Complessità e metodo dialettico

Complessità e metodo dialettico

‘Il proletariato rivoluzionario, cadendo gloriosamente sulle barricate di Berlino, nelle sanguinose giornate del gennaio 1919, perdeva la battaglia non solo per la preponderanza degli sgherri del socialdemocratico Noske, ministro degli interni della repubblica borghese, ma per l’intima debolezza del movimento rivoluzionario, che, nonostante la guida di capi di primo ordine quali furono Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, non aveva saputo elaborare una esatta piattaforma teorica e programmatica. Nel movimento rivoluzionario, tale è l’unità tra teoria e pratica che gli errori nel campo dottrinario si pagano col sangue e la sconfitta sul terreno della dichiarata guerra di classe. Dove il filisteo o il fanatico dell’attivismo crede di vedere vane accademie o bizantinismi di sette marxistiche, lì si difende invece la carne e il sangue delle future formazioni di combattenti rivoluzionari. Gli errori dottrinali di Rosa Luxemburg non erano di quelli marginali che non intaccano la sostanza vitale del marxismo’.

Tratto da ‘Questioni storiche dell’ internazionale comunista’.  il programma comunista, 1954.

 

 

 

 

Nell’ultimo anno abbiamo dedicato un certo spazio allo studio di talune posizioni, a nostro modesto avviso minate da gravi errori teorici. Proviamo ora a riepilogare il contenuto di una parte di queste posizioni,  sfocianti regolarmente in letture deformate della realtà socio-economica. Il fatto che gli autori di queste letture  presuppongono di utilizzare una metodologia marxista, è un dettaglio che non deve meravigliare, o trarre in inganno. Nel marasma caotico della decadenza  sociale borghese vale la stessa critica che la scuola eleatica riservava agli uomini dalla doppia testa, cioè a coloro che dicono tutto e il contrario di tutto, nello stesso istante, contemporaneamente. Fare ossequio formale al metodo e alla teoria marxista, e poi sostenere delle letture della realtà lontane dal contenuto scientifico di questa teoria è un segno dei tempi (oltre che espressione di una incallita ars funamboli degna di miglior causa). Dunque entriamo nel dettaglio delle posizioni, a nostro giudizio, distanti dal realismo marxista. Una delle prime ‘stranezze’ che abbiamo letto e criticato, è quella sugli stati borghesi che si starebbero indebolendo/devitalizzando. Bene, abbiamo in passato esposto alcune evidenze storiche in obiezione a tale lettura, e mai abbiamo ricevuto risposte o contro argomenti da chicchessia. L’evidenza principale è questa: il marxismo sostiene il rafforzamento degli apparati burocratici e polizieschi statali, in ragione del fatto che aumentando nel corso dello sviluppo capitalistico i  proletari senza occupazione e reddito, e il grado di sfruttamento dei proletari occupati, dovrà aumentare anche il potenziale di scontro sociale di classe, e dialetticamente lo stato borghese dovrà rafforzarsi per fare fronte al pericolo della bomba a orologeria sociale innescata dalle dinamiche stesse del capitalismo. Allora, chi sostiene il contrario, quali argomenti può opporre? Non abbiamo ricevuto nessuna risposta alle evidenze storiche elencate, infatti la tesi che sostiene l’indebolimento degli stati è una tesi apodittica, non dimostrabile, basata su sofismi astratti dalla realtà storica. In garbata polemica qualcuno ci ricorda che il pensiero e la metodologia di indagine marxista sono imperniati su processi logico dialettici induttivi e deduttivi, che fanno impiego di schemi astratti. Lo sappiamo anche noi. Gli schemi e le astrazioni (nate da precedenti verifiche esperienziali) sono delle fasi di un processo conoscitivo che si conclude, però, con il ritorno al concreto, attraverso la verifica scientifica storico/fattuale. E questo non è empirismo o concretismo, ma corretta metodologia di ricerca basata sull’uso di schemi astratti, leggi tendenziali socio-economiche, storicamente invarianti, tasselli non di metafisiche verità assolute (il presunto determinismo assoluto), ma parti necessarie di un processo conoscitivo composto da approssimazioni successive al vero, al complesso, al non ancora svelato. Ora ci chiediamo da dove nasce la strana idea degli stati borghesi in via di indebolimento. In primo luogo da un altro errore, quello del comunismo inteso come movimento meccanico, fatalista, di abolizione della società capitalistica (movimento in cui la lotta di classe e il  partito, stranamente, sono assenti o quasi ). Questo è un errore a sua volta originato dall’adesione a una concezione materialistica volgare, pre-marxista, basata sull’idea di scienza (borghese) come sostituito della teologia, e quindi come corollario della verità vera e assoluta (il presunto determinismo assoluto). Le chiare lettere di Marx, Engels e Lenin sulla conoscenza materialistico-dialettica, da intendere come processo di approssimazione al vero, evidentemente, per i moderni scientisti non significa nulla. Dunque, se nella storia umana viene erroneamente postulato un processo meccanico finalistico (alias movimento reale) verso il comunismo, allora è inevitabile che gli stati borghesi vengano erosi e indeboliti da questo movimento. Tale sillogismo è formalmente corretto, anche se infondato dal punto di vista della realtà economico sociale svelata dalle scoperte scientifiche del marxismo. Dunque il sillogismo è corretto, ma solo a patto di accettare come vera l’idea di un movimento che erode gradualmente gli assetti di potere della società esistente, e quindi anche gli stati. Chiunque può notare la vicinanza al riformismo gradualista, come esito finale di questa concezione. Sul piano sociale effettuale il movimento reale è la lotta di classe, lotta che determina (in un certo momento di acuto scontro e quindi di massima percezione dei processi reali ) una teoria invariante (storicamente), e un partito (storico e formale) che si richiama a quella teoria, e ne fa programma politico. Il fatto che il cambiamento storico (e quindi il movimento reale) , nel marxismo, avvenga sulla base di bruschi salti dialettici (risultanti dell’interazione di oggettivo e soggettivo) , non ha importanza per gli assertori delle transizioni naturalistiche, graduali e meccaniche. In questa visione (meccanico/scientista) gli stati si indeboliscono perché la società capitalistica è vecchia, e poiché i vecchi sono notoriamente deboli, anche lo stato borghese deve essere debole. La controprova negativa presente nella storia reale, controprova data dal fatto che gli stati borghesi  non si spengono da soli, non si suicidano, ma vengono soppressi/distrutti dal conflitto sociale proletario (comune di Parigi, Russia), o temporaneamente disgregati dall’azione di altri stati borghesi, non ha nessun rilievo. Nel caso iniziale, la soppressione violenta produce una nuova impalcatura statale proletaria, i cui scopi e funzioni sono antitetici alla precedente attrezzatura borghese. Nel secondo caso, la disgregazione è il momento di partenza di una successiva ricostruzione, funzionale agli interessi capitalistici endogeni ed esogeni che hanno favorito la disgregazione del preesistente apparato statale. Ricordare questi dati ci espone all’accusa di empirismo e concretismo dai cultori delle proposizioni apodittiche, ignari degli  esiti storici e concettuali aporetici di queste proposizioni, in definitiva prive di uscite sul piano della storia reale, e dunque chiuse in una prigione di astratti sofismi e rudimentali tautologie.

Torniamo a presentare ed analizzare qualche altra ‘perla’ concettuale partorita dalla vulcanica attività di travisamento tipica dei tempi. È ora il turno del capitale autonomo, un incauto neologismo basato sempre sul teorema assurdo degli stati in via di indebolimento. La variazione sul tema consiste, in questo caso, nel postulare la non dipendenza dei capitali in cerca di investimenti redditizi da un apparato statale di riferimento. Non è il caso di dilungarsi troppo nella confutazione di tale concetto, nato forse anche da una incomprensione del significato economico-aziendale delle imprese multinazionali e transnazionali, dei loro bilanci, della differenza fra sedi legali e filiali estere, basterà ricordare che come la produzione capitalistica avviene su base concorrenziale-aziendale, anche il capitalismo globale si sviluppa su una base concorrenziale ineliminabile (in caso contrario non sarebbe capitalismo, come ben esposto da Lenin e da noi ripreso in Chaos imperium ), e quindi si sviluppa per aree economiche ed economie nazionali concorrenti (e gli intrecci di capitali non smentiscono tutto questo, non pongono in essere nessun superamento delle rivalità fra stati, cioè fra aziende, aree economiche ed economie nazionali, ma anzi le accentuano, come ricorda Lenin in ‘Imperialismo fase suprema del capitalismo’). Gli stati borghesi sono strettamente correlati a queste realtà capitalistiche intese in senso ascendente, ripetiamolo, come aziende, aree economiche e infine economie nazionali. Esiste un rapporto di dipendenza funzionale fra Stato ed economia, verificato storicamente, e dunque non si comprende il senso del teorema sul cosiddetto ‘capitale autonomo’. Non è da pappagalli ricordare che, senza una attrezzatura statale, una classe sociale non potrebbe dominare, e inoltre il capitale prima di essere una quantità economica è un rapporto sociale di dominazione, reso possibile, in ultima istanza, da un apposito apparato statale. Quindi non può esistere una autonomia del capitale dagli Stati, essendo, stato e capitale,  l’espressione comune della violenza storica di una classe sociale ai danni di un altra classe sociale. Se il ribadire queste deduzioni marxiste, vuol dire essere assimilabili ai pappagalli, allora ci dicano i critici quali sono le nuove fonti di ispirazione a cui essi si  abbeverano. Altra variazione sul tema è l’idea di una struttura statale europea espressione del capitale finanziario, cioè espressione della volontà di regolare l’anarchia dei mercati e di controllare i fenomeni più distruttivi e indisciplinati del capitalismo. Una volontà incrinata da recenti tendenze disgreganti.
Non si comprende perché il capitale europeo abbia in passato deciso di regolare l’anarchia dei mercati con uno strumento superstatale, e ora invece che emergono delle forti divergenze di interessi fra Inghilterra, Francia e Germania, tenda a regredire agli stati nazione di partenza . Non è credibile affermare che le varie economie nazionali abbiano prima tentato di regolare l’anarchia e ora, sotto la spinta della crisi del 2008, tornino alla giungla del si salvi chi può. In realtà l’unica regolazione, alla base della stessa unione europea, come ben chiarito nell’articolo ripubblicato da noi a marzo, e risalente agli anni 60, avente come oggetto l’Europa unita, sono sempre gli equilibri di potere fra opposte aree economiche ed economie nazionali. L’anarchia capitalistica trova regolazione solo nella legge del più forte, sempre vigente, sempre attiva. Taluni, invece, mostrano di credere che il comitato di affari abbia l’intenzione di regolare l’anarchia del mercato, questa è la tesi socialdemocratica. Invece lo stesso comitato /governo /stato è espressione di un rapporto di forza, un equilibrio fra potenze e interessi. È la forza, regolata solo dalla vittoria o dalla sconfitta ottenuta nello scontro pratico con altre forze, che determina i temporanei equilibri di potere vigenti in tutti i governi e comitati di affari della borghesia. La regolazione degli interessi capitalistici, come scopo apparente del comitato d’affari, altrimenti detto superstato europeo, è una impostura, in quanto sono gli interessi predominanti stessi che dettano legge dentro i comitati/superstati, e dettano legge sulla base degli esiti di scontri precedenti che hanno decretato la vittoria di certi interessi e la sconfitta di altri interessi. Il testo degli anni sessanta parla infatti di accordi leonini in merito ai patti europei dell’epoca, cioè di accordi miranti a stabilizzare la posizione di privilegio di certe forze capitalistiche a svantaggio di altre.

Un altro esempio di lettura deformata è quella relativa ai movimenti come Occupy, nuit debout o altro. In questo caso la composizione sociale prevalente a base di ceto medio, e i programmi democratico borghesi dichiarati, vengono letti invece come espressione del famoso movimento reale, e quindi come una genuina manifestazione della moderna lotta di classe proletaria. Anche in questo caso il sistema capitalistico, lo affermiamo noi senza tema di smentita, non ha nessuna ragione di preoccuparsi per l’esistenza di tali movimenti (così come nulla deve temere da chi li confonde per movimenti di lotta proletari, incantato come un allocco dal loro apparente luccichio protestatario ).

Sempre sulla base di concezioni in fondo economicistiche del divenire storico, si può giungere infine anche a teorizzare la natura totalmente endogena, autoprodotta, del fenomeno fondamentalista, tacciando di complottismo elitista chi cerca di studiare la concomitanza di vari fattori causanti(endogeni ed esogeni), nel divenire di questo come di altri fenomeni. Le analisi multifattoriali non piacciono ai riduzionisti: e anche le evidenze (empiriche?) e le documentazioni che parlano di finanziamenti esterni, aiuti e traffici, a favore della crescita di tale fenomeno, vengono semplicemente ignorate. Il fondamentalismo sarebbe un fenomeno autoprodotto, ma cosa significa questo termine, cosa serve a spiegare ? Tutto ciò che viene alla luce nella realtà non è forse correlato e intrecciato a ciò che già esiste, e ancor di più non è condizionato nel suo stesso sorgere dai processi già in atto nel mondo? I gruppi fondamentalisti sorgono dentro uno scacchiere dove operano già determinate potenze capitalistiche, è dunque possibile che la formula magica dell’auto produzione liberi da ogni strumentalizzazione, da ogni influenza di fattori causanti esogeni i nuovi fenomeni sociali?

Dunque un teorema estraneo alla dialettica struttura /sovrastruttura, quindi riduzionista e meccanicista, produce necessariamente  letture e interpretazioni distorte dei fenomeni sociali. Il caso del terrorismo fondamentalista è esemplare. In questo caso, dalla visione puramente fatalista e meccanicistica del divenire storico, si inferisce la presenza di una causa univoca, di tipo puramente endogeno/locale, alla base di un fenomeno, invece, strettamente interconnesso con la dimensione esogena del confronto /scontro fra potenze imperiali capitalistiche. Dunque, ripetiamo; la esclusione dell’esistenza di un piano di interazione dialettica fra struttura economica e sovrastruttura politico/statale, porta alla conclusione che il terrorismo fondamentalista è solo una realtà auto-prodotta sul piano strutturale. Quando Engels si esprime contro il riduzionismo economicista, ricorda che  anche se il materialismo considera come fattore fondamentale della storia l’attività economica, questo non esclude affatto la necessità di studiare altri fattori, il cui peso è di difficile quantificazione allo stato attuale delle conoscenze scientifiche. Il riduzionismo tende ad assolutizzare un fattore univoco come chiave di spiegazione del reale, ma in tal modo produce solo spiegazioni semplicistiche e mezze verità. Preda del vecchio vizio idealistico di possedere la pietra filosofale, non si avvede di utilizzare uno schema astratto troppo elementare, e sopratutto non verificato, anzi contraddetto dai dati emergenti sul piano storico-fattuale. Tutti possono sbagliare, quello che è ancora più grave dello sbaglio però è il perseverare nell’errore, dimostrando così di essere incapaci di imparare dall’esperienza. Le acquisizioni teoriche marxiste vanno utilizzate per comprendere la vita presente,   in quanto storicamente provate e verificate. Chi non comprende questo dettaglio fondamentale si trasforma spesso in allocco, scambiando le classiche lucciole per lanterne.

Nel caso della lettura e interpretazione delle vicende mediorientali, il default causato dal riduzionismo meccanicistico-monista è palese. Il rifiuto di considerare una metodologia, diciamo pure uno schema astratto (modello scientifico) basato sulla dialettica fra struttura e sovrastruttura, porta alla conseguente esclusione del ruolo delle strategie di potenza dei grandi moloch statali nelle vicende del fondamentalismo. Questo rifiuto segna un limite e una afasia nella capacità di lettura e analisi dei fenomeni mediorientali da parte dei riduzionisti. La complessità dei rapporti politici, sociali ed economici, le stesse interazioni fra cause economiche ed effetti socio politici scompaiono, quasi del tutto, favorendo un paradossale determinismo economico ‘assoluto’ rudimentale e semplicistico (un efficace  schema teorico astratto dovrebbe possedere ampiezza e profondità, se il suo scopo è davvero una conoscenza verosimile, scientifica, non ‘assoluta’, quella la lasciamo al fondamentalista). Il problema non è dunque l’utilizzo euristico di schemi astratti, utili per la produzione di successive ipotesi deduttive, ma la riduzione a uno dei fattori che determinano il divenire fenomenico. Non si tratta di relativismo, ma di prendere atto che la complessità socio-economica e politica consiglia schemi di analisi e ipotesi fondate su una gamma di cause multifattoriali, e che anche la preponderanza finale del fattore economico va temperata tenendo conto del peso di altri fattori condizionanti. Gli effetti di tipo socio politico, sorti su un certo terreno economico, possono trasformarsi in fattori di condizionamento di questo stesso terreno di coltura (Engels). Quindi il problema non è l’essere o non essere rigidi e schematici, ma l’utilizzo di schemi astratti inappropriati alla complessità socio-economica, schemi unipolari e meccanicistici, che ignorano il rapporto dialettico fra struttura e sovrastruttura, e quindi separano il piano oggettivo delle leggi economiche capitalistiche, e il piano soggettivo dell’azione degli attori politico-statali. Utilizzando le sovrastrutture politico statali le varie borghesie rivali si contendono il controllo delle risorse energetiche e umane, e la potenza degli apparati statali militari-industriali è certamente condizionata inizialmente dai fattori economici,  ma a sua volta diventa fattore che condiziona le cause economiche che l’hanno posta in essere. Già nel Manifesto del 1848 si trova esposta a chiare lettere questa concezione, il ritrovarsi costretti a ripeterla, oggi, luglio 2016, ai simpatici esperti nell’ars funamboli è davvero incredibile.

 

Postilla

Aporia è un ragionamento (proposizione) che pone come valide due posizioni o affermazioni dal contenuto opposto, sostenendo che entrambe sono vere. In tal modo viene violato il principio di identità e non contraddizione. Tuttavia, con Eraclito di Efeso, viene teorizzato che polemos, il conflitto, è la madre di tutte le cose, il logos che avvolge tutte le regioni dell’essere.  Nel divenire dell’essere gli opposti si superano e compenetrano sul piano temporale. Ma l’aporia non è la dialettica del divenire, l’aporia è la posizione contemporanea di (a) e del contrario di (a), cioè è la negazione dell’identità di qualcosa con se stessa, in una certa unità di tempo e spazio,  è l’affermazione dell’indistinto, è la violenza che vuole distruggere le catene della necessità dell’essere (Anassimandro). Già altra cosa è dire che (a) è in atto e ha la potenza di diventare non (a), Aristotele docet, ma questa affermazione non nega la precisa identità di una cosa con se stessa, in un certo spazio e tempo di esistenza. La soluzione dell’aporia è la dialettica, che non nega la presenza degli opposti, ma neppure li assolutizza come immutabili, o meglio come monadi chiuse in se stesse (Leibniz). Il reale, come piano ontologico è dunque concepito come un processo dinamico, in cui un ente, che è identità di essere ed esistenza, uguale a se stesso e non alla sua negazione, lascia la scena al suo opposto, cioè ad un ente diverso, ma comunque uguale a quell’essere che è ora sulla scena, cioè il possessore di una identità di essere ed esistenza (anche se lontana e opposta a quella che prima occupava la scena). La fenomenologia del divenire si mostra e appare come un processo dialettico, negarlo è nichilismo, infatti Parmenide parla dell’Eternità dell’essere,  ma inteso come natura universale, e il suo poema filosofico porta in effetti il titolo ‘Della natura’. Questa eternità è l’eternità del processo dialettico. La scuola eleatica è stata poi fraintesa, ma questo per ora è secondario. Invece l’aporia, in termini etimologici è una situazione di chiusura. Se infatti sostengo (a) e non (a) insieme, giungerò poi a concludere che la verità non esiste (almeno la verità relativa a un certo spazio e tempo, o la famosa teoria storicamente invariante, relativa a una certa società). Per questo motivo anche la proposizione apodittica, priva di agganci fenomenologici, fattuali e dimostrativi, è puramente intellettuale e nichilista (perché nega, cerca di rendere niente, l’unità di essere manifestato nei fenomeni della vita e il pensiero astratto che si sviluppa sull’esperienza della vita). Ora, la proposizione apodittica, astratta dal piano fenomenologico diveniente, può tranquillamente sostenere in modo antidialettico, e quindi aporetico, la compresenza di (a) e non (a). Kant parla di antinomia, alludendo a tale circostanza. Inoltre viene Ignorata anche la distinzione fra ente in atto, manifestato, e ente in potenza, cioè non ancora manifesto. Ricadute sul piano dell’analisi politica: un esempio di proposizione aporetica è quella che sostiene la presenza del comunismo già in atto (da molti segni) e l’esistenza di movimenti di contestazione del capitalismo come occupy e nuit. Questa concomitanza di postulati opposti (comunismo e capitalismo) nella stessa proposizione non dovrebbe essere possibile se si riconoscesse che la dialettica è un processo reale, senza transizioni evolutive, ma con trapassi bruschi e violenti, salti evolutivi. In realtà un fenomeno socio-economico come il capitalismo può divenire il suo opposto, solo quando ogni sua possibilità sarà stata consumata. In termini di ontologia dialettica lo spazio tempo di un ente, e il capitalismo è un ente reale, dotato di essere (un certo qualcosa) e di esistenza (in un certo spazio – tempo) contiene implicata la sua negazione potenziale di significato. Questa negazione è lo spettro, o per meglio dire è l’ombra che accompagna i passi dell’essere vivente, cioè i passi di ciò che si manifesta sul piano della realtà diveniente. Lo spettro del comunismo si aggira… recita il manifesto, quindi non è la sua realtà che si aggira. Ogni cosa contiene il suo contrario, in potenza, Parmenide ricorda che nel piano fenomenico tutto è ripieno di luce e di notte oscura. L’errore aporetico è sostenere l’indistinzione, in altre parole sostenere il kaos. Nella realtà dialettica un fenomeno lascia il campo al suo opposto quando ha esaurito le sue possibilità totali di essere, cioè le sue possibilità ontologiche, quindi fintanto che il capitalismo è reale il comunismo è solo uno spettro, una potenzialità di essere ed esistenza. Sostenere il contrario ricorda, a ben vedere, la vecchia versione berlingueriana degli elementi di socialismo introducibili dentro il capitalismo. Il concetto di euristico è invece collegato agli schemi ipotetici astratti, indica dei modelli di approssimazione al reale, nati dall’esperienza precedente di studio. Quindi tale strumento scientifico non ha pretese di determinismo ‘assoluto’, proprio perché la scienza moderna (ma in questo anche il marxismo) non si considera episteme, cioè sapere metafisico incontrovertibile, ma processo (tendenzialmente interminabile, in questo senso forse assoluto ) di approssimazione al vero.

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