Punto n°5: il biennio 1982-83, epicedio dell’attivismo movimentista

 

 

Nota redazionale: il punto cinque parte dal confronto fra due argomentazioni opposte. Una delle due è stata utilizzata come giustificazione delle numerose deviazioni attivistiche del nuovo corso. Eccola: “La ripresa della lotta di classe si esprime già oggi in manifestazioni che coinvolgono sia il proletariato, sia strati semi-proletari, sia quegli elementi che si sono già posti all’avanguardia di questo movimento reale, sia in quanto [il partito, NdR] deve saper dare le risposte che esso cerca, sia in quanto deve saper fornire il contributo perché esso possa svilupparsi e organizzarsi. Deve però anche determinare, per quanto approssimativamente, i limiti del movimento stesso, oltre che il carattere distinto e separato del partito”. Nei 31 punti è scritto: ”Questa proposizione, affermata in modo finalmente esplicito nella Circolare centrale del 5.9.1982, ad un passo dall’éclatement, esprime l’essenza, il nucleo di quello che abbiamo definito un “Nuovo Corso” .

L’altra argomentazione, viceversa, contiene il richiamo alle lezioni del marxismo, ribadite da sempre nei testi della corrente. Eccola: “Sarà la maturità della situazione –ossia il manifestarsi di un contrasto profondo tra gli interessi proletari e gli interessi borghesi- a porre al partito le condizioni reali della sua influenza sulla classe proletaria e del contributo alla ritessitura di organizzazioni di carattere classista aperte a tutti i lavoratori. Fino a questa manifestazione di contrasto fondamentale –ossia finché la situazione non cessi di essere controrivoluzionaria- il lavoro di partito è sì di appoggio alle lotte proletarie, ma non ancora di promozione di forme d’organizzazione indipendenti, perché queste non sono tali, ma solo gusci vuoti in cui le varie “avanguardie” trovano la loro tribuna. Non solo: la possibilità di una vera influenza su alcuni elementi operai è legata alla presa di distanza da questi fenomeni della politica degenere delle formazioni politiche sedicentemente rivoluzionarie” .

Nei 31 punti è scritto: ”Questa seconda proposizione, condannata in quanto metafisica dalla Circolare Centrale del 5.9.82, rappresenta e difende l’onore del Partito. Quella riportata più sopra rappresenta invece una vera e propria Contro-tesi in quanto sintetizza quella concezione volontaristica dell’azione del Partito che fu alla base dell’esplosione del 1982-83”. 

Il nuovo corso si è allontanato dalle posizioni tradizionali della corrente, elaborate già a partire dagli anni venti, ecco cosa ricordano i 31 punti in merito a queste posizioni chenei periodi controrivoluzionari “il partito si riduce ai soli compagni i quali hanno rifiutato in un modo o nell’altro la vittoria della classe avversa”, ma anche che esso deve soprattutto rifiutarsi “di lasciarsi attirare –in nome di un attivismo ad ogni costo nel turbine della corruzione borghese”, consapevole del fatto che il suo apparente “ritiro dall’azione” altro non è che “volontà deliberata di rifiutare l’azione sul terreno borghese quando quella autonoma del proletariato non è possibile” ed è surrogata, per l’appunto, dalle manovre tra partiti e partitini. Resta quindi fissata una doppia equazione: periodo controrivoluzionario = impossibilità di una azione autonoma del proletariato = impossibilità per il Partito di promuovere forme di organizzazione su cui possa poggiare un’attività di classe che è ancora di là da venire. L’avvento di tale spontanea effervescenza di lotte operaie non può in alcun modo essere provocato o accelerato dall’intervento soggettivo del Partito, a maggior ragione se esso, nella vana ricerca di espedienti volontaristici, pretende di scimmiottare le modalità di azione che saranno tipiche della futura ripresa del ciclo rivoluzionario, in quanto la ripresa su vasta scala della lotta di classe dipende esclusivamente da fattori oggettivi, correlati essenzialmente al corso economico catastrofico dell’imperialismo”.

Eppure gli attori del nuovo corso non avevano tutti i torti quando asserivano che il conflitto basico fra capitale e lavoro è sempre presente nella società borghese, ”è incontestabile infatti che anche nella più profonda depressione della curva che esprime l’iniziativa storica del proletariato vi è sempre un minimo barlume di contraddizioni sociali. Altrimenti il capitalismo non sarebbe quel modo di produzione intimamente e profondamente antagonistico che noi abbiamo sempre riconosciuto e denunziato”.

Tuttavia gli antieroi del nuovo corso commettevano nondimeno un errore L’errore sta nel fatto di vedere tra quel minimo di conflittualità sociale che caratterizza i periodi controrivoluzionari e quel massimo di conflittualità che caratterizza le “fasi eruttive” del sottosuolo sociale solo un continuum, una semplice accumulazione quantitativa di contraddizioni che procede e si sviluppa gradualmente nel tempo. E’ una visione, questa, che a buon diritto dobbiamo definire indifferenziata e a dialettica perché non evidenzia all’interno di quel continuo accumularsi di materiale esplosivo alcun confine in grado di separare fasi diverse e perché non individua, nella presenza di una simile soglia, il mutarsi improvviso della quantità in qualità. La temperatura sale grado per grado dentro il vulcano, ma solo ad un certo punto entra in un equilibrio instabile con la crosta terrestre, ed ha inizio allora la fase eruttiva. La quantità si è trasformata in qualità. La Sinistra ci ha fatto l’esempio della ionizzazione, che vuol dire la stessa cosa: nei “periodi morti e schifosi, la molecola persona può mettersi a giacere orientata in un qualunque modo, il «campo» storico è nullo e nessuno se ne frega. […] Lasciate però che, come nella Russia della grande guerra civile, le grandi forze del campo storico si destino suscitate dagli urti delle nuove forze produttive che urgono contro la rete delle vecchie forme sociali che vacillano, è allora che nella nostra immagine l’atmosfera storica, il magma sociale umano si presentano ionizzati, e se vi fosse un contatore Geiger della rivoluzione le sue lancette prenderebbero a follemente danzare”. Gli urti delle forze produttive contro i rapporti di produzione, dunque, ci sono sempre, anche nelle fasi “morte”, ma solo ad un certo punto diventano tanto forti (passaggio dalla quantità alla qualità) da generare la scarica elettrica ionizzante, quella per cui “l’individuo molecola-uomo corre nella sua schiera e vola lungo la sua linea di forza”.

 

La concezione del nuovo corso era essenzialmente antidialettica. L’attivismo movimentista, in cui si riassumeva il segreto del nuovo corso, veniva infatti propugnato in un periodo di controrivoluzione, dove ben altri erano i veri compiti delle residue energie antisistema.

In un periodo di controrivoluzione non potevano essere creati dei veri organismi formali di lotta immediata, con il sostegno del partito. Gli organismi e i comitati, in una fase di controrivoluzione, servono solo da tribuna ai vari dirigenti di turno, e soprattutto possono diventare aggregazioni di micropartitini. Altra cosa è l’unità dei proletari in organismi prodotti in una fase di lotta qualitativamente antitetica alla stagnazione dei periodi storicamente sfavorevoli.  Quando avviene il salto qualitativo, la singola molecola persona proletaria è ionizzata e corre, insieme ad altre molecole, verso la propria missione di classe sociale rivoluzionaria. In un periodo di polarizzazione della contesa storica fra socialismo o barbarie, il partito può essere il soggetto che scrive la storia, ma questa possibilità è determinata dall’acutizzarsi delle contraddizioni del sistema, dunque da un fattore di causa essenzialmente oggettivo, cioè indipendente dal volontarismo attivistico di chicchessia. Il nuovo corso è stato antidialettico, perché non ha riconosciuto l’intreccio fra piano oggettivo e piano soggettivo, sopravvalutando le possibilità di azione politica (elemento soggettivo) in un periodo storicamente sfavorevole ( elemento oggettivo). In verità i frutti si raccolgono quando sono maturi.

 

Punto n°5: il biennio 1982-83, epicedio dell’attivismo movimentista REGOLE ELEMENTARI PER NON PRENDERE LUCCIOLE PER LANTERNE. “La ripresa della lotta di classe si esprime già oggi in manifestazioni che coinvolgono sia il proletariato, sia strati semi-proletari, sia quegli elementi che si sono già posti all’avanguardia di questo movimento reale, sia in quanto [il partito, NdR] deve saper dare le risposte che esso cerca, sia in quanto deve saper fornire il contributo perché esso possa svilupparsi e organizzarsi. Deve però anche determinare, per quanto approssimativamente, i limiti del movimento stesso, oltre che il carattere distinto e separato del partito”. Questa proposizione, affermata in modo finalmente esplicito nella Circolare centrale del 5.9.1982 (1), ad un passo dall’éclatement, esprime l’essenza, il nucleo di quello che abbiamo definito un “Nuovo Corso”. Pretendere che a tale Circolare sia utile ritornare oggi come ai nostri testi classici è solo l’espressione della infinita supponenza di chi del marxismo nulla ha digerito, non avendone neppure appreso il senso della misura, quello che impone al rivoluzionario di essere un semplice ripetitore e che stabilisce quindi la distanza intercorrente tra i nostri testi classici e gli apporti successivi, una distanza che si misura col metro dei fatti storici e non con quello della maggiore o minore “genialità” di questo o quel capo. “Sarà la maturità della situazione –ossia il manifestarsi di un contrasto profondo tra gli interessi proletari e gli interessi borghesi- a porre al partito le condizioni reali della sua influenza sulla classe proletaria e del contributo alla ritessitura di organizzazioni di carattere classista aperte a tutti i lavoratori. Fino a questa manifestazione di contrasto fondamentale –ossia finché la situazione non cessi di essere controrivoluzionaria- il lavoro di partito è sì di appoggio alle lotte proletarie, ma non ancora di promozione di forme d’organizzazione indipendenti, perché queste non sono tali, ma solo gusci vuoti in cui le varie “avanguardie” trovano la loro tribuna. Non solo: la possibilità di una vera influenza su alcuni elementi operai è legata alla presa di distanza da questi fenomeni della politica degenere delle formazioni politiche sedicentemente rivoluzionarie” (2). Questa seconda proposizione, condannata in quanto metafisica dalla Circolare Centrale del 5.9.82, rappresenta e difende l’onore del Partito. Quella riportata più sopra rappresenta invece una vera e propria Contro-tesi in quanto sintetizza quella concezione volontaristica dell’azione del Partito che fu alla base dell’esplosione del 1982-83. Pertanto la Circolare centrale che difende la prima proposizione e condanna la seconda (“Il partito di fronte alle questioni sorte nel recente passato”) deve considerarsi –dal punto di vista del Partito Storico- nulla e non avvenuta, allo stesso titolo di tutti gli altri documenti centrali elaborati sulla medesima falsariga in particolare tra il 1980 e il 1983: né l’una né gli altri appartengono infatti alla storia del Partito, ma a quella della sua degenerazione. La concezione dell’attività del Partito cui tali documenti si richiamano, infatti, non costituisce solo il capovolgimento delle posizioni tradizionalmente difese dalla Sinistra, ma dello stesso materialismo storico e dialettico. Le prime infatti sin dagli anni ’20 avvertivano che “noi non siamo contro la costituzione dei Comitati operai e contadini, se essi non sono un blocco di partiti […], ma sono una iniziativa di fronte unico della classe operaia fatta dal basso e sulla base di organismi economici e naturali del proletariato” stabilendo nello stesso tempo che “siamo invece contro la loro costituzione, accompagnata da un abuso incredibile di letteratura a vuoto attorno ad essi, se è manovra tra partiti politici” (3) ed affermano inoltre senza possibilità di equivoco non solo che nei periodi controrivoluzionari “il partito si riduce ai soli compagni i quali hanno rifiutato in un modo o nell’altro la vittoria della classe avversa”, ma anche che esso deve soprattutto rifiutarsi “di lasciarsi attirare –in nome di un attivismo ad ogni costo nel turbine della corruzione borghese”, consapevole del fatto che il suo apparente “ritiro dall’azione” altro non è che “volontà deliberata di rifiutare l’azione sul terreno borghese quando quella autonoma del proletariato non è possibile” (4) ed è surrogata, per l’appunto, dalle manovre tra partiti e partitini. Resta quindi fissata una doppia equazione: periodo controrivoluzionario = impossibilità di una azione autonoma del proletariato = impossibilità per il Partito di promuovere forme di organizzazione su cui possa poggiare un’attività di classe che è ancora di là da venire. L’avvento di tale spontanea effervescenza di lotte operaie non può in alcun modo essere provocato o accelerato dall’intervento soggettivo del Partito, a maggior ragione se esso, nella vana ricerca di espedienti volontaristici, pretende di scimmiottare le modalità di azione che saranno tipiche della futura ripresa del ciclo rivoluzionario, in quanto la ripresa su vasta scala della lotta di classe dipende esclusivamente da fattori oggettivi, correlati essenzialmente al corso economico catastrofico dell’imperialismo. Assodato che l’affermazione contenuta dalla Circolare del 5.9.1982 è agli antipodi di quanto la Sinistra ha sempre sostenuto, vediamo ora perché essa rappresenta nello stesso tempo il capovolgimento del materialismo storico e dialettico. A prima vista essa sembrerebbe contenere un argomento “ragionevole”: è incontestabile infatti che anche nella più profonda depressione della curva che esprime l’iniziativa storica del proletariato vi è sempre un minimo barlume di contraddizioni sociali. Altrimenti il capitalismo non sarebbe quel modo di produzione intimamente e profondamente antagonistico che noi abbiamo sempre riconosciuto e denunziato. L’errore sta nel fatto di vedere tra quel minimo di conflittualità sociale che caratterizza i periodi controrivoluzionari e quel massimo di conflittualità che caratterizza le “fasi eruttive” del sottosuolo sociale solo un continuum, una semplice accumulazione quantitativa di contraddizioni che procede e si sviluppa gradualmente nel tempo. E’ una visione, questa, che a buon diritto dobbiamo definire indifferenziata e adialettica perché non evidenzia all’interno di quel continuo accumularsi di materiale esplosivo alcun confine in grado di separare fasi diverse e perché non individua, nella presenza di una simile soglia, il mutarsi improvviso della quantità in qualità. La temperatura sale grado per grado dentro il vulcano, ma solo ad un certo punto entra in un equilibrio instabile con la crosta terrestre, ed ha inizio allora la fase eruttiva. La quantità si è trasformata in qualità. La Sinistra ci ha fatto l’esempio della ionizzazione, che vuol dire la stessa cosa: nei “periodi morti e schifosi, la molecola persona può mettersi a giacere orientata in un qualunque modo, il «campo» storico è nullo e nessuno se ne frega. […] Lasciate però che, come nella Russia della grande guerra civile, le grandi forze del campo storico si destino suscitate dagli urti delle nuove forze produttive che urgono contro la rete delle vecchie forme sociali che vacillano, è allora che nella nostra immagine l’atmosfera storica, il magma sociale umano si presentano ionizzati, e se vi fosse un contatore Geiger della rivoluzione le sue lancette prenderebbero a follemente danzare” (5). Gli urti delle forze produttive contro i rapporti di produzione, dunque, ci sono sempre, anche nelle fasi “morte”, ma solo ad un certo punto diventano tanto forti (passaggio dalla quantità alla qualità) da generare la scarica elettrica ionizzante, quella per cui “l’individuo molecola-uomo corre nella sua schiera e vola lungo la sua linea di forza” (6). Da questa visione dialettica nasce da un lato l’ansia di scrutare nelle viscere della terra con la sonda delle apparentemente aride cifre delle statistiche economiche il crescere e il dispiegarsi di quegli urti elementari, dall’altro la definizione di una soglia, che ha implicazioni politiche enormi non perché al di qua di essa il Partito si vieti di agire in seno alla classe, rinchiudendosi nella “torre d’avorio” della restaurazione della dottrina, e al di là di essa il Partito debba, viceversa, proiettarsi totalmente nel vivo dell’azione, negligendo la teoria, ma perché sappiamo che è solo dopo averla varcata che cesseremo di essere poco più di una “vox clamans in deserto”. Non perché, dunque, al di qua di tale limite il Partito debba propagandare le sue parole d’ordine, caratterizzate da una ben precisa e tagliente fisionomia, e dopo averlo varcato debba cambiare il suo linguaggio, debba cessare di essere quella voce che grida e, soprattutto, che grida quelle parole inconfondibili, per trasformarsi in una voce che sussurra e articola altri e più comprensibili verbi. Ma perché il Partito sa che prima di aver superato quella soglia gridare le sue parole d’ordine significa solo far sedimentare tra un esile strato di proletari una traccia utile per l’avvenire, mentre continuare a farlo dopo che essa è stata infranta da forze più grandi di noi significa esercitare infine l’effetto di richiamare su vasta scala le “nostre” particelle a schierarsi nel loro campo di battaglia ed a volare verso la Rivoluzione. Non è inutile, a questo punto, stabilire secondo quali criteri va individuata la soglia di cui parliamo. La sua collocazione non dipende dal numero di ore di sciopero, che non significa nulla perché vi si annoverano anche quelle degli scioperi contro il terrorismo, contro la delinquenza o per le riforme, ma dal fatto che settori consistenti di proletari puri non politicizzati dell’industria o dell’agricoltura prendano ad infrangere in modo non episodico le norme della civile e democratica convivenza e quelle dei codice penale per assicurarsi le condizioni della propria fisica sopravvivenza. Fissare questo concetto è di non poca importanza perché ad ogni militante spetta il compito di vigilare affinché tale soglia non venga forzata. Ognuno di noi deve quindi essere in grado di identificare con immediata sicurezza ogni interpretazione di comodo che, di contrabbando, pretenda di spostarla in funzione di individuali o collettivi attivistici pruriti. La genesi della Contro-tesi enunciata all’inizio di questo paragrafo è stata lunga e tormentata in quanto si è svolta tra il 1974 ed il 1982 in diverse e successive tappe, nelle quali è istruttivo rintracciare una breve storia del “Nuovo Corso”. Si cominciò col dire: la situazione oggettiva si sta per modificare (nel senso che ci si attendeva che si modificasse a breve scadenza), quindi dobbiamo adeguare la nostra attività esterna ai compiti nuovi che fra non molto emergeranno non perché ci attendiamo da questo adeguamento dei risultati qui ed ora, ma perché il Partito deve iniziare ad allenarsi a intervenire in una realtà sociale che, nel prossimo futuro, tornerà a essere incandescente (7). Intervenire all’esterno in modo più adeguato significava intervenire in modo più puntuale, più preciso, più calibrato. E, fin qui, chi potrebbe obiettare qualcosa? Ma significava anche e soprattutto intervenire in un modo più articolato, meno schematico e più aderente alla realtà. Ed è qui che si iniziò a deviare. Nota bene: non si deviò perché si dicesse che bisognava fare più attività pratica e meno attività teorica, ovvero che certi settori di attività avrebbero potuto e dovuto ampliarsi, cosa che è ovvia, ma perché si disse che bisognava su entrambi i piani agire diversamente da prima, perché si introdusse una modificazione qualitativa della nostra azione politica a tutti i livelli. Che altro significava infatti lanciare nel 1974-75 la altisonante parola d’ordine di un “fronte unito proletario” che -oltre ad essere concepita nel più totale dispregio delle rigorose delimitazioni tattiche storicamente assegnatele dalla Sinistra, atte ad escludere esplicitamente le intese e i cartelli politici tra partiti anche proletari rappresentava una novità assoluta rispetto a ciò che nel secondo dopoguerra il Partito aveva propagandato ed agitato tra gli operai? Ad un diverso modo di intervenire all’esterno si affiancò inoltre anche un diverso modo di concepire la formazione teorica dei compagni. Che altro significava infatti affermare che i tempi lunghi della assimilazione della dottrina non ci sarebbero stati più concessi, se non che dovevamo articolare diversamente, modificandolo, anche il nostro modo di formare i militanti, dando via libera ai “brevi corsi” di dottrina e all’intruppamento di “leve leniniste” temprate più dal facchinaggio dei volantini che dalla meditazione approfondita e completa dei nostri testi classici? Le conseguenze furono poi sotto gli occhi di tutti: sbracamento e sfaldamento al primo urto della maggioranza della compagine degli organizzati. Ma qui si vuole rilevare l’errore di principio: se si avvicinano tempi di ferro e di fuoco, a maggior ragione dobbiamo disporre di veri militanti, fedeli anche più di prima alla dottrina di sempre, che non è un lusso accademico, ma è l’esperienza delle lotte trascorse, e a cui non si può certo essere fedeli se neppure la si conosce. Seconda tappa: la situazione oggettiva si sta modificando (nel senso che già adesso si aprono dei nuovi e più ampi spiragli all’azione del Partito), quindi un intervento più puntuale, articolato ecc. nei movimenti sociali in atto non garantisce solo un allenamento ma può già fin d’ora dare dei risultati visibili, anche se parziali. In queste due tappe l’accento restava comunque sulla situazione oggettiva che, modificandosi, avrebbe consentito al Partito maggiori possibilità di successo, ragion per cui il “Nuovo Corso” mantenne fino a quel punto un’apparenza ortodossa ed una rispettabilità “marxista”, sia pure di facciata. Nella terza fase ci si rese conto che nonostante il più articolato e puntuale dimenarsi del Partito nei movimenti interclassisti ed anche piccolo-borghesi, come quelli degli studenti (8), per imporre loro una linea “classista” che poggiava e non poteva che poggiare sul vuoto assoluto in quanto la classe operaia era ancora immota o seguiva pecorescamente l’opportunismo, i risultati visibili non venivano. Quindi si opinò che bisognava dimenarsi di più e soprattutto meglio, e cioè che occorreva essere ancora più articolati, dinoccolati e “politici”. L’accento, a questo punto, si spostò completamente sulla soggettività, con la famigerata teoria del “ritardo del Partito” (mentre in realtà erano le condizioni obiettive che tardavano a modificarsi in senso favorevole ai rivoluzionari) e con la conseguente, balorda teorizzazione della necessità di far avvicinare le due curve, quella sociale e quella politica. Quarta ed ultima fase: si scoprì che le contraddizioni sociali ci sono sempre, che la teoria del ciclo controrivoluzionario è solo un comodo paravento per crogiolarsi nell’inattività o in un’attività di mera e sterile propaganda, e quindi si addivenne alla conclusione che non è il corso oggettivo dell’economia capitalistica a determinare le possibilità di successo della rivoluzione comunista, ma la capacità soggettiva del Partito di sfruttare intelligentemente le contraddizioni sociali che sono sempre presenti, anche se con diversa intensità, in tutti i periodi che il dominio capitalistico attraversa. Ribaltamento completo della posizione iniziale. Esso è segnalato dalla comparsa di un avverbio-spia nel lessico dei capi: “fortunatamente”. Tale avverbio, associato di regola ad un sorrisetto compiaciuto, compare inserito nella frase “le condizioni oggettive non sono fortunatamente ancora mature in senso rivoluzionario”, frase che fa sentire i suddetti capi molto perspicaci e che invece esprime il rinnegamento più competo del materialismo dialettico: se le condizioni oggettive fossero mature, infatti, il Partito non sarebbe quello che è, per cui pronunziare quella frase equivale a rallegrarsi del fatto che il Partito è debole, non ha quasi contatti con la classe, ecc.. Ricordiamo infatti en passant che è stata proprio la Sinistra ad insegnarci che è inconsistente la teoria trotzkista secondo cui tutti i coefficienti obiettivi della rivoluzione proletaria sono maturi ma essa non viene per la mancanza del fattore soggettivo (9). Alla fine del processo di degenerazione sopra descritto il “Nuovo Corso” approdò proprio a questa concezione a-dialettica e soggettivistica che il nostro Partito aveva a suo tempo denunciato tra gli epigoni di Trotsky. La conclusione era e non poteva che essere il rovesciamento completo delle tesi tracciate dalla Sinistra in ambito tattico: fatto tanto di cappello ai nostri compagni della vecchia guardia perché avevano demolito il mito del presunto “socialismo” moscovita, reso un garbato omaggio alla avvenuta “restaurazione teorica”, non restava infatti che riconoscere mestamente che, dal punto di vista tattico, la Sinistra aveva proprio i difetti congeniti che gli avversari le avevano sempre rimproverato: per troppa rigidità e per mancanza di concretezza essa infatti non aveva potuto lasciarci nessun positivo contributo all’articolato, dinoccolato e intelligente dimenarsi sfruttando duttilmente le contraddizioni altrui, di cui noi tanto avremmo avuto bisogno. Da qui la sguaiata consegna di “ritornare a Lenin”, ossia alla tattica duttile, intelligente, flessibile, alla capacità insomma di “fare politica” che gli opportunisti vollero affibbiare a Lenin, ma anche alle tattiche equivoche che Lenin effettivamente propugnò, volgendo definitivamente le terga alla Sinistra ed al suo dannato “vizio d’origine”. La deviazione sta, come al solito, in principio: nel fatto di ammettere che una situazione oggettiva caratterizzata da maggiori spiragli imponga al Partito un modo di intervenire diverso da quello di prima. Il resto viene da sé, ed è il solito piano inclinato. Quello che accadde e che purtroppo è di nuovo accaduto al nostro interno ha infatti una giustificazione storica oggettiva e “non si spiega banalmente con gli errori di Tizio o di Sempronio” (10). Si tratta piuttosto di capire, come ha sempre fatto la Sinistra nell’atto stesso di dare l’allarme sulle possibili deviazioni, che gli individui, siano essi gregari o capi, “agiscono come la via imboccata impone loro di agire” (11). E, senza stare a descriverne la cronaca nera nel dettaglio dei suoi continui e anche disgustosi episodi, si tratta di capire inoltre che la situazione di profonda confusione in cui si è trovato il Partito è stata anche il risultato di un “accumularsi simultaneo” di condizioni avverse, cui il Partito ha risposto in modo sbagliato. Si è tornato infatti a commettere lo stesso errore che fu all’origine del “Nuovo Corso” quando si è avuta la pretesa di rifarsi oggi a Trotsky, il quale affermava nelle “Lezioni dell’Ottobre” che “le crisi in seno ai Partiti nascono in genere ad ogni serio svolto del cammino che il Partito stesso percorre […] e ciò perché ogni periodo di sviluppo del Partito ha i suoi tratti caratteristici ed esige determinati metodi e abitudini di lavoro”, ragion per cui “un riorientamento tattico del Partito significa sempre una rottura più o meno radicale coi metodi e le consuetudini del periodo precedente”. La deviazione è gravissima, e sta nel fatto di trasferire meccanicamente e acriticamente al Partito di oggi le lezioni derivate dalla storia di un Partito –come quello russo del 1917- che ad ogni svolto necessitava effettivamente di un “riorientamento tattico” proprio perché agiva in un contesto di “doppia rivoluzione”, che gli imponeva per dei periodi più o meno lunghi delle alleanze con altre classi e con altri partiti, alleanze che il corso stesso della Rivoluzione si sarebbe incaricato poi di bruciare una dopo l’altra. Attingendo direttamente da Trotsky senza utilizzare la lente che la Sinistra ci ha trasmesso, come si è peraltro addirittura teorizzato dimostrando solo una infinita presunzione, si è giunti infatti all’assurdo di ritenere che anche per il nostro Partito, che non agisce nel contesto di una “doppia rivoluzione”, si renda necessario attraversare oggi diverse fasi, con il loro corollario di svolte tattiche, nuovi corsi e lotte politiche per imporli contro quelle che Trotsky definiva le “resistenze di un passato che si presenta sotto le insegne della tradizione”, e che proprio perciò “assume talvolta una durezza straordinaria”. L’aberrazione sta nel fatto di non avvedersi che le resistenze che il Partito russo dovette affrontare e vincere per andare avanti emanavano da una tradizione, da un insieme di metodi e consuetudini consolidate che erano radicate in una pratica di alleanze con altre forze sociali e politiche, mentre la resistenza che nel nostro Partito si è opposta al “Nuovo Corso” in nome della nostra tradizione esprimeva, al contrario, la volontà di impedire la reintroduzione di pratiche che, come quelle dei Fronti Unici, appartengono ormai al passato del movimento operaio e comunista. Noi quindi, guardandoci indietro, non possiamo quindi gonfiarci il petto per l’orgoglio di possedere un luccicante medagliere, di poter sventolare un vessillo incorrotto. E’ ormai fuori di dubbio che, nello sviluppo del Partito, al cammino ascendente del Partito Storico non corrisponde meccanicamente quello del Partito Formale, il quale, anzi, presenta alti e bassi, continue inversioni, rinculi e, a volte, rovinose cadute. Sono le nostre “Tesi di Roma”, infatti, a stabilire che “il processo di formazione e di sviluppo del partito proletario non presenta un andamento continuo e regolare, ma è suscettibile nazionalmente ed internazionalmente di fasi assai complesse e di periodi di crisi generale” (12). Dobbiamo pertanto riconoscere che il Partito cui ci richiamiamo ha ampiamente e gravemente deviato dal Programma, che la nostra bandiera è sbrindellata in più punti. E’ la verità, anche se non ci fa piacere ammetterlo, ma il materialismo storico ci insegna che non poteva essere diversamente, che la controrivoluzione produce materiale umano di basso profilo, genera dei militanti scadenti in quanto inetti allo sforzo perenne di ricollegarsi al Programma, se non addirittura dei gattini ciechi, che non potranno mai nemmeno guardare la luce che ne sprigiona. La vecchia guardia, che aveva appreso il marxismo in galera, è stata sostituita da militanti che quei corsi li hanno fatti nelle accademie. Alla ennesima sconfitta pratica del nostro Partito, fa eco quindi ancora e malgrado tutto una vittoria teorica del nostro metodo. E riconosciamo nello stesso tempo che l’onore del Partito non sta nell’esibizione sospetta di un luccicante medagliere e di un vessillo sgargiante, che fanno parte piuttosto della messinscena romantica delle parate che si snodavano sulle rive della Moscova, ma nella sua capacità di ritornare continuamente indietro e di criticare sé stesso, buttando fuori le posizioni sbagliate senza crocifiggere o mandare in galera nessun “colpevole”. Ciò implica anche un’altra, rilevante conseguenza: non già che le annate de “il programma comunista” dal 1974 al 1982 debbano essere rigettate in toto e che da esse nulla possiamo oggi attingere (13), ma che da esse possiamo attingere solo con sospetto, un sospetto che aumenta quanto più ci si avvicina al 1982, e che si risolve dal punto di vista pratico sottoponendo tutto quanto al solito filtro della aderenza o meno di questo o quell’articolo del giornale al corpo unitario delle Tesi del Partito. Ritenere, al contrario, che proprio gli articoli e le circolari che contrassegnarono il percorso che condusse il Partito ad esplodere siano dei preziosi strumenti politici di saldatura con la nostra tradizione e, addirittura, presumere che ad essi sia utile tornare come ai nostri testi classici anziché avere il coraggio politico di distaccarsene definitivamente, come aveva correttamente preconizzato il Centro nel 1994, significa o non aver appreso assolutamente nulla dall’esperienza trascorsa o che nel Partito sono sorti ed hanno messo radici profonde dei gruppi di interessi che nulla hanno a che spartire con gli interessi storici ed immediati della classe proletaria.

1 “Il partito di fronte alle questioni sorte nel recente passato”, circolare del 5.9.82 citata nell’articolo “Perché se ne vanno” (“il programma comunista” n° 1, 1983).

2 Ibidem.

3 “Il pericolo opportunista e l’Internazionale”, 1925.

4 “Origine e funzione della forma partito”, il programma comunista, n° 13, 1961.

5 “Struttura economica e sociale della Russia d’oggi”.

6 Ibidem.

7 Dopo aver ricordato che “l’intervento del partito […] è indispensabile anche solo affinché la lotta rivendicativa […] sia condotta in modo radicale e conseguente” e quindi “riconquisti e impieghi le armi elementari, i presupposti minimi, di un suo sviluppo non effimero circoscritto”, si affermava ad esempio che, di conseguenza, “in una situazione di crisi prolungata e generale anche se lenta a tradursi in tensioni sociali e, a maggior ragione, politiche, il Partito ha impegnato e impegna oggi i suoi militanti a «rappresentare nel presente il futuro del movimento» anche nell’umile, grigia, logorante attività rivendicativa”, a “stabilire con la classe –sia pure con un suo esile e magari sottilissimo strato di avanguardia- dei legami poggianti non solo sulla predicazione di ciò che la ripresa di classe esige come condizione minima, ma sulla dimostrazione di sapere ed essere pronti a battersi perché questa condizione minima si realizzi” guardandosi tuttavia dall’errore […] di attendersi da questa necessaria battaglia ciò che non può dare: né capovolgimenti di situazioni, né ingrossamenti delle file del partito, né conquiste di larghi strati proletari al comunismo”. Se “quella che la crisi internazionale ci apre è una prospettiva non di rivoluzione, ma di ardua e costante preparazione rivoluzionaria in vista di una ripresa della lotta di classe”, di tale preparazione faceva parte infatti sia la creazione attorno al Partito di una “fascia progressivamente allargata” di conoscenza e di simpatia, che definisse “l’anello concentrico e per definizione aperto della sua influenza sulla classe” sia il necessario “allenamento su scala ridotta dei militanti ai compiti di portata ben maggiore che li attendono domani” (“Il senso della nostra azione «esterna»”, il programma comunista, n° 2, 1976). Nel prosieguo dell’articolo si preconizzava inoltre la necessità, nell’ottica prima delineata, di riproporre nella situazione di allora il fronte unico, inteso al modo nostro, e quindi come unità “dal basso” dei proletari disposti a difendere in modo conseguente i loro interessi immediati indipendentemente dalle loro convinzioni politiche, e ciò veniva fatto raccomandando sì di evitare “una meccanica applicazione alle condizioni odierne di direttive specificamente legate ad una congiuntura storica assai diversa” (“Il senso della nostra azione «esterna»”, il programma comunista, n° 3, 1976), ma individuando l’abisso che separava le due differenti situazioni storiche del 1921-22 e del 1975 solo nel fatto che “non vi sono oggi né un’Alleanza del Lavoro, né sindacati di classe la cui «autonomia» dallo Stato borghese e dai partiti del padronato debba essere salvata” (Ibidem) e non anche e soprattutto nella persistente assenza di ogni iniziativa non episodica di lotta autonoma della classe operaia, come sarebbe stato necessario fare. E quindi senza mettere in guardia né sulla necessità che tale indicazione, per non essere grossolanamente stravolta, fosse rigorosamente limitata ai proletari puri dell’industria e dell’agricoltura e non estesa impropriamente, data la mancanza sulla scena dei destinatari naturali di quelle consegne, a gruppuscoli che fossero, al contrario, espressione esclusiva o prevalente del medio ceto borghese e dell’ondeggiare dei “movimenti” da esso scaturiti, né sulla necessità, non meno vitale per prevenire altri ed anche peggiori stravolgimenti, di non scambiare -cosa tutt’altro che ipotetica ed improbabile in una situazione di persistente stasi dell’iniziativa autonoma della classe operaia- per organismi “aperti”, raggruppanti proletari decisi a difendere conseguentemente i propri interessi economici immediati, degli organismi che aperti erano solo di nome, altro non essendo, di fatto, che delle federazioni di gruppi e gruppuscoli di falsa sinistra malamente camuffate, dato che riunivano soltanto o quasi soltanto elementi politicizzati, e che pertanto esprimevano, sia pure su scala ridotta, il concetto e la realtà di quei “fronti unici politici” che la nostra corrente ha sempre respinto. L’enfasi posta allora su un sedicente “fronte unito proletario”, da contrapporre al simmetrico “fronte unito borghesia-opportunismo”, a parte ogni considerazione sulla sproporzione tra la portata e il “peso” di una simile parola d’ordine, peraltro del tutto nuova per il nostro Partito nel dopoguerra, e le realtà minime, se non microscopiche, a cui essa di fatto rimandava, non faceva che ribadire la gravità della sottovalutazione di questo secondo pericolo, sottovalutazione che cocciutamente proseguì fino al 1982 contro tutte le resistenze opposte dalle Sezioni a reale contatto con la classe operaia, e che, ad un certo punto, giunse fino all’assurdo di imporre al Partito addirittura di intervenire in qualsiasi “movimento reale” per far lievitare un presunto “interesse proletario” che sarebbe stato presente anche nei movimenti di indole e composizione sociale piccolo-borghese. La parola d’ordine demagogica del “fronte unito proletario” ebbe per fortuna vita breve: dopo essere stata improvvisamente sbandierata proprio nel periodo in cui furono pubblicati gli articoli sulla nostra “azione «esterna»” (si veda in proposito “Fronte unito proletario e organizzazioni tradizionali, oggi”, il programma comunista n° 1, 1975 e “Basi oggettive e delimitazione programmatica del fronte unito proletario”, il programma comunista, n° 6-7, 1975), essa fu infatti altrettanto improvvisamente lasciata da parte. O, per meglio dire, fu lasciato da parte il termine ambiguo e spurio di “fronte unito”, ma non senza che da quel ceppo si sviluppassero, sia pure in forma diversa, le medesime deviazioni, che costituirono poi la sostanza del “Nuovo Corso” e il vero motivo della lotta politica innestata dal Centro per imporre l’uno e le altre ai recalcitranti, con il corollario inevitabile delle espulsioni a catena che ne derivarono e dell’esplosione finale del 1982. Non è tuttavia irrilevante il fatto che già dal 1975 si teorizzasse che per costituire il famoso “fronte unito”, ci dovessimo rivolgere non soltanto “a tutti i proletari che sentono istintivamente a quale abisso e disarmo li conduce la politica opportunista”, ma anche “a tutti i rivoluzionari comunque organizzati nell’accezione più larga della parola” (“Basi oggettive e delimitazione programmatica del fronte unito proletario”, il programma comunista, n° 6, 1975), ponendo così sullo stesso piano i proletari ed i (sedicenti) rivoluzionari. Ciò significa che i “fronti unici politici” poi ostinatamente perseguiti non furono affatto il frutto di una semplice omissione da parte del Centro nell’indicare a quali condizioni dovessimo intervenire per contribuire all’azione di organismi immediati di lotta sindacale “aperti” a tutti i lavoratori ed a quali condizioni dovessimo intervenire per promuoverne noi la costituzione, ma di una deliberata volontà di forzare entrambe quelle condizioni per promuovere attivisticamente l’intervento ad ogni costo ed in ogni tipo di comitato.

8 Vedi in proposito il successivo Punto n° 6.

9 Classe, Partito e Stato ?

10 Premessa alle “Tesi del P.C.d’I. per il IV Congresso dell’Internazionale Comunista – Mosca novembre 1922” (“In difesa della continuità del programma comunista”, 1970).

11 Ibidem.

12 “Tesi sulla tattica del P.C. d’Italia – Roma, marzo 1922”, “In difesa della continuità del programma comunista”, pag 38.

13 Questa è la posizione che ci viene scioccamente attribuita, ma non è la nostra, come risulta del resto evidente dal fatto che abbiamo utilizzato nella stesura di questo stesso testo anche degli articoli usciti negli anni ’70 in quanto risultano in linea con il corpo invariante delle Tesi di Partito

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