Punto n°6: il Partito di fronte ai movimenti studenteschi

Nota redazionale: Anno formidabile il 68, almeno secondo molti. La vulgata comune, allora come oggi, ha sempre sostenuto che il movimento del 68 esprimesse i migliori sogni di una generazione giovanile. Preceduto in America dai movimenti pacifisti contro la guerra nel Vietnam, dalle proteste antirazziste, e dal movimento hippie, il 68 iniziò in Francia e poi si diffuse a macchia d’olio nel resto dell’Europa occidentale. Diciamo subito che la contestazione studentesca del 68, localizzata nelle università e nelle scuole medie superiori, a nostro avviso è stata un frutto dei processi sociali tipici del capitalismo ( resistenza alla proletarizzazione da parte delle mezze classi). Il fenomeno della ”contestazione’ dunque esprimeva, seppure con una fraseologia di ”sinistra”, il classico dilemma politico-culturale del ceto medio in caduta libera: accettare la perdita di status socioeconomico, o tentare di spostare il carico di miseria crescente sulle spalle di chi è già proletario?

Gli opportunisti di ogni colore si buttarono a peso morto sul ”formidabile’ fenomeno del 68, come d’altronde era prevedibile per dei soggetti che facevano del volontarismo attivistico la propria bussola politica.

Una delle poche voci controcorrente fu proprio la nostra, come ben dimostrato dagli articoli pubblicati nel 68 e nel 69, opportunamente ricordati nel sesto punto.

Sic transit gloria mundi.

Anche le valutazioni in merito al movimento del 68, e in generale ai  movimenti del ceto medio, furono relativizzate dieci anni dopo dal nuovo corso, quando inopinatamente fu scritto che il movimento del 1977, era una cosa diversa da quello del 68. Dimenticando o travisando il realismo sociologico marxista, i nostri eroi (al pari di tanti emuli odierni), iniziarono a proclamare che (quasi quasi) il soggetto sociale interclassista studentesco del 77 possedeva indubbie potenzialità antisistema. Oggigiorno vengono attribuite le stesse potenzialità a movimenti sorti negli ultimi anni in Francia e negli Usa. Ovviamente noi non intendiamo esprimere nessuna critica a questi movimenti interclassisti, ci limitiamo a considerare che la lotta di classe proletaria è un altra cosa.

Noi ipotizziamo che esista un ulteriore fattore di causa, oltre alla resistenza basica del ceto medio alla perdita di status, importante  nel generare il movimento sessantottino, e anche altri movimenti con analoghe caratteristiche modernizzatrici. Questo fattore è il consumismo, ovvero l’offerta intensamente differenziata di merci e il correlato bisogno da parte dell’economia di una domanda adeguata. In una logica di marketing commerciale, già a partire dagli anni cinquanta, il nuovo cliente doveva essere, e quindi sentirsi, libero di vagare fra punti di vendita e scaffali di prodotti, per realizzare la propria libertà di consumatore. Lo sciupìo, la dissipazione, il consumo compulsivo, dovevano essere presentati come una conquista di libertà, per convincere masse ragguardevoli a varcare le soglie dei templi del consumismo (supermercati, discount, centri commerciali, ipermercati…).

I movimenti borghesi di emancipazione/liberalizzazione dei costumi, come è stato anche il 68, o una parte del movimento femminista, contribuirono a rinforzare, al di là degli abiti contestatari indossati, queste dinamiche di sistema poggiate sulla libertà del consumatore.

In definitiva, almeno in Occidente, lo sviluppo industriale del capitalismo, e la sua enorme, conseguente, massa di merci da vendere, avevano imposto un cambiamento nei costumi e nella mentalità di massa, mettendo all’ordine del giorno il superamento dei modi di vivere e di pensare legati a precedenti fasi industriali. Anche in questo caso furono molti i ”marxisti’ che scambiarono le lucciole dei movimenti interclassisti modernizzatori, per la lanterna rischiaratrice della lotta di classe.

 

 

Punto n°6: il Partito di fronte ai movimenti studenteschi 

LA LIMPIDA VIA DELLA RIVOLUZIONE E’ FUORI E CONTRO I MOVIMENTI STUDENTESCHI, IN CUI SI CONCENTRA LA PEGGIORE MUFFA INTERCLASSISTA. Il nostro Partito valutò a suo tempo in modo assolutamente negativo il movimento studentesco del ’68 non solo per il fatto di respingere la “tesi superbestiale che le bande di studenti, più o meno accese dagli ideali di saltare le lezioni, impiccare i professori e barare nei voti di esame, formino una classe sociale” (16), tesi che risultava ben sintetizzata dal celebre slogan “studenti – operai uniti nella lotta”, ma anche per il fatto -non meno importante- di riconoscere che nei movimenti incoerenti dell’intellettualità in genere “come scrittori, artisti, istrioni di diversi tipi” e degli studenti in particolare “si cristallizza la degenerazione di questa società borghese” (17) e che, di conseguenza, “le classi fantasma, le false classi che si offrono, come oggi gli intellettuali, a fare da ruffiane e mezzane per eludere la linea inesorabile della storia” di altro non sono portatrici se non “della più sinistra insidia” (18) per il nostro movimento. A quel non equivoco giudizio fece seguito dapprima una valutazione sia pur cautamente positiva del movimento studentesco del ’77, che del precedente fu in realtà solo una riedizione riveduta e corrotta, surrogandosi ad un “marxismo-leninismo” d’accatto le infinite miserie del “marxismo creativo” e anarchicheggiante, dissolvitore per definizione e per principio delle classi sociali nel pantano dei variopinti “soggetti desideranti” (19) e poi una rivalutazione dello stesso movimento sessantottardo, rivalutazione completamente dimentica del fatto che proprio in quegli anni si assisteva alla trasformazione dei “reduci” del ’68 nell’ossatura portante degli organigrammi del potere borghese a tutti i livelli (dal giornalismo alla gestione aziendale alla direzione politica). L’unica posizione in linea col Partito Storico è la prima, quella sintetizzata nell’articolo del 1968 e che ritroviamo intatta in uno scritto dell’anno successivo, in cui gli studenti sono definiti come “la peggiore muffa interclassista” (20), in quanto essa non fa che riprendere le posizioni classiche che la Sinistra aveva espresso fin dal 1912, identificando senza esitazioni lo studentume come uno strato sociale reazionario. Dopo aver evidenziato l’“entusiasmo di parata” manifestato dalla gioventù universitaria per la guerra di Libia, la Sinistra concludeva infatti già allora affermando recisamente che “occorre che si ridesti tra i giovani lavoratori la coscienza che la parte veramente attiva, socialmente e – oso dire – intellettualmente, della gioventù moderna, non sono i figli colti ed istruiti (?!) dei ricchi, che l’educazione di una società falsa e corruttrice conduce innanzi tempo al cinismo e al disprezzo di tutti gli ideali, ma è quella foltissima schiera di giovani operai che saprà veramente educare se stessa ad essere l’avanguardia della trasformazione sociale” (20). Nulla è più lontano dall’attitudine del rivoluzionario, in realtà, del “bisogno innato del chiasso” che contraddistinse la bohème studentesca tanto nel 1913 quanto nel 1968 e nel 1977: solo che nel 1912 e nel 1968 il Partito sapeva ben distinguere i suoi polli, e irrideva con eguale disprezzo alle balorde ed innocue trasgressioni degli studenti, sia di quelli che nel 1912 inneggiavano al sommo ideale di “vendere i libri, perseguitare le sartine… fare del nazionalismo, gridando: Viva l’Italia e viva il Re!”, sia di quelli che nel ’68 si agitavano per saltare le lezioni, pronti gli uni e gli altri a dar prova di anticonformismo con “rotture di vetri” e coi cazzotti menati “alle guardie e altre nobili gesta” (21). Al contrario nel 1977, invece di ribadire che, se è ben vero che “noi non difendiamo qui la pudicizia delle sartine, l’integrità delle austere invetriate degli edifici universitari nè tampoco i chepì delle guardie”, è altrettanto vero però che non ci facciamo comunque ingannare da questi eroici furori di figli di papà, e teniamo quindi a precisare polemicamente che quando il proletariato aprirà gli occhi “allora romperà qualcosa di più alto dei vetri universitari” (22), ci si lasciò sedurre dalla bohème, inneggiando addirittura al presunto “crollo del tempio della cultura” per mano dei prodi ettorri universitari, ossia adeguando il proprio palato a quello che passava il convento. Cogliamo l’occasione allora per precisare che un abisso deve separare i rivoluzionari dai bohémiens universitari, e non solo nell’empireo della dottrina, ma nella pratica e nello stile della vita quotidiana. I comunisti sono e devono essere diversi da quella gentaglia, come ci insegnavano i vecchi compagni, anche fisicamente, anche nel modo di parlare, di vestirsi, di interagire con l’ambiente, rifuggendo da frequentazioni inquinanti e dal contagio dei balordi comportamenti trasgressivi di cui essi si compiacciono. Non è certo per amore della proprietà privata, ad esempio, ma è per il desiderio bruciante di togliere la vita all’idra capitalista, che bisogna rinunziare a sfogare oggi la propria rabbia, che è un bene prezioso, al modo dei piccolo-borghesi, che si accontentano di rubacchiare qualcosa nei templi del consumismo.
16 “Nota elementare sugli studenti”, il programma comunista, n.8 del 1968.

17 Ibidem.

18 Ibidem.

19 “Dal crollo del tempio della cultura è ora di trarre una lezione rivoluzionaria di classe”, il programma comunista, n° 4, 1977.

20 Lettera a Terracini, 4 marzo 1969. 20 “La balda gioventù studentesca”, L’Avanguardia, a. VI, n. 245, 26 maggio 1912.

21 Ibidem.  

22. ibidem.

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