Il ‘bene pubblico’ nella società capitalistica
Sembra che i problemi di tenuta dei conti pubblici rendano impossibile la rivalutazione degli assegni pensionistici, come inutilmente perorato da alcune associazioni di pensionati. Sono tanti i pensionati che vivono con un assegno mensile inadeguato anche per consentire l’acquisto di farmaci e di cure mediche appropriate. Costretti a vivere in maniera rocambolesca, alla loro età, centellinando la misera pensione in acquisti essenziali, in compagnia dei ricordi e della solitudine. D’altronde gli aumenti del costo della vita, l’inflazione, una volta compensati dalla scala mobile sono ora recuperabili solo con i limitati aumenti retributivi contenuti nei rinnovi contrattuali.
Non è allarmismo sociale constatare che nell’ultimo decennio è aumentato il numero dei poveri, dei disoccupati, dei disperati. Eppure la sfera politica e massmediatica viaggia su un piano distante da questi piccoli ‘inconvenienti” del capitalismo, in nome, non sembri paradossale, del bene comune.
Le motivazioni ufficiali alla base di molte decisioni politiche e legislative, abitualmente peggiorative di precedenti situazioni economiche, contrattuali, previdenziali, fiscali, sono la salvaguardia della finanza pubblica, e per analogia del bene pubblico.
Come abbiamo sostenuto già in passato, l’attuale società ha un cuore nero basato sulla violenza parassitaria di una classe sociale, in altre parole il dominio dell’uomo sull’uomo; tuttavia, questo aspetto fondamentale, viene nascosto da una fitta coltre di effetti fumogeni, luoghi comuni e parole prive di fondamento reale, narrativa ideologica. Un mantra ricorrente è quello sulla necessità di fare sacrifici (andare in pensione a 70 anni, accettare gli aumenti fiscali, il lavoro flessibile) per salvare i conti pubblici e il futuro delle giovani generazioni.
Tanti simpatici sapientoni ripetono da sempre un ritornello, una vera beffa crudele, esso recita: il popolo ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità per molti anni, lo stato ha dovuto indebitarsi (per quasi 2500 miliardi di euro), onde consentire al popolo di vivere oltre le proprie possibilità, ed ora è costretto a fare un po’ di tagli a destra e a manca per pagare gli interessi sul debito.
Lo stato, secondo un banale luogo comune, rappresenta la collettività e quindi il bene di tutti, questo stato di tutti starebbe ora cercando di risanare i conti. Considerato che il risanamento dei conti implica stringere la cinghia, allora, in nome del bene comune, viene legittimamente chiesto, ad un indistinto popolo di cittadini tutti uguali davanti alla legge, di stringere la cinghia.
Ma è davvero così?
Gli stati contemporanei, nessuno escluso, in una società divisa in classi, sono lo strumento creato dalla classe sociale dominante, la borghesia, per difendere i propri interessi. La sovrastruttura politico-statale proietta la potenza latente/cinetica della propria borghesia in due direzioni, all’interno del territorio nazionale, nei confronti del proletariato, all’esterno del territorio nazionale, contro gli stati borghesi rivali. Debito pubblico e stato borghese sono intrecciati, almeno in due modi. Parliamo del primo modo. Nel momento in cui il saggio di profitto cala nel settore economico industriale, allora la ricerca di investimenti redditivi si sposta sul piano finanziario, dove lo stato assicura al capitale investito in forma di CCT, bot, BTP un adeguato interesse. Da dove vengono prelevate le somme per pagare gli interessi è presto detto: dalle tasche del pantalone proletario, attraverso un prelievo fiscale che si configura come vero sfruttamento secondario, rispetto a quello principale subito sul luogo di lavoro. Questo argomento andrebbe continuamente contrapposto a tutti coloro che blaterano di sacrifici finalizzati al risanamento del debito pubblico.
Tuttavia sul piano della comunicazione di massa valgono altri messaggi, e la nostra voce è solo un flebile sussurro.
Il secondo intreccio riguarda il rapporto fra potenze capitalistiche: le economie deboli sono in genere indebitate anche nei confronti di investitori (pubblici e privati) internazionali, in genere riferibili ad economie forti; queste ultime ottengono vantaggi sia economici che politici dallo stato di inferiorità dei deboli (interessi attivi sul capitale dato in prestito e capacità di condizionamento della vita politica del paese indebitato).
Non è forse la dinamica descritta nel nostro articolo dal titolo ‘Europa capitalistica’?
Attraverso le tasse sui servizi e le imposte dirette e indirette sul reddito, lo stato convoglia una parte del reddito da lavoro dipendente verso le tasche del capitale nazionale e internazionale, in forma di pagamento degli interessi sul debito pubblico. In questo modo i lavoratori offrono pluslavoro sia al capitale nazionale che internazionale. I dislivelli economici fra aree, regioni e nazioni sono fisiologici nel capitalismo, dunque è normale che esistano dei rapporti di simbiosi funzionale fra economie forti e deboli. Le prime, oltre a valorizzare una parte del proprio capitale investendolo nel titoli pubblici delle seconde, hanno la possibilità di investire anche nell’economia industriale delle economie deboli, delocalizzando i propri macchinari e sistemi più evoluti, e impiegando una forza lavoro locale retribuita con salari inferiori. In alternativa, la massa di disoccupati presenti nelle economie deboli funge da esercito industriale di riserva, contribuendo a contenere le richieste salariali del proletariato dei paesi definiti come economie forti.
In definitiva le dinamiche capitalistiche si configurano come vere e proprie gare di parassitismo, fra imprese, aree economiche, economie nazionali, ovviamente sulle spalle dei lavoratori.
In ostinato conflitto con la realtà di fatto, alcuni analisti continuano a sostenere la tesi dell’indebolimento degli Stati, giungendo al paradosso di riconoscere da un lato la loro crescita organizzativa e militare, e dall’altro l’inevitabile indebolimento/immobilizzazione causato proprio da siffatta crescita, per ipertrofia, al pari di un malato di bulimia.
Gli stati borghesi sono a nostro avviso vivi e vegeti, perché l’unico fattore che potrebbe davvero indebolirli, in base alla teoria marxista, ovvero l’azione di classe del proletariato, per ora ristagna nella palude melmosa della controrivoluzione. Nell’articolo di recente ripubblicato, ‘Prometeo incatenato’, è tutto spiegato con grande chiarezza. In verità non esistono scorciatoie fataliste inevitabili nel corso delle transizioni storiche, i cui tempi ed esiti dipendono da intrecci di fattori oggettivi e soggettivi non riassumibili in formulazioni scientiste (sulla tendenza scientista abbiamo scritto in ‘Scienza tecnologia e apparato militare-industriale’, ‘Dialettica e storia’, ‘Conoscenza’).
La legge storica della miseria crescente fa da sfondo oggettivo, alla possibilità di una ripresa dell’azione di classe del proletariato, e al correlato rafforzamento organizzativo del partito storico (alias teoria invariante).
Le formule scientiste possono fino ad un certo punto soddisfare un bisogno di certezza sul corso storico del capitalismo, supponendo il suo inevitabile collasso.
Come abbiamo spesso ricordato, anche di recente nell’articolo ”ll comunismo è inevitabile?’, il corso storico non può essere predeterminato con certezza assoluta, ma ragionevolmente previsto, nelle sue linee generali di causa ed effetto, da una analisi scientifica, multifattoriale, approssimativamente vicina al vero. Determinismo dialettico, scientifico, dunque, come mezzo per avvicinarsi alla verità ( di cui non viene negata l’esistenza, ma solo il suo possesso completo, qui ed ora).
Conoscenza vicina al vero, come ricorda Engels, non significa verità totale, perché la realtà è innumerevole, e noi non possiamo numerare l’innumerevole, a meno di non ritenerci in possesso dell’onniscienza, ma in questo caso entreremmo nel campo della teologia e non della scienza.