella Grecia, essendovi rumore di guerra tra il re Perseo et i Romani, quei ch’erano oppressi dalla povertà, desiderando che’l mondo andasse sossopra, piegavano a Perseo, come i buoni, a’ quali metteva conto che non si alterasse nulla, aderivano a’ Romani…. Deve dunque il re assicurarsi di costoro, il che farà in due maniere: o cacciandoli dal suo Stato, o interessandoli nella quiete di esso. Si cacciaranno, o mandandoli in colonie, come fecero gli Spartani de’ Partenii (perché, dubitando che non facessero qualche novità, li mandarono per istanza a Taranto) o si potranno mandar alla guerra (come fecero i Venetiani di molti sgherri, de’ quali era piena la loro città, e se ne sbrigarono con l’occasione della guerra di Cipro) o si cacciaranno affatto, come fece Ferdinando re di Spagna i zingari, a’ quali diede termine di sessanta giorni. S’interesseranno con l’obligarli a far qualche cosa, cioè ad attendere o all’agricoltura o all’arti o ad altro essercitio, col cui emolumento possino mantenersi”. Della ragion di Stato, 1589
Nel corso della storia, in seguito alla divisione della società in classi di sfruttati e sfruttatori, la ‘ratio status’ ha prodotto molti stratagemmi per ovviare agli inconvenienti prodotti da coloro ”che si ritrovano in gran miseria e povertà ”. Nelle righe appena riportate si menziona in primo luogo l’espulsione dei soggetti indesiderati, e in secondo luogo l’obbligazione ”ad attendere o all’agricoltura o all’arti o ad altro essercitio, col cui emolumento possino mantenersi” .
Questi stratagemmi rappresentano una cura del male, ma ancora meglio sarebbe prevenire il male prima che si manifesti, e infatti questo è il principio guida contenuto nelle successive righe di Botero; in queste righe vengono indicati, sulla base di precedenti vicende storiche, alcuni ‘metodi’ particolarmente efficaci contro l’unione dei ‘miseri’, cioè contro una delle precondizioni indispensabili affinché il male del conflitto sociale contamini il corpo del ‘regno’. In fondo questi metodi si richiamano al noto motto latino ‘Divide et impera’.
”Con quanta diligenza si userà in avvilire d’animo et indebolire di forze i sudditi, non mancarà loro mai né ardire, né potere, se sarà loro lecito l’unirsi insieme … Non è cosa, che accresca l’animo più che la moltitudine unita insieme, perché ivi uno fa animo a tutti, e tutti ad uno. Augusto Cesare, temendo di rumori e di tumulto, non volle, per questa causa, che per sua guardia fossero mai entro Roma più di tre coorti, e queste senza alloggiamenti proprii, affinché l’unione non le rendesse insolenti; le altre coorti egli le teneva fuor di Roma, nelle terre e ne’ castelli vicini….Or la via di disunirli consiste in due punti: l’uno si è il levar loro l’animo e la volontà d’intendersi e di accordarsi insieme, l’altro il tor loro la facoltà di ciò fare. Si torrà loro l’animo col fomentare i sospetti e le diffidenze tra loro, sì che uno non si arrischi a scoprirsi et a fidarsi dell’altro, per lo quale effetto vagliono assai le spie secrete e fidate… Si torrà loro la facoltà in varie maniere: prima con l’impedir i parentadi tra un popolo e tra una casata di qualche seguito e l’altra; il che fecero i Romani co’ popoli latini, perché proibirono loro l’apparentarsi e’l praticare strettamente tra loro”. Della ragion di Stato, 1589
Capitolo ottavo: Conclusioni
‘Il proletariato si impadronisce del potere statuale, e trasforma i mezzi di produzione in proprietà dello Stato. Ma, così facendo, sopprime se stesso in quanto proletariato; sopprime tutte le differenze e tutti gli antagonismi di classe; sopprime altresì lo Stato in quanto Stato. La società precedente, poiché si muoveva nell’antagonismo di classe, aveva bisogno dello Stato, cioè di un’organizzazione della classe sfruttatrice che, in ogni periodo, conservasse le condizioni esterne della produzione. (….) Non appena non vi sia più alcuna classe sociale da tenere in soggezione; non appena siano stati aboliti, insieme con il dominio di classe e la lotta per l’esistenza individuale fondata sulla precedente anarchia della produzione, anche gli eccessi e le collisioni che nascono da essa, non vi sarà più nulla da reprimere, e non sarà più necessaria una forza speciale di repressione. Il primo atto, con cui lo Stato realmente si atteggia a rappresentante dell’intera società – appropriandosi dei mezzi di produzione in nome della società -, è al tempo stesso il suo ultimo atto indipendente in quanto Stato. L’ingerenza di un potere statuale nelle relazioni sociali diviene superflua in una sfera dopo l’altra, e poi si assopisce. Il governo sulle persone è sostituito dall’amministrazione delle cose e dalla direzione dei processi produttivi. Lo Stato non è “abolito”, si estingue”. Engels . Anti-Duhring
In alcuni filoni di studio e di ricerca contemporanei si tenta di far convivere democrazia e ragion di stato, proprio come Botero aveva tentato di fare con quest’ultima e la religione.
L’argomentazione chiave dietro questi tentativi è la postulazione di un rapporto fra ragion di stato e governabilità dell’emergenza. Si vorrebbe, in altre parole, dimostrare che in certe situazioni di emergenza, pur di salvaguardare la democrazia dalle minacce più svariate, è inevitabile fare ricorso a mezzi formalmente non democratici. Tali argomentazioni contengono, a ben vedere, un deficit di realismo sia rispetto al Machiavelli (che pure postulava un rapporto fra stato di eccezione e utilizzo spregiudicato di mezzi adeguati ad esso), sia rispetto a Botero, che invece teorizzava la persistenza della ragion di stato nella ordinaria amministrazione della cosa pubblica.
Accecati dal moderno mantra democratico, alcuni studi politologici svigoriscono di ogni barlume realistico la discussione sul tema.
Per trovare ancora qualche traccia di realismo (almeno al di fuori della teoria marxista) dovremmo tornare a Meinecke, il quale nel secolo scorso ha sviluppato alcune interessanti argomentazioni sul tema della ragion di stato.
Friedrich Meinecke, 20 ottobre 1862 – 6 febbraio 1954, ha scritto molto sulla ragion di stato. Il principale testo di Meinecke sull’argomento è stato pubblicato nel 1924, ‘Die Idee der Staatsräson in der neuren Geschichte’.
Riprendendo alcune interpretazioni ricorrenti dell’opera di Machiavelli, anche Meinecke vede nella prassi del soggetto statale postulato nel ‘Principe’ una opposizione fra ethos e kratos, fra morale e politica: ‘‘la ragion di Stato è la norma dell’azione politica, la legge motrice dello Stato. Essa dice all’uomo di governo ciò che egli deve fare per conservare lo Stato vigoroso e forte, e poiché questo è formazione organica, che mantiene tutta la sua forza soltanto se capace di crescere ancora in qualche maniera, la ragion di Stato indica pure di questo sviluppo le vie e la meta” (F. Meinecke,L’idea della ragion di Stato nella storia moderna, Firenze 1977, p.1)
Alla ‘cattiva’ ragion di stato ‘machiavellica’, basata secondo Meinecke sul presupposto che ogni mezzo è lecito per la conservazione dell’apparato statale (garante della Iustitia e del bene comune), viene opposta una ‘buona’ ragion di stato, fondata invece su parametri morali.
Non possiamo in questa sede inoltrarci nel dettaglio delle argomentazioni che dovrebbero fondare ‘la buona ragion di stato’, ci interessa invece notare come l’idea borghese dello stato di diritto liberale, somma realizzazione della umana civiltà secondo l’ideologia dominante, tenti di allontanare da sé lo spettro imbarazzante delle sue origini. Abbiamo constatato, nei precedenti capitoli, come la transizione dal modo di produzione feudale a quello borghese favorisse un pensiero politico funzionale alla fondazione dello stato nazionale, necessario all’economia capitalistica. Il capitalismo nasce statale, infatti, perchè ha bisogno dell’organizzazione statale per costruire le flotte commerciali nelle repubbliche marinare, o per espropriare, espellere e proletarizzare i contadini, al fine di trasformare il settore agrario e al contempo sviluppare l’industria.
Il realismo dei primordi (Machiavelli), successivamente confermato ‘obtorto collo’ dal Botero, viene percepito come qualcosa di disturbante nella fase di decadenza della società borghese. Il marchio di origine ben ricordato da Marx (il capitale nasce grondante di fango e sangue) non può essere reso visibile, esso va occultato sotto l’idea dello stato di diritto liberale. Eppure proprio il Meinecke, suo malgrado, ci ricorda i tratti reali del ‘volto demoniaco del potere’ , seppure nel contesto di una critica al Machiavelli. Nella postilla sottostante riprendiamo un nostro articolo del 23 aprile 2017, in questo articolo vengono sviluppate delle considerazioni sul rapporto fra violenza potenziale e violenza attuale nella lotta di classe. Il ruolo dello stato viene inquadrato come riserva dell’energia di dominio di una classe sociale, questa si manifesta come violenza latente (il guanto di velluto) quando la classe dominata è passiva, invece si trasforma in violenza cinetica (il pugno di ferro) quando il livello di conflitto (le ‘seditioni’) dei dominati si intensifica. Il rapporto fra fascismo e democrazia viene riletto sulla base di questa dinamica sociale.
Postilla
lasinistrainternazionale / 23 aprile 2017
Premessa: Nel corso della tormentata vicenda storica della sinistra marxista internazionale si sono susseguiti numerosi tentativi di mistificazione e occultamento dei dati effettivi, quindi delle persone e dei fatti reali, da parte di forze definibili come opportuniste e staliniste. La vulgata comune stalinista sosteneva che nello spazio geopolitico dell’Unione Sovietica c’era il socialismo, mentre quasi del tutto ignorata era la voce (pubblicazioni e testi) di chi pensava e ragionava in maniera opposta a tale vulgata. Il tempo è galantuomo, l’esperienza dello stalinismo e dei suoi surrogati è tramontata (non dopo avere compiuto la sua missione storica di modernizzazione industriale capitalistica della Russia). Il valore dei testi della sinistra comunista internazionale (seppure quasi del tutto sconosciuti al grande pubblico) è di avere smascherato (ante litteram) la natura capitalistica dei processi socio-economici in atto in Russia, testimoniando la validità del metodo di indagine critico-marxista (proprio a scorno imperituro dei suoi presunti interpreti stalinisti et similia). Uno di questi testi è ‘Forza, violenza e dittatura nella lotta di classe’. La sua data di pubblicazione risale alla fine degli anni 40 (nel dopoguerra). Il valore del testo in questione è quello di ribadire (ad esempio ai rappresentanti del pensiero politico borghese e dell’opportunismo stalinista) la sostanziale continuità del dominio di classe attraverso ( e nonostante) i mutamenti apparenti della forma di governo politico (democrazia/fascismo). Tale continuità si sostanzia nel significato di oppressione sociale contenuta sempre nel modo di produzione capitalistico, indipendentemente dalle forme politico-normative che assume il comando del capitale in una certa fase storica. La dominazione del capitale è sempre violenza, latente o cinetica (sostiene il testo). Infatti “L’equivoco sostanziale sta nell’essersi meravigliati, nell’aver piagnucolato,nell’aver deplorato che la borghesia attuasse senza maschera la sua dittatura totalitaria, quando invece noi sapevamo benissimo che questa dittatura era sempre esistita, che sempre l’apparato dello stato aveva avuto, in potenza se non in atto, la funzione specifica di attuare, di conservare, di difendere dalla rivoluzione il potere e il privilegio della minoranza borghese”.
Nota redazionale: Il testo è uscito sul sito nell’aprile 2015, lo riproponiamo ai lettori in modo integrale. Uno degli aspetti importanti di questo articolo dell’aprile 2015, è la definizione dell’oppressione di classe come reale articolazione funzionale di fasi repressive e integrative (nel divenire del regime politico borghese). Queste due fasi sono intercambiabili e dipendono dalle diverse esigenze di controllo sulla classe dominata, nel senso che nei periodi di acutizzazione dello scontro di classe prevale la maschera repressiva, esplicitamente fascista, mentre nei periodi di riflusso e stagnazione delle lotte sociali prevale la tranquilla bonomia (apparente) della legalità democratica. L’attrezzatura di oppressione delle classi dominanti è lo stato, esso viene descritto come il serbatoio che conserva l’energia di dominio di queste classi in forma potenziale e cinetica ( nella forma potenziale l’energia si manifesta come minaccia latente, mentre nella forma cinetica la minaccia diventa violenza pratica).Il capitale è infatti in primo luogo un rapporto sociale ed economico, un rapporto in cui una classe di sfruttatori e parassiti opprime la maggioranza degli esseri umani, utilizzando come arnesi di oppressione lo stato e l’ideologia dominante. Il testo riprende e fa proprie le riflessioni contenute in alcuni articoli pubblicati negli anni 40 e 50 dalla corrente, proponendo inoltre anche dei passi di Marx. Dalla lettura emerge non solo la natura socialmente illusoria della distinzione fra democrazia e fascismo (in quanto essi sono in realtà espressioni politico/sovrastrutturali della stessa dominazione di classe), ma anche la maggiore efficacia della mascheratura democratica ai fini dell’asservimento delle masse di proletari al giogo del capitale. Il paragrafo finale si intitola ‘la via democratico-elettorale come ascensore per l’inferno’. In esso viene delineata la sequenza di inganno e rovina in cui incorre il proletariato, quando resta ammaliato dalle sirene democratico riformistiche ( ammantate dalle solite bandiere nazionalistiche, sindacal-economicistiche, parlamentaristiche). Riportiamo un passaggio molto esemplare di questo paragrafo finale: ‘abbiamo definito, all’inizio del paragrafo, la via democratico-elettorale come ascensore per l’inferno, richiamando l’omonimo film del 1987 (Angel heart). Come il personaggio di una tragedia, il nostro eroe proletario subisce a sua insaputa la congiura di forze sociali e politiche inesorabili, e bevendosi tutto il veleno del parlamentarismo democratico-riformista, non si avvede di aderire, contro i suoi stessi interessi, all’ideologia e ai comportamenti integrativi proposti dal sistema dominante. Quando talora si fa strada, attraverso la percezione nata dalla pressione dei fatti, la vera condizione servile a cui è ridotta la propria esistenza, e anche la natura demo-fascista dell’apparato statale in cui ha creduto, è spesso troppo tardi per recuperare il tempo perduto nella stolta accettazione dei miti sociali borghesi’.
Democrazia e fascismo come momenti funzionali della dittatura di classe del capitale
‘Quando i primi regimi fascisti sono apparsi e si sono presentati alla più immediata e banale interpretazione come una riduzione e una abolizione delle cosiddette garanzie parlamentari e legalitarie, si trattava in effetti puramente, in dati paesi, di un passaggio della energia politica di dominio della classe capitalistica dallo stato virtuale allo stato cinetico…’ Prometeo 1947.
Parte prima: delitto e castigo del proletario ribelle
Se è vero che non è saggio fermarsi alla superficie delle cose, facendosi abbagliare dal senso comune e dalle ovvietà dominanti, allora il compito dell’esploratore scientifico, che vuole svelare il sottofondo celato sotto la superficie dei fenomeni, dovrebbe essere di non avere timore di scendere in profondità. Questa premessa si collega al tema dell’inganno democratico elettorale; in altre parole al significato che rivestono nella nostra società il suffragio universale, il parlamento, e più in generale le istituzioni e gli organi che formano il corpo dell’apparato statale. Dal nostro punto di vista lo scopo dell’inganno democratico-elettoralistico è quello di consentire, in certe fasi determinate della storia caratterizzate dal ristagno dello scontro di classe, la pacifica e comoda dominazione della classe di sfruttatori sui propri servi salariati. In verità un apparato di potere statale, di fatto al servizio esclusivo dell’interesse di una parte della società, per svolgere in modo efficace il suo compito può e deve apparire invece al di sopra delle parti, trasmettendo una immagine esteriore di neutralità e imparzialità. In altre parole l’apparato, se vuole massimizzare i processi d’asservimento delle moltitudini di proletari sfruttati e inebetiti, prigionieri di una gabbia sociale di cui non intravedono nemmeno le sbarre, deve camuffare la sua natura di strumento di potere e controllo al servizio della borghesia. La stolta e demente accozzaglia d’idee correnti sulla libertà di voto e di scelta del popolo sovrano, nella repubblica nata dalla resistenza ( supinamente accettata da frazioni ragguardevoli di classe sfruttata) sono il rovescio della medaglia dell’attuale fase del conflitto sociale; una fase in cui il capitale continua ad esercitare, nonostante tutto, un rigido dominio sulle masse umane che formano la sua riserva di caccia per l’estrazione di plus-lavoro. Il risveglio dalle apparenze ingannevoli del sistema resta un esperienza limitata a poche avanguardie, una rara e preziosa conquista di pochi proletari che hanno da tempo chiuso i conti con le illusioni, e iniziato a vedere, senza schermature e camuffamenti ideologici, il vero panorama sociale di rovine che li circonda: la natura dell’orrore che si nasconde dietro il velo apparente della civiltà borghese. La violenza sociale insita nel modo di produzione della borghesia si nasconde astutamente, e al suo posto compare la costituzione nata dalla resistenza, la legge uguale per tutti, la libertà democratica, il pluralismo politico, la libertà di pensiero, la libertà religiosa, e via discorrendo. Riproponiamo un passo tratto da uno studio pubblicato nella rivista Prometeo nel 1947 (1), “Nella società moderna […] la distanza sociale tra il tenore di vita della grande maggioranza produttrice e quello dei membri delle classi abbienti è aumentata enormemente. Non è, infatti, la esistenza singola di uno o pochissimi grandi dominatori che vivano nel lusso quello che conta, ma la massa di ricchezze che una minoranza sociale riesce a destinare a scopi voluttuari di ogni genere quando la maggioranza riceve poco più dello stretto necessario alla vita[…]il quesito che dobbiamo porci nei confronti del regime di privilegio e di dominio capitalistico è quello della relazione tra l’uso della violenza bruta e quello della forza virtuale che piega i diseredati al rispetto dei canoni e delle leggi vigenti senza che si attui l’infrazione o la rivolta”.
Una sottile linea separa la minaccia repressiva latente e potenziale, dall’uso esplicito della forza da parte dello strumento statale borghese, la relazione fra i due momenti è sempre di tipo dialettico; in altre parole, la risposta violenta all’aumento della conflittualità sociale dei soggetti dominati coincide con la diminuzione del camuffamento democratico del dominio capitalista. La maschera cade quando il ricorso alle maniere forti s’impone, come una estrema ratio, per conservare l’ordine borghese. Guerra alla guerra è il motto dei buoni borghesi quando si avvicina una minaccia reale al proprio regime sociale: basti ricordare, in tal senso, il dispiegamento e l’uso della forza militare che avvenne in Italia durante il biennio rosso all’inizio degli anni venti (batterie di cannoni posizionate ai crocevia delle maggiori città, cannoneggiamenti della marina sui quartieri in rivolta nella città di Bari). La cosiddetta civiltà borghese svela in questi episodi cruenti e sanguinosi il volto nascosto sotto la maschera della democrazia parlamentare. Il senso comune opera, in questi casi, come un potente narcotico in grado di anestetizzare lo sconcerto e l’orrore per la durezza dell’intervento repressivo statale. Degli esseri umani vengono feriti o uccisi dal nostro stato, lo stato in cui figuriamo come cittadini titolari di uguali diritti garantiti dalla costituzione, ma questo è avvenuto, ci raccontano, solo per preservare i diritti della maggioranza dai furori estremistici di una minoranza. Una semplice storia di delitto e castigo, come in una favola per bambini, in questo modo la propaganda borghese presenta le azioni repressive delle forze di polizia contro i propri cittadini in rivolta. Riprendiamo un passaggio dal testo del 1947, “Allorché il turbamento sociale brontola più minaccioso, lo stato borghese comincia a mostrare la sua potenza con le misure di tutela dell’ordine: una espressione tecnica della polizia di stato dà una felice idea dell’uso della violenza virtuale: ’la polizia e le truppe sono consegnate nelle caserme’. Ciò vuol dire che non si combatte ancora sulla piazza, ma se l’ordineborghese ed i diritti padronali fossero minacciati, le forze armate uscirebbero dalle loro sedi ed aprirebbero il fuoco”. La finta bonomia dello stato democratico, la indolente calma delle giornate capitalistiche che trascorrono monotone e sempre uguali, non deve trarre in inganno: sotto l’apparente maschera legalitaria vive e pulsa un cuore nero violento e feroce “ La critica rivoluzionaria, non lasciandosi incantare dalle apparenze di civiltà e di sereno equilibrio dell’ordine borghese, aveva da tempo stabilito che anche nella più democratica repubblica lo stato politico costituisce il comitato di interessi della classe dominante […]Lo stato politico, anche e soprattutto quello rappresentativo e parlamentare costituisce una attrezzatura di oppressione. Esso può ben paragonarsi al serbatoio delle energie di dominio della classe economica privilegiata, adatto a custodirle allo stato potenziale nelle situazioni in cui la rivolta sociale non tende ad esplodere, ma adatto soprattutto a scatenarle sotto forma di repressione di polizia e di violenza sanguinosa non appena dal sottosuolo sociale si levano i fremiti rivoluzionari” (ibidem).Potenzialità e attualità delle energie di dominio della classe borghese sono dunque i due lati in cui si manifesta storicamente la dittatura di questa moderna classe di schiavisti, sono in altre parole le due risposte dialettiche del capitale alle fasi alterne di sottomissione o di ribellione dell’avversario di classe proletario. Citiamo ancora lo stesso testo‘Quando i primi regimi fascisti sono apparsi e si sono presentati alla più immediata e banale interpretazione come una riduzione e una abolizione delle cosiddette garanzie parlamentari e legalitarie, si trattava in effetti puramente, in dati paesi, di un passaggio della energia politica di dominio della classe capitalistica dallo stato virtuale allo stato cinetico […] la classe borghese che aveva fino allora, nel pieno sviluppo del suo sfruttamento economico, mostrato di sonnecchiare dietro l’apparente bonomia e tolleranza delle sue istituzioni rappresentative e parlamentari […]ruppe gli indugi e prese l’iniziativa pensando che ad una suprema difesa del fortilizio dello stato contro l’assalto della rivoluzione […] fosse preferibile una sortita dai suoi bastioni ed una azione offensiva volta ad infrangere le posizioni di partenza della organizzazione proletaria”. La borghesia capitalistica dunque, in determinate fasi storiche del conflitto di classe rompe gli indugi, mette da parte le finzioni democratiche e attacca con violenza il proprio avversario di classe, mirando in tal modo a conservare il proprio sistema di dominazione. A questo punto dell’analisi si apre lo spazio per una serie di considerazioni in merito alla mistificazione ideologica, al significato da essa rivestito nelle sconfitte dei movimenti rivoluzionari nel corso della storia.
(1) Forza, violenza, dittatura. Da Prometeo 1947.
Parte seconda: aggressione e integrazione, il riformismo come riflesso politico dei due volti del dominio borghese
Prima di tutto riprendiamo alcuni spunti di analisi ancora dal testo del 1947“L’equivoco sostanzialesta nell’essersi meravigliati, nell’aver piagnucolato,nell’aver deplorato che la borghesia attuasse senza maschera la sua dittatura totalitaria, quando invece noi sapevamo benissimo che questa dittatura era sempre esistita, che sempre l’apparato dello stato aveva avuto, in potenza se non in atto, la funzione specifica di attuare, di conservare, di difendere dalla rivoluzione il potere e il privilegio della minoranza borghese. L’equivoco è consistito nel preferire un’atmosfera borghese democratica ad un’atmosfera fascista, nello spostare il fronte della lotta dal postulato della conquista proletaria del potere a quello della illusoria restaurazione di un modo democratico di governare del capitalismo sostituito a quello fascista […] La potenza e l’energia di classe (della borghesia) è nei due casi la stessa; in fase democratica si tratta di energia potenziale; sulla bocca del cannone si tiene l’innocua custodia di tela. In fase fascista l’energia si manifesta allo stato cinetico, il cappuccio è tolto; il colpo deflagra. La richiesta disfattista e idiota rivolta dai capi traditori del proletariato al capitalismo sfruttatore ed oppressore è quella di rimettere l’ingannevole schermo sulla bocca dell’arma. Per tal modo l’efficienza del dominio e dello sfruttamento non sarebbe diminuita, ma soltanto incrementata dal rinnovato espediente dell’inganno legalitario”.Nell’Ideologia tedesca si afferma che nelle condizioni date, appurata la schiavitù reale e non solo ideale dell’uomo nella società in cui vive, ”La liberazione è un atto storico, non un atto ideale…per il materialista pratico, in altre parole per il comunista, si tratta di rivoluzionare il mondo esistente, di mettere mano allo stato di cose incontrato e di trasformarlo…poiché non è possibile attuare una liberazione reale se non nel mondo reale e con mezzi reali”. Pagina 15. Qualche pagina dopo l’argomentazione di Marx ed Engels diventa ancora più esplicita e radicale, non è nel mondo delle lotte puramente filosofiche e ideali (come sostenevano i giovani hegeliani), ma è nel campo violento dello scontro sociale di classe che si trova il motore della storia, le parole impiegate da Marx ed Engels sono le seguenti“non la critica, ma la rivoluzione è la forza motrice della storia”. Pagina 30.
Quasi venti anni dopo, nel 1867, nel libro primo del Capitale ritroviamo le seguenti considerazioni, “nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza”.
Nel testo del 1859, ”Per la critica dell’economia politica”, il pensiero di Marx si sofferma sui problemi dell’antagonismo e della violenza storica “I rapporti di produzione borghesi sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale[…]ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di quest’antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana”.Pagine 5-6. Partiamo dal presupposto che nessun sistema di dominio può sopravvivere a lungo solo con l’uso della forza, accanto ad essa, spesso in veste non secondaria, un ruolo importante viene ricoperto dall’adesione volontaria, il consenso, di frazioni della classe dominata ( le quali riconoscono e accettano lo status quo in cambio di effimeri miglioramenti economici). Il sistema capitalistico riesce a condurre in porto una tale ‘captatio benevolentiae’ soprattutto nei periodi di ripresa economica del ciclo di valorizzazione del capitale, mentre la cattura del consenso è più problematica nei periodi di crisi. Fatte queste premesse, ricordiamo che i socialisti riformisti andavano affermando già agli inizi del 900, di pari passo con i ripensamenti democratico costituzionali di una frazione della borghesia, che“…interessa la classe operaia che il potere esecutivo non usi la maniera forte, ed è utile ottenerlo col mezzo pacifico di un voto degli elettori e dei deputati. In questi casi, il partito proletario difende la libertà, lo statuto, la costituzione, perché la loro violazione fa comodo alla classe nemica. Da allora e da sempre, noi della sinistra rispondiamo: questa linea tattica sarebbe convincente se fossimo certi che i postulati della nostra classe potranno un giorno passare senza rompere la libertà di tutti, l’ordine legale, e la struttura costituzionale. Se questa possibilità è esclusa sarà un errore aver preparato le masse a salvare […] se stesse dall’aggressione del nemico di classe, rifugiandosi dietro i medesimi baluardi storici che sarà necessario abbattere come sola via per liberare il proletariato dall’oppressione capitalista”. Storia della sinistra comunista, primo volume.
Abbiamo sottolineato i termini aggressione e oppressione, nella citazione appena riportata dal testo, intendendo riflettere sulla loro relazione. L’aggressione, intesa come ricorso alle maniere forti da parte dell’apparato statale, è solo uno dei mezzi per perpetuare l’oppressione capitalista, in questo senso la relazione fra aggressione e oppressione è di tipo dinamico e non certo statico e lineare.
Nella storia sociale reale la conservazione del dominio, cioè dell’oppressione di una classe su un’altra, è spesso ottenuta efficacemente con l’arma dell’integrazione. Quello che sfugge al pensiero riformista, è il fatto che l’oppressione capitalista è il fine, e che il fine, secondo le circostanze, è dinamicamente perseguito attraverso l’arma prevalente dell’aggressione violenta, oppure attraverso l’arma prevalente dell’integrazione sociale ( realizzata, quest’ultima, anche con la cosiddetta redistribuzione del reddito a frazioni ‘privilegiate’ di classe operaia). Abbiamo sottolineato il termine arma prevalente, intesa come mezzo per raggiungere un fine, innanzi tutto per indicare il fatto che in certi momenti l’aggressione non esclude l’integrazione, e anzi molto spesso si può constatare la presenza simultanea di questi due aspetti nello stesso periodo storico e nello stesso tipo di società, con la prevalenza a volte di uno e a volte dell’altro. In questo senso la relazione si dimostra di tipo dinamico e discontinuo, concretizzandosi, a seconda delle fasi storiche del conflitto di classe, nella maggiore o minore prevalenza dell’integrazione o dell’aggressione. L’integrazione, al di là della sua apparenza pacifica e democratica, è solo uno strumento, un arma per perpetuare un sistema sociale basato sulla violenza sostanziale del dominio di classe. La scelta politica del riformismo socialdemocratico, nell’abbracciare l’arma prevalente dell’integrazione con i suoi risvolti parlamentari, è quindi destinata a diventare strumento oggettivo dell’oppressione capitalistica. A dire il vero, in certe vicende storiche, ad esempio durante la repressione sanguinosa dei moti spartachisti nella Germania del 1919, il riformismo ha anche utilizzato senza problemi di coscienza l’arma alternativa dell’aggressione violenta. Ripetiamo dunque che la potenza e l’energia di classe (della borghesia) è nei due casi la stessa; in fase democratica si tratta di energia potenziale; sulla bocca del cannone si tiene l’innocua custodia di tela, mentre nella fase dittatoriale si toglie la custodia e si carica l’arma per fare fuoco, e l’energia borghese passa allo stato cinetico.
Parte terza: la via democratico-elettorale come ascensore per l’inferno
La via riformista propone la conquista pacifica dei poteri pubblici attraverso le elezioni, leggiamo un testo del 1953, intitolato Il cadavere ancora cammina ”La retta posizione programmatica era di rivendicare non tanto la formale conquista dei poteri pubblici ma la rivoluzionaria futura conquista del potere politico, e vanamente l’ala destra possibilista e riformista cercò di coprire (agli inizi del 900) la formula data da Marx fin dal 1848: dittatura della classe operaia”.
Le lezioni della storia fanno dire ai nostri compagni, “I problemi storici di oggi e di ieri li scioglie non la legalità ma la forza. Non si vince la forza che con una maggiore forza. Non si distrugge la dittatura che con una più solida dittatura. E’ poco dire che questo sporco istituto del parlamento non serve a noi. Esso non serve più a nessuno […] L’elezione non solo è di per sé una truffa ma lo è tanto più quanto più pretende di dare parità di peso ad ogni voto personale. Tutto il polpettone in Italia lo fanno poche migliaia di cuochi, sotto cuochi e sguatteri, che si pecoreggiano in lotti “a braccio “ i venti milioni di elettori. Se il parlamento servisse ad amministrare tecnicamente qualche cosa e non soltanto a fare fessi i cittadini, su cinque anni di massima vita non ne dedicherebbe uno alle elezioni e un altro a discutere la legge per costituire se stesso.” Da Il cadavere ancora cammina. Anche oggi abbiamo sotto gli occhi il paradosso del riformismo democratico, consistente nella permanente ricetta della conquista elettorale dei poteri pubblici come via maestra per l’emancipazione proletaria. In cosa consista il paradosso è presto detto; esso consiste nel mettere la volpe a guardia del pollaio, nel fingere di credere che l’apparato politico statale di oppressione della classe borghese possa essere convinto, peraltro pacificamente, ad operare in maniera opposta alla sua missione originaria. Non esistendo a memoria d’uomo notizia di casi simili, si deve concludere che l’apparato statale borghese, sia nella fase di energia allo stato potenziale che in quella allo stato cinetico, sia nella fase in cui si mostra in prevalenza come arma integrazionista/democratica sia nella fase repressivo/fascista, è sempre e comunque l’espressione dell’energia totale, cioè della forza attraverso cui la borghesia continua ad opprimere i suoi servi: la sua arma privilegiata di offesa e difesa finalizzata all’oppressione. Le libere elezioni sono uno specchietto per le allodole, non solo sono una truffa, ma lo sono tanto più quanto più pretendono di dare parità di peso ad ogni voto personale, poiché tutto il polpettone in Italia lo fanno poche migliaia di cuochi, sottocuochi e sguatteri, che si pecoreggiano in lotti “a braccio “i milioni di elettori. Questo significa che in una società divisa in classi, permeata dai condizionamenti ideologici del regime sociale dominante, la cosiddetta volontà popolare espressa attraverso il voto non può che riflettere la potenza di quegli stessi condizionamenti: ne consegue che le scelte di voto delle classi dominate si orienteranno in prevalenza verso i partiti borghesi e riformisti, e qualora non dovesse, per assurdo, andare così, ci penserebbe la repressione armata a soffocare ogni velleità di cambiamento. Nel 1948 ricordavamo che “Eletto chicchessia al governo della repubblica, non avrebbe altra scelta che rinunziare, o offrirsi in servigio all’ingranamento di forze capitalistiche mondiali che maneggia lo Stato vassallo italiano”. Per questi motivi abbiamo definito, all’inizio del paragrafo, la via democratico-elettorale come ascensore per l’inferno, richiamando l’omonimo film del 1987 (angel heart). Come il personaggio di una tragedia, il nostro eroe proletario subisce a sua insaputa la congiura di forze sociali e politiche inesorabili, e bevendosi tutto il veleno del parlamentarismo democratico-riformista, non si avvede di aderire, contro i suoi stessi interessi, all’ideologia e ai comportamenti integrativi proposti dal sistema dominante. Quando talora si fa strada, attraverso la percezione nata dalla pressione dei fatti, la vera condizione servile a cui è ridotta la propria esistenza, e anche la natura demo-fascista dell’apparato statale in cui ha creduto, è spesso troppo tardi per recuperare il tempo perduto nella stolta accettazione dei miti sociali borghesi. Descrivendo un rituale avvenuto nel lontano Tibet, riferito da un giornalista inglese, la nostra corrente riassumeva nel 1953 il dramma politico-sociale di cui abbiamo finora trattato, usiamo quindi come epilogo alcuni stralci di quel documento: “ Nella notte lunare il rito aduna, forse a migliaia, i monaci vestiti di bianco, che si muovono lenti, impassibili, rigidi, tra lunghe nenie, pause e reiterate preghiere. Quando formano un larghissimo cerchio si vede qualcosa al centro dello spiazzo: è il corpo di un loro confratello steso supino al suolo. Non è incantato o svenuto, è morto […] uno dei sacerdoti lascia la cerchia e si avvicina alla salma. Mentre il canto continua incessante egli si piega sul morto, si stende su di lui aderendo a tutto il suo corpo, e pone la sua viva bocca su quella in disfacimento […] è il grande esperimento di riviviscenza dell’occulta dottrina asiatica che si attua […] Sotto la forza del magnetismo collettivo la forza vitale della bocca sana è penetrata nel corpo disfatto e il rito è al culmine: per attimi o per ore il cadavere, ritto in piedi, per la sua forza cammina. Così sinistramente, una volta ancora, la giovane generosa bocca del proletariato possente e vitale si è applicata contro quella putrescente e fetente del capitalismo, e gli ha ridato nello stretto inumano abbraccio un altro lasso di vita”. Da ‘Il cadavere ancora cammina’.