L’anno 2018 si è concluso con la morte di un tifoso investito, forse accidentalmente, da un autovettura, e con vari feriti dopo gli scontri fra opposte tifoserie. Un orgia di violenza insensata.
Sarebbe fuori strada chi pensasse solo a una violenza di tipo giovanile, frutto dell’emarginazione e del nichilismo tipici di questa società. In realtà, oltre tutto questo, ritroviamo anche altri protagonisti e motivazioni non proprio identiche al primo tipo (i giovani teste calde).
Una parte dei tifosi coinvolti periodicamente negli episodi di scontro è formata da uomini adulti, quarantenni o cinquantenni, con un lavoro ben remunerato e una famiglia, probabilmente scevri da disagio giovanile, o ribellismo adolescenziale. Cosa spinge costoro a rischiare la vita in pericolose battaglie di strada, con armi da taglio, bastoni e catene? Forse il desiderio di restare giovani, e quindi incoscienti e impetuosi come sono alle volte i giovani. Ma forse, a un livello psicologico di superficie è ipotizzabile che operi l’identificazione con un gruppo di combattimento, una milizia, e quindi l’ebbrezza di mettere a rischio la vita in anonimi duelli con altri soggetti spinti da motivazioni dello stesso tipo. Un etica del guerriero e della guerra. Almeno nella rappresentazione di alcuni ultras.
Quindi potremmo descrivere il fenomeno come un gioco di guerra che travalica sul piano reale, molto più ricco di emozioni dei videogiochi da computer, Xbox, PlayStation.
È possibile che gli scontri reali e quelli virtuali abbiano una comune radice motivazionale, forse individuabile nel bisogno di mettersi alla prova, di rischiare, di sfidare la sorte. Ma questo è solo un aspetto, infatti a livello psicologico profondo, l’aspetto principale del fenomeno del tifo violento è la costruzione di un totem ( la squadra del cuore) da proteggere dalle tifoserie rivali.
Creato il fattore simbolico identitario, al membro della tifoseria può essere richiesto di combattere e correre dei rischi per la propria fede calcistica. In fondo fare parte di un gruppo sociale formale o informale, implica che gli altri membri del gruppo abbiano delle aspettative verso di noi, e il nostro ruolo è proprio l’insieme dei comportamenti previsti e attesi. Dunque sul piano individuale l’ultras violento ( ci sono anche i non violenti) combatte per soddisfare il bisogno/dettame nietzchiano di vivere pericolosamente, mentre su un piano socio-archetipico combatte per il proprio totem/gruppo.
Il tifoso violento combatte per i colori della squadra, così come i membri delle gang metropolitane indossano un abbigliamento particolare, che funge da segno distintivo rispetto ai rivali. Nelle tifoserie violente si palesano delle forze distruttive apparentemente estranee alla società benpensante borghese, che si rappresenta come democratica, inclusiva, razionalmente abituata ad affrontare i problemi con la negoziazione e la legge uguale per tutti.
In realtà le molte forme di violenza e sopraffazione presenti in questa società borghese sono in piena assonanza con la violenza basica del parassitismo capitalista, con la quotidiana sottrazione di energia vitale nelle galere aziendali (pluslavoro). Tuttavia non si può ragionare in astratto di violenza, o di altro.
Il significato sociale della violenza muta in relazione ai contesti storici in cui tale fenomeno viene registrato.
Nelle società umane più antiche, e qui pensiamo alle società comuniste di Mohenio Daro e Harappa, oltre ottomila anni indietro nel tempo, come rivelato da recenti scavi archeologici, esisteva una specifica funzione sociale guerriera. Molti bassorilievi, statuette, resti di spade e punte di lancia, hanno svelato questa realtà. Contro chi combattevano i guerrieri di quei tempi lontani?
Forse contro le orde nomadi bellicose, o gli eserciti di società stanziali all’epoca già schiaviste, in ogni caso contro i nemici della comunità. Questo è il tratto essenziale. È esistito un tempo in cui la violenza, o meglio l’arte della guerra, era al servizio del bene comune, e non al servizio di una classe di schiavisti, o subordinata alla ricerca distorta di emozioni forti e bisogni identitari da parte di soggetti che vivono in una società alienata. Se dobbiamo dare fede alle ipotesi scientifiche archeologiche, furono i cambiamenti relativi al corso dei fiumi a far decadere e spopolare quelle città. Dunque Mohenio Daro e Harappa non furono mai sconfitte e conquistate, la loro fine fu determinata da fattori naturali, anche se difficilmente sarebbero sopravvissute circondate da società schiaviste.
Perché questa digressione rispetto al tema del tifo violento?
Semplice, perché i comportamenti degli ultras, per quanto sbagliati, in quanto produttori di una violenza fine a se stessa, in sintonia con la violenza basica del capitalismo, lasciano anche trapelare, in modo ovviamente alienato, degli archetipi relativi a funzioni sociali indispensabili per la continuità del gruppo sociale.
Le antiche società prima menzionate presentavano una tripartizione funzionale in guerrieri, produttori e sciamani.
I mezzi di produzione non erano di proprietà o controllati da uno dei gruppi, ma rientravano nel patrimonio condiviso. Le tre funzioni non prefiguravano infatti le società divise in classi di schiavi e padroni, come quelle attuali, ma l’esistenza di un organismo composto da organi con specifiche e soprattutto vitali funzioni.
Dunque la nostra valutazione del tifo violento tiene conto del terreno sociale di manifestazione, e della sostanziale differenza fra la violenza finalizzata alla salvaguardia della reale comunità umana, e la violenza imperniata su una fede identitaria in una squadra di calcio, in sintonia con la violenza di una società divisa in classi.