Terzo punto (sollevare le bandiere cadute nel fango)

Nota redazionale: il punto 3 evidenzia il rapporto fra il nuovo corso e la vexata quaestio dell’attualità delle lotte nazionali.

La corrente aveva concluso che non esistevano più le condizioni per un sostegno proletario alle lotte nazionali in Europa, a partire dal 1871, in base alle lezioni apprese dalla comune di Parigi, e cioè dall’evidenza dell’accordo fra le borghesie nazionali prussiana e francese per schiacciare la rivoluzione comunarda. Le borghesie nazionali, fratelli coltelli nelle situazioni ordinarie, tuttavia superano i contrasti abituali quando devono rintuzzare l’azione rivoluzionaria del nemico di classe proletario.

Ancora agli inizi degli anni venti, strumentalmente, alla conferenza di Baku, Zinoviev sollecita e sostiene le lotte anticoloniali di certe nazioni mediorientali ed orientali. Innanzitutto in funzione antibritannica, e secondariamente con l’obiettivo di favorire il controllo  ipotetico del movimento anticoloniale da parte di una forza comunista.

Nel secondo dopoguerra il partito ipotizza la possibilità di sostenere le ultime lotte nazionali e anticoloniali, in Africa ed estremo Oriente, ma solo a determinate condizioni, cioè a patto che il movimento sia controllato da una forza comunista, allo scopo di trascendere il piano della lotta fra borghesie autoctone e borghesie coloniali, per aprire la strada a un diverso sistema.

Nella realtà dei fatti avviene il contrario, e il movimento anticoloniale serve soprattutto a favorire dei nuovi rapporti fra le borghesie autoctone e le ex potenze coloniali. Una pura redistribuzione del potere all’interno della borghesia mondiale.

Dunque, alla luce di queste evidenze storiche non è più possibile parlare di sostegno alle lotte nazionali nei paesi in via di sviluppo, che infatti, da quasi 70 anni, viene decisamente escluso. Alla luce di questi dati storico-politici, appare veramente discutibile la politica del nuovo corso in merito alle lotte nazionali degli anni settanta. Le bandiere della lotta democratica e indipendentista, che il nuovo corso vorrebbe sollevare dal fango, in realtà sono una vera e propria partigianeria per una componente borghese, in lotta con altre componenti borghesi, sia interne alla nazione, sia esterne ad essa. Consigliamo ai lettori il testo ”Catalunia e questione nazionale’, presente sul sito, per un inquadramento generale della questione.

Punto n°3: si tornano a sollevare dal fango le bandiere lasciate cadere dalla borghesia

LA TATTICA DELLA SINISTRA ESCLUDE E COMBATTE LA TESI DEFORME DEI “SUPPLEMENTI DI RIVOLUZIONE DEMOCRATICA”
NEI PAESI A PIENO CAPITALISMO.

A proposito del ciclo delle rivoluzioni
nazionali e coloniali del secondo dopoguerra, che a quell’epoca si era ormai concluso, il Partito affermò alla fine degli anni ’70 che “l’«indifferentismo da gran signori» è e non può non essere disfattista nei confronti delle lotte proletarie scaturite da quegli stessi moti e dai loro strascichi, lotte di cui neppure si accorge (puah, divampano alla periferia del mondo civile!) e che, se non possono essere
risolutive nella guerra mondiale contro il capitalismo, sono tuttavia destinate ad
agire sempre più come detonatori della ripresa classista e proletaria nelle stesse
aree a capitalismo avanzato” (1). Sembra che fili tutto liscio, ma l’insidia, come nelle polizze assicurative, si nasconde in un codicillo, in una piccola nota a piè di pagina, dove si chiarisce di quali strascichi si parli e soprattutto come, nel contesto di tali strascichi, il Partito avrebbe dovuto intervenire, precisando che ‘esso [l’indifferentismo] non comprenderà neppure che il proletariato di questi paesi
[appartenenti alla periferia del capitalismo ma ormai entrati in pieno nel vortice della moderna produzione borghese], proprio per essere stato posto dall’opportunismo a rimorchio delle borghesie nazionali, quindi nell’impossibilità di spingere fino in fondo la «rivoluzione democratica», dovrà farsi carico nella sua rivoluzione di compiti lasciati inadempiuti da quella: basti pensare, fra gli
altri problemi, alla questione agraria. E tuttavia, come è stato messo in luce nel
rapporto, su di essi la giovane classe operaia potrà far leva per mobilitare le grandi masse semiproletarie o in corso di proletarizzazione e assicurarsene l’attivo sostegno. Orrore! dirà l’«indifferentismo»: compiti ancora «borghesi»!”. (2). Né la Germania (rivoluzione borghese “alla prussiana”!), né la Spagna, né l’Italietta savoiarda, ligia alla strategia cavouriana del carciofo, hanno fatto una rivoluzione borghese dal basso, l’unica veramente radicale, l’unica capace di spingersi fino in fondo nel liquidare con un solo colpo di scopa i residui del vecchio mondo, come accadde in Inghilterra e in Francia. Ma questo non significa che il Italia e in Germania (o, mutatis mutandis, in America Latina e in Medio Oriente) ci siano ancora dei residui feudali da liquidare agitando delle
parole d’ordine democratiche, perché i compiti che la scopa della rivoluzione
non ha assolto li ha sempre assolti a stretto giro di posta il bulldozer dell’edificazione borghese. Né significa che vi siano delle vaste plebi semiproletarie da affasciare attorno al proletariato in nome degli obiettivi borghesi non conseguiti a suo tempo da una borghesia tanto più pavida quanto più
ritardataria, ovvero da intruppare al seguito delle bandiere nazionaldemocratiche
che la borghesia avrebbe lasciato cadere nel fango e che il proletariato, nel corso della sua rivoluzione, si dovrebbe prendere la briga di risollevare. Ricordiamo allora agli immemori che “non si può ridare vita agli ideali sorpassati dalla storia” (3) e pertanto che “la sguaiata consegna davanti alla quale e per sempre tagliammo il ponte” era precisamente quella di “raccogliere le bandiere borghesi che, già in alto al tempo di Cromwell e di Washington, di Robespierre o di Garibaldi,
sono poi cadute nel fango, e che invece la marcia della rivoluzione deve  affondarvi senza pietà, opponendo la società socialista alle menzogne ed ai miti dei popoli, delle nazioni e delle patrie” (4). E constatiamo purtroppo che le tortuose enunciazioni sopra riportate altro non sono se non l’espressione di una  garibaldata degna del peggiore opportunismo togliattiano, quella che fu a suo tempo staffilato senza pietà dalla Sinistra quando il Fronte Popolare nel 1948
inalberò sui suoi vessilli il volto di Garibaldi, riconoscendo che con tale espediente pubblicitario “l’offesa era recata non al ricordo del Generale, idolo a giusta ragione delle generazioni borghesi ottocentesche, bensì alle migliori e più degne tradizioni del movimento proletario italiano, che le inesauribili risorse del super-opportunismo nostrano non perverranno a obliterare e cancellare dalla storia” (5). Si giungerà poi al capolinea allorché, sull’onda di quelle improvvide riflessioni teoriche, verrà enunciata la non meno turpe guevarata post-
sessantottarda, e cioè quando su “il programma comunista” uscirà l’articolo
demente “In memoria di Ernesto Che Guevara”, degno parto terzomondista del
“Nuovo Corso” e che non a caso è stato in anni recenti riprodotto dai suoi solerti
continuatori.

1 “Note integrative alla nostra riunione generale di novembre ’79”, il programma comunista, n° 3, 1980.
2 Ibidem.
3 “La farsa garibaldina”, “L’Avanguardia” del 22 dicembre 1912.
4 “Dialogato con Stalin”, Ed. Sociali, pag. 57.
5 “Dopo la garibaldata”, “Prometeo” n. 10 del giugno 1948.

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