Programma comunista numero 14, anno 1954.

Dal modello alle misure/ Teoria e rivoluzioni/ Grandezze ed economia

“il programma comunista” n. 14, 23 luglio – 6 agosto 1954

Dal modello alle misure

Abbiamo dunque dichiaratamente stabilito che la dottrina di Marx sul modo capitalista di produzione si stabilisce riducendolo ad un modello puro, al quale non solo non corrispondono le strutture delle società borghesi nelle nazioni anche più sviluppate degli ultimi cento anni, ma il quale non vuole essere nemmeno la definizione di uno stadio che si prevede esse dovranno attraversare, e nemmeno una sola tra esse, con aderenza totale.

Il modello era indispensabile per l’applicazione al decorso dei fatti economici di un metodo “quantitativo”, e se si vuole matematico (a parte la questione di esposizione di cui non mancheremo di parlare). Non siamo i soli a trattare il fatto ed il fenomeno economico con metodi quantitativi, tra le scuole antiche e moderne: anche la statistica, scienza dalle più antiche origini, usa metodo quantitativo in quanto annota e ritiene cifre successive di prezzi, quantità di merci, numero di uomini, e simili grandezze concrete, e da tutti secondo la pratica comune indicabili con numeri, come le terre, i tesori, gli schiavi ad esempio di un patrizio romano, o il censo di un cittadino. Ma il passo dalla statistica registratrice alla scienza economica sta, come in ogni altra scienza che la specie umana ha, in successive tappe, costruita, nell’introdurre oltre alla misura, in numeri, di grandezze palpabili e visibili da tutti, anche quella di nuove grandezze “scoperte” e in un certo senso (e con valore di “tentativo”, volto nella storia in vari sensi prima di imbroccare) “immaginate”; grandezze “immaginate” al fine di impostare indagine più profonda, grandezze quindi – sissignori – invisibili ed astratte, e non diretto oggetto dell’esperienza sensoria. Non si sarebbe arrivati alle misure ed alle grandezze (esempio principale la grandezza valore) senza partire dal “modello” della società studiata, e senza questa via non si sarebbe arrivati alle leggi proprie dello sviluppo di tale società (nel caso la capitalistica) e alle previsioni sul decorso e gli svolti di essa.

Senza attingere vertici speculativi, basta intendere in pratica che se i fenomeni concreti osservabili e registrabili nei cento anni da che il metodo si applica e nei cento – mettiamo – che verranno, andassero in altra direzione, allora si concluderebbe che la costruzione del modello, la scelta delle grandezze, le relazioni tra esse calcolate, e tutto il resto, tutto è da buttar via, come avvenuto storicamente per moltissime costruzioni dottrinarie che volevano riprodurre i modi di essere di “fette” del mondo naturale, e di quella speciale fetta che è la società umana, e che – non senza avere avuto storico effetto – scomparvero come teorie. Dunque noi non cerchiamo la prova che il nostro modello è valido, e le leggi fedeli al processo reale, in particolari virtù dello spirito, nelle pretese interne proprietà assolute del pensiero umano, meno che giammai nella potenza cerebrale di un genio scopritore, comparso nel mondo; non certo poi nella volontà eroica di una setta, e nemmeno di una classe sociale rivoluzionaria.
 Teoria e rivoluzioni

Il punto di arrivo di questa trattazione non è tanto di ripresentare le linee dorsali della teoria economica di Marx (pure essendo questa incessante esigenza davanti alle contraffazioni innumerevoli di nemici e talvolta di deboli seguaci), ma è di stabilire che le critiche, siano esse frontali, o più insidiosamente “fiancheggianti”, del tempo anche recentissimo e attuale, non fanno che riproporre obiezioni antichissime, sulle rovine delle quali la dottrina nuova fu dal suo primo e prorompente nascimento vittoriosamente costrutta, e ricollegarci così, soprattutto traverso un esame delle posizioni di scuole economiche anticomuniste, a quello che fu il tema della nostra riunione di Milano: la invarianza del marxismo, e in genere di tutte le dottrine e fedi rivoluzionarie della storia umana. Queste non nascono da successive approssimazioni, accostate, aggiuntature, da uno stucchevole contraddittorio e collaborazione al tempo stesso di pleiadi dei cosiddetti ricercatori, ma esplodono in dati tempi e svolti acuti del ciclo generale, e non possono non formarsi che proprio allora, e non possono che costruirsi proprio, e organicamente, in quel modo, di un blocco solo.

Abbiamo visto che la stessa classe borghese, la quale vanta di avere per la prima eretta una scienza economica, prese audacemente a maneggiare modelli, e stabilire grandezze da introdurre nel calcolo economico e nella costruzione di leggi che applicò al divenire della società umana organizzata e moderna. Ma ciò fu appunto perché era quella allora una classe rivoluzionaria, ed attuava forse la più grande rivoluzione della storia, per la quale occorrevano braccia che impugnavano armi non meno che teste pervase da una teoria (e che fosse sotto forma di fede e di fanatismo, si inquadra nella nostra spiegazione della storia in modo totale). Quando dalla gioventù di Marx noi gridiamo che non vi è movimento rivoluzionario senza teoria rivoluzionaria, non intendiamo dire che solo il movimento operaio è rivoluzionario e sola teoria rivoluzionaria è quella comunista. Noi applichiamo quella enunciazione a tutte le rivoluzioni, e non vogliamo con questo dire (né per quelle precomuniste né per la nostra) che ogni cenacolo intellettuale possa fabbricare una teoria e con ciò suscitare una rivoluzione! Le forze profonde che sconvolgono l’organizzazione sociale a un dato (raro) svolto dei cicli, come assumono la forma di contrasti economici e produttivi e di scontri tra gruppi e classi di uomini, così prendono quella di una battaglia di nuove fedi contro le antiche, e anche, non è difficoltà ad ammetterlo, di miti contro miti.

Non meno nota è la nostra posizione, fondata su caratteri propri dell’organizzazione produttiva e dei suoi moderni sviluppi, che la classe proletaria comunista non si forgia una teoria a sfondo religioso o prevalentemente romantico-ideologico, ma raggiunge quella che è la vera scienza del fatto economico; e ciò in aderenza al suo diverso comportarsi quanto alla appropriazione delle forze produttive, colla rottura delle vecchie forme di appropriazione di classe, rispetto alle classi e alle rivoluzioni che storicamente la precorsero. E poiché bisogna guardare in tutti gli angoli gli equivoci soliti che sono in agguato, avvertiamo altresì che per giungere a questa conclusione non abbiamo bisogno di sostenere che la società umana arriverà in tal modo ad una infallibile assoluta generale formulazione delle leggi del cosmo fisico e sociale, così come non crediamo che essa sia partita con un bagaglio di verità supreme affidatole da immateriali potenze, o che possa scoprirselo scavando nella immanenza misteriosa ed innata del suo pensiero speculativo.
 Grandezze ed economia

Non appena dunque la classe borghese non ebbe più bisogno di dottrine rivoluzionarie operanti, la scienza economica ad essa seguita subì la trasformazione, trattata a fondo da Marx, dalla scuola classica alla scuola volgare. Furono messi da parte i pericolosi “voli” di Ricardo e dei suoi sulla definizione del valore che i prodotti dell’economia capitalista hanno come una intrinseca proprietà, e che si denomina valore di scambio, ma non si definisce secondo un momento dello scambio, bensì secondo un momento della produzione. Per Ricardo era dichiarato che una merce non ha il valore misurato da un dato “numero” perché, magari nella media statistica dei prezzi di mercato, si scambia a tanto. È invece in quanto la merce ha un dato valore determinato e calcolabile secondo il tempo di lavoro medio sociale che serve a formarla, che essa deve essere venduta sul mercato, salvo oscillazioni occasionali, a quel tanto. Su questo teorema centrale della scuola classica, ritenuto ma con ben altra forza vitale nella scuola marxista, si scaglia poi l’economia volgare che chiama tutto ciò follia, illusione e mito, e in sostanza si libera come di un fardello inutile della grandezza valore, della sua determinazione e misurazione, e delle leggi in cui viene a figurare.

La obiezione essenziale da allora, con parole diverse, è sempre quella. Non siamo nel campo fisico che obbedisce (allora si riteneva e concedeva) a rigorose leggi di causalità, che si possono stabilire servendosi di grandezze trattabili con processi matematici. Siamo nel campo umano in cui influisce la disposizione, la volontà, il “gusto” dei singoli individui, e il fenomeno medio non è né afferrabile né prevedibile né incasellabile in formule fisse. Via dunque la grandezza valore (non l’idea, la nozione di valore, che, spogliata dalla sua materiale determinazione, viene portata a trionfalmente invadere le cosiddette scienze della società: diritto, etica, estetica…); via in genere le grandezze introducibili nella scienza economica, e che non siano brute quotazioni monetarie o quantità di merci contratte; via (ed era questo il punto bruciante) la possibilità di stabilire con la ricerca economica la strada che l’umanità percorre, intesa come società organizzante la propria attività ai fini dei propri bisogni: non si può fare altro che stare a guardare, e scrivere la imprevedibile, infinitamente libera, autonoma da ogni itinerario, e indifferente tra tutte le possibili rotte,storia concreta e a posteriori di questo sciame di scombinati terrestri. Di tutto suscettibili e capaci, e perfino di credere agli scienziati.

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