Nota redazionale: il termine centro, sorto nell’ambito della meccanica per indicare la sbarra alle estremità della quale sono montate le ruote di un veicolo, è normalmente un elemento cilindrico, intorno al quale si compie la rotazione di un corpo rigido. Questa definizione enciclopedica è utile per iniziare alcune riflessioni politiche.
Nel capitolo quarto dei trentuno punti ritorna spesso il termine centro, o centrale. Tale termine serve a indicare, in origine, la posizione politica di rilievo di un organizzazione che si richiama, con adeguata coerenza, alla teoria marxista, sia nell’analisi della realtà politica e socio-economica del mondo contemporaneo, sia nella definizione di una linea di azione strettamente derivata dalla precedente analisi.
Niente di più e niente di meno.
Come si può ben vedere il centro è in definitiva l’organizzazione formale che meglio di altre riesce a stare sulla dorsale della teoria marxista, cioè della conoscenza della realtà di fatto, e quindi meglio sa svolgere i punti del programma derivato da quella teoria.
Tale organizzazione oltre ad essere il partito umano, al servizio della liberazione di tutta la specie umana dalla barbarie capitalistica, è anche un soggetto collettivo di conoscenza, volendo impiegare una definizione di Platone, è il moderno re filosofo, e volendo aggiungere una definizione di Machiavelli, già in passato impiegata, è il capitano di giornata, pronto ad usare, secondo le circostanze, l’astuzia della volpe, e la forza del leone.
Essere centrali politicamente, quindi fungere da asse portante per i raggi della ruota che formano la sinistra comunista, non è una condizione che dipende dal numero di militanti che formano una certa organizzazione, o dall’ossequio formale al marxismo dimostrato attraverso la vuota ripetizione di formule mal digerite, o addirittura dall’anzianità di ” servizio’. Questi sono presupposti falsi, di tipo piccolo borghese.
Non è la quantità a fare la differenza, ma la qualità. Per assurdo, un singolo compagno potrebbe essere oggi centrale, mentre mille potrebbero invece essere fuori strada. Ovviamente a patto che quel singolo compagno fosse in grado di riallacciare il filo del tempo con i testi in cui è sedimentata l’esperienza delle precedenti lotte di classe.
Niente di meno e niente di più.
È quello che è narrato nel capitolo quarto, per cui invitiamo i nostri lettori a considerare come la verifica storica confermi le nostre precedenti proposizioni.
Abbiamo chiuso con i dualismi, materia e pensiero sono solo energia di diverso livello vibrazionale, dunque anche l’energia di pensiero di un singolo compagno, o di un piccolo gruppo, può vivificare lo spirito rivoluzionario contenuto nei testi marxisti, rendendoli lettera viva, mentre lo sterile attivismo, ad esempio quello del nuovo corso, ha sempre trasformato in lettera morta gli antichi testi della nostra tradizione.
Dialettica: un milione di petali o di gusci vuoti non produce nulla, un singolo seme può produrre una foresta o un prato fiorito.
Rig-veda: ci sono molte aurore che ancora non hanno brillato.
Buona lettura
Punto n°4: necessità di un bilancio politico delle crisi di Partito
L’ONORE DEL PARTITO SI DIFENDE RESTAURANDONE LA ORIGINARIA FISIONOMIA E BUTTANDO FUORI LE POSIZIONI CON ESSA CONTRASTANTI.
E’ completamente estranea al determinismo marxista l’affermazione secondo cui la Storia avrebbe concesso al Partito formale il diritto di prendersi delle inopinate ed impreviste “vacanze”. Va quindi respinta la teoria ridicola e assurda secondo cui il nostro Partito avrebbe potuto efficacemente e validamente rinascere dalle sue ceneri nel 1984 sconfessando della sua storia passata solo i 5 numeri del giornale fatti uscire tra il Luglio 1983 ed il Gennaio 1984 dai liquidazionisti che daranno poi vita a “Combat”, e precisamente la serie che va dal n° 7 al n°11, ma non quelli precedenti, che uscirono prima che il vecchio Centro del Partito fosse sostituito dal Comitato Centrale, voluto dai suddetti liquidazionisti.
Ed anche quella -non meno idealistica- secondo cui il Partito avrebbe potuto poi ritornare sul proscenio alcuni mesi dopo l’éclatement del 1982-83 per riprendere il cammino interrotto (a ranghi ridotti ormai al lumicino) come se nulla fosse accaduto. Sono teorie che funzionano, per l’appunto, solo sul palcoscenico di un teatro. Dopo l’esplosione del 1982-83 una parte dei compagni si riorganizzò nel 1984 attorno al periodico “il programma comunista”, ma lo fece riprendendo il cammino che era stato esplicitamente e platealmente spezzato in tutto l’arco del biennio precedente. Nel 1990 avvenne poi una prima riaggregazione tra i compagni che avevano ripreso a lavorare in difesa dei principi comunisti attorno
alla testata che li aveva rappresentati e una parte delle forze originarie del Partito che, come la Sezione di Schio, dopo essersi opposte al “Nuovo Corso”, erano state costrette ad allontanarsi dall’organizzazione prima dell’éclatement, ma non per questo, pur nel loro isolamento, avevano smesso di praticare e seguire, nei limiti delle loro possibilità, il solco tracciato dal Partito Storico. Essendo infatti ormai assodato che “i comunisti non possono scegliere come organizzarsi, ma devono in ogni caso organizzarsi come partito, ossia come struttura politica distinta da tutte le
altre” (1) ed essendo nello stesso tempo per noi comunisti esclusa “ogni tolleranza, verso forme ed accordi di organizzazione fra gruppi o sezioni disomogenee” (2), entrambe le parti riuscirono a “conciliare la rivendicazione della continuità organizzata del partito con la situazione di confusione imperante nelle forze rivoluzionarie che seguì la crisi organizzativa e politica del partito nel ’82” (3) nell’unico modo che è non solo ammissibile ma doveroso per dei comunisti che tali intendano essere non solo di nome, e cioè riconoscendo che “non si trattava e non si tratta per noi, di «creare» un nuovo partito (i partiti non si creano) ma, nella sostanza, di continuare quello di sempre con le ridotte forze a disposizione” (4) ove tali forze avessero parlato lo stesso linguaggio e propugnato gli stessi metodi, come i compagni positivamente verificarono. Fu proprio su tale base che la Sezione di Schio “ritrovando[si] su un terreno comune e sgombro da impedimenti tattici”, ricominciò “il lavoro politico con i compagni che lavoravano attorno al giornale «il programma comunista»” (5), pur nella consapevolezza che un vero bilancio politico della crisi del Partito era indispensabile e che avrebbe dovuto essere fatto quando le nostre forze ci avrebbero consentito di andare oltre il piano elementare della sopravvivenza. Tale bilancio non era stato infatti definito né nel 1984 né nel 1990, anche se in questa seconda data alcuni passi in tale direzione furono compiuti, passi che, per quanto ancora timidi e incerti, andavano tuttavia in una direzione ben precisa, quella che di fatto sconfessava tutto il “Nuovo Corso”. Ciò risulta del resto evidente dal fatto stesso della riaggregazione con la Sezione di Schio prima e con quella di Madrid nel 2000: due delle Sezioni, che erano state costrette proprio dal “Nuovo Corso” ad allontanarsene, rientrarono infatti nel Partito non soltanto senza che fosse fatta riconoscere loro la giustezza dei precedenti provvedimenti disciplinari e senza che esse dovessero rinunziare alle posizioni politiche per cui quei provvedimenti erano stati presi, ma sulla base di un processo politico svoltosi in senso esattamente contrario ad una simile rinunzia. La riaggregazione con la Sezione di Schio avvenne infatti, come si dirà più in dettaglio più avanti, proprio sulla base del riconoscimento, da parte del Centro, della correttezza delle posizioni difese dalla sezione di Schio e che furono all’origine della precedente separazione. Il Partito trovò quindi in quello svolto la forza di proseguire il suo cammino senza fare certamente pettegoli e fasulli “bilanci” di colpevoli o innocenti, di meriti o demeriti individuali, ma facendo alcuni passi nella direzione di un bilancio politico dell’ultima grave crisi, ciò in cui è da individuarsi la sua capacità di
riprendere nella sostanza e non solo formalmente il “filo del tempo”. Un bilancio, tuttavia, che era ancora tutto da svolgere proprio in forza di quel lavoro organico di Partito in assenza del quale l’organizzazione non può che passare da una catastrofe all’altra. Un bilancio quindi che, prendendo le mosse da quanto timidamente si era iniziato ad ammettere, avrebbe dovuto essere solidamente impostato e definito e, soprattutto, avrebbe dovuto essere reso patrimonio vivente dell’intera compagine del Partito, cosa che purtroppo non avvenne né nel 1990 né dopo. Del resto, dal punto di vista materialistico, da noi sempre rivendicato, non aveva e non ha alcun senso considerare l’esplosione dell’intera organizzazione,
avvenuta nell’82-83, come una parentesi priva di qualsiasi rapporto con gli accadimenti degli anni precedenti, come una inspiegabile vacanza o come un’eclisse dovuta al transito di un astro ignoto ed inatteso. E’ evidente inoltre che tutte le crisi attraversate dal Partito sono per noi degne di interesse, ma è altrettanto evidente che non lo sono tutte ugualmente in ogni momento, e in particolare che la crisi che noi oggi abbiamo il massimo interesse a porre sotto la lente d’ingrandimento del nostro metodo è quella del 1982 non solo perché è stata la più catastrofica, ma soprattutto perché un bilancio politico attorno ad essa è stato delineato solo in modo estremamente sommario e quindi non è mai stato
né approfondito né, a maggior ragione, formalizzato, reso esplicito ed assimilato dall’intera compagine dei militanti. Il nostro Partito infatti dopo il 1984 e anche dopo il 1990 ha avuto il torto di non procedere in modo chiaro, netto ed irrevocabile ad una pubblica sconfessione del “Nuovo Corso” e dei suoi prodotti, circolari e provvedimenti disciplinari inclusi; di non addivenire cioè, come il partito aveva sempre fatto nella sua storia (1952, 1964), ad un bilancio politico approfondito e completo della crisi dell’organizzazione, cioè ad uno studio organico e dialettico e quindi senza nomi della malattia e delle sue cause. Il risultato di questa omissione è stato che in sordina, sospinto a poco a poco sul proscenio dalla pressione irresistibile di una controrivoluzione che continua purtroppo a pesare sul Partito come una cappa di piombo, il “Nuovo Corso” ha ripreso vigore nelle nostre file senza trovare una efficace risposta anticorpale. Non rendere esplicita la sconfessione del “Nuovo Corso” ha significato infatti ammettere, di fatto, che la crisi del 1982-83 fu il risultato del prevalere -rispetto alla corretta linea marxista, rappresentata dal Centro e dal “Nuovo Corso” politico da esso propugnato- dei due mostri Aktivia ed Akademia, tra loro oscenamente alleati nell’opera di distruzione del Partito, due mostri che fino al momento dell’esplosione il Centro sarebbe riuscito vittoriosamente a dominare. La gravità delle crisi appena trascorsa e che si è conclusa con la nostra espulsione risiede nel fatto che si innesta su una crisi precedente non chiarita fino in fondo nella sua origine e natura, e da cui non si sono né a suo tempo né dopo tirate tutte le necessarie lezioni. Compiere degli ulteriori passi in tale direzione era diventato
pertanto un compito di importanza vitale, e quindi andava perseguito ad ogni costo, come abbiamo cercato di fare, all’interno dell’organizzazione esistente. Anche se ciò avrebbe comportato ulteriori lacerazioni, come poi si è puntualmente verificato. L’articolo “Ciò che li distingue da noi” (6) comparve, ad esempio, nel n° 5, 1983 de“il programma comunista”, e dunque appartiene ad un periodo della vita del Partito che, secondo la tesi distorta riportata all’inizio, dovrebbe essere pienamente rivendicato e difeso: esso metteva in evidenza l’abisso esistente tra le posizioni del Centro del Partito di allora e quelle sostenute dalla Sezione di Schio, da poco costretta ad allontanarsene, che erano additate come l’espressione di un
“asservimento alla spontaneità più retrograda”. Come si spiega allora non solo il fatto che dieci anni dopo i “retrogradi” vengano riammessi nel Partito senza dover fare ammenda dei loro precedenti peccati “spontaneisti”, ma anche e soprattutto il fatto che nel 1990 il Centro del Partito avesse affermato addirittura che “Schio non è Torino, e aveva ragione” (7) nel momento in cui fu costretto ad allontanarsi, e come si spiega poi che nel 1993 lo stesso Centro si sia preso la briga di precisare che “Schio «aveva ragione» allorché i compagni di laggiù mettevano il Partito in guardia contro queste «deviazioni» attuali o potenziali” e che “noi [il centro] avevamo torto a sottovalutarle” (8)? Di quali deviazioni si trattasse lo spiega la stessa Lettera centrale del 1993 sopra citata, chiarendo che la Sezione di Schio aveva avuto ragione a dare l’allarme a proposito delle deviazioni movimentiste presenti nel Partito, rappresentate dalla tendenza a vedere in tutto quello che si muove l’espressione di «interessi proletari»: vedi la sopravvalutazione della lotta palestinese in quanto «terreno di classe», vedi il lancio di parole d’ordine para-democratiche in Algeria, vedi la frenesia dell’intervento in ogni comitato possibile in Italia”. Ciò significa che, secondo quanto stabilì il Centro nel 1993, Schio dieci anni prima aveva avuto ragione ed era stata “una delle sezioni all’avanguardia” (9) proprio nel combattere la tendenza dei dirigenti di allora a cadere “nella fraseologia inutile e nell’attivismo senza capo né coda”, a mescolarsi “a democratici di vario tipo”, a contrastare in modo volontaristico una “realtà […] ancora controrivoluzionaria” ed in cui “la lotta di classe stenta a riprendere”, e cioè per esempio creando “dei «comitati» che la facciano rinascere” oppure aderendo “a quelli che già ci sono” non solo sul terreno sindacale ma anche “per aiutare il «proletariato prigioniero» dato che, se non tutti i detenuti, almeno tutti quelli politici, secondo loro, sono in quanto tali, «avanguardie»” (10). Dato che quelle sopra riportate e riprese dall’articolo che le condannava erano le critiche fatte da Schio al Centro nel 1983, non resta allora che constatare che nel 1993 il Centro trovò la forza di riconoscere di aver avuto torto, quantomeno nel sottovalutare il pericolo movimentista, ma anche che ebbe la debolezza di non rendere esplicito e di pubblico dominio questo riconoscimento. Quello che importa in conclusione di rilevare è che Schio aveva avuto ragione –e, assieme a Schio, avevano avuto ragione anche tutte le altre voci (11) che dalla periferia avevano lanciato in nome della tradizione del Partito un grido d’allarme contro la deriva movimentista ormai in pieno svolgimento- non su una questione di dettaglio, ma nel combattere proprio contro quella tendenza a dimenticare i “limiti che ci separano dall’attivismo ad ogni costo” in cui, sempre secondo la lettera centrale del 1993, “la crisi del 1982 [aveva] avuto le sue radici” (12). Schio aveva avuto ragione, insomma, nel difendere non delle posizioni qualsiasi, ma precisamente quelle che nel 1983 i dirigenti di un Partito che, in ossequio ai dettami del feticismo organizzativo, si sarebbe mosso nella più piena continuità e aderenza al nostro programma storico, additarono al pubblico ludibrio come espressione di un “asservimento alla spontaneità più retrograda”. Il che significa, detto fuori dai denti, che la Sezione aveva avuto ragione nel difendere la continuità del Partito contro il “Nuovo Corso”. Sì: nuovo corso, che, nel nostro linguaggio, è sinonimo di opportunismo (13). Non dimentichiamoci che l’opportunismo non è una categoria morale, ma che significa semplicemente e soltanto barattare l’avvenire del movimento proletario in funzione di un successo
momentaneo. Lanciare parole d’ordine para-democratiche in Algeria e para-nazionaliste in Palestina, aderire ai fronti unici politici coi gruppetti nati dalla putrefazione dello stalinismo, corteggiare le sedicenti “avanguardie” ed il cosiddetto “proletariato prigioniero” per la smania di ingrossare le fila del Partito, o, peggio ancora, sbarazzarsi dei compagni della vecchia guardia come zavorra da buttare a mare per procedere più speditamente verso un Partito non più affetto dalla dannazione del rachitismo, tutto ciò significò, per l’appunto, sacrificare la ragion d’essere del Partito, i suoi principi ed i suoi fini sull’altare dell’effimero successo rappresentato dal sospirato ingrossamento delle sue fila, anche se il risultato di questa smania non fu quello atteso, anche se al posto di un irrobustimento organizzativo del Partito a scapito dei principi (ovvero un suo
consolidamento su basi opportunistiche) vi fu la disgregazione del Partito. Ci piaccia o meno, quello era ed è comunque opportunismo. Anche se non ebbe a raccogliere il successo sperato. Ed anche se chi propugnava quelle porcherie non lo faceva col torvo cipiglio di uno Stalin, perché lo faceva comunque alla maniera stalinista, mettendo in campo cioè il gelido calcolo per cui “il fine giustifica i mezzi”. Ma torniamo al bilancio della esplosione del Partito dell’82-83. A quei primi passi utili in tale direzione che abbiamo prima rammentato fece seguito nel 1994 anche un
ulteriore e importante riconoscimento da parte del Centro: quello della necessità di distaccarsi dalle Circolari attraverso cui si era voluto far passare il “Nuovo Corso” prima del 1982 (14), il che significava che bisognava raddrizzare il Partito, rimettendolo sul binario da cui per un decennio si era deviato. Non è inutile, a scanso di polemiche pretestuose e banali, ribadire che non si è voluto qui porre in rilievo in modo pettegolo ed anti-marxista chi aveva avuto ragione e chi invece aveva avuto torto, personalizzando quello che fu a tutti gli effetti uno scontro politico, ma si è voluto precisare su che cosa, a proposito di quali contenuti e proposizioni qualcuno, non importa quale nome avesse e quale fosse la sua collocazione geografica, aveva avuto ragione in quello scontro. E che non riteniamo, di conseguenza, che il fatto di aver avuto ragione in passato nel dare l’allarme su una serie di deviazioni presenti nel Partito, implichi necessariamente il fatto di aver ragione oggi a dare l’allarme sul risorgere di quelle deviazioni o sull’insorgerne di altre. Chi aveva avuto ragione ieri può avere torto oggi, e non ci sono “probiviri” designati a svolgere questa funzione da veri o presunti meriti acquisiti. Ciò che viceversa riteniamo, sulla base degli insegnamenti della Sinistra, è che tutta la compagine del Partito debba assolvere a tale funzione, vegliando affinché il Centro non si discosti dal Programma.
1 Rapporto della Sezione di Schio per la Riunione Organizzativa di Marzo 2003.
2 Ibidem.
3 Ibidem.
4 Ibidem.
5 Ibidem.
6 “Ciò che li distingue da noi” , il programma comunista, n° 5, 1983.
7 Lettera del Centro a Parigi del 6.VII.1990.
8 Lettera del Centro a Parigi del 29.III.1993.
9 Ibidem.
10 “Ciò che li distingue da noi”, il programma comunista, n° 5, 1983.
14 Lettera della Sezione francese al Centro del 16.12.03.
11 La sezione di Benevento-Ariano Irpino, ad esempio, aveva avuto ragione almeno quanto quella di Schio nel denunciare la degenerazione attivistica che aveva coinvolto l’insieme del Partito, evidenziando in particolare che “la questione non è definibile come «malattia del Centro»” dato che “le posizioni del Centro non sono «cervellotiche», ma rispondono alle velleità attivistiche della «periferia»” (“Perché se ne vanno”, il programma comunista, n° 1, 1983). Va da sé che anche di fronte a questo ulteriore grido d’allarme il Centro di allora, muovendosi … “nella più piena continuità e aderenza al nostro programma storico”, come oggi si pretende senza arrossire, reagì decretando che i compagni erano colpevoli del reato di essere dei metafisici inetti a praticare il nobile sport della lotta politica interna: “la loro «colpa» -sentenziava infatti il “nostro” giornale- non è tanto di essere rimasti imprigionati in una visione che riteniamo metafisica, […], ma è di tradurre questa metafisica anche nei rapporti interni di partito, per cui essi non sono disposti a disciplinarsi nell’attività di un partito di cui condividono i principi che tuttavia vedono male applicati. Si dichiarano così incapaci di lavorare controcorrente, conducendo una lotta politica interna” (“Perché se ne vanno”, il programma comunista, n° 1, 1983).
12 Lettera del Centro a Parigi del 29.III.1993.
13 “O nella storia è possibile fissare concomitanze generali tra spazi e tempi lontani, ovvero è inutile parlare di partito rivoluzionario, che lotta per una forma di società futura. Come abbiamo sempre trattato, vi sono grandi suddivisioni storiche e «geografiche» che danno fondamentali svolti all’azione del partito: in campi estesi a mezzi continenti e a mezzi secoli: nessuna direzione di partito può annunziare svolti del genere da un anno all’altro. Possediamo questo teorema, collaudato da mille verifiche sperimentali: annunciatore di «nuovo corso» uguale traditore” (“Dialogato coi Morti”).