Punto n. 21: i caratteri formali dell’azione ‘esterna’ del Partito

Nota redazionale: il punto 21 affronta il problema del linguaggio che dovrebbe caratterizzare l’azione esterna del partito.

Normalmente esiste una differenza fra il linguaggio di un volantino e quello di un articolo, così come esiste una differenza fra un articolo imperniato sulla descrizione/interpretazione di vicende contingenti e un articolo con l’ambizione del saggio tematico.

Nei primi due casi il linguaggio potrebbe anche essere semplice, ma non semplicistico, mentre nel terzo caso il linguaggio dovrebbe almeno tendere all’utilizzo di termini specificamente afferenti al tema trattato, senza inutili oscurità cervellotiche, ma anche senza impoverimenti espressivi che compromettano la profondità dei concetti.

L’ideologia dominante tende a rappresentare i fatti reali secondo categorie dualistiche, da una parte il bene dall’altra il male. Questa è l’apparenza delle cose, un apparenza che nasconde il volto complesso della realtà.

Nel mondo apparente lo stato borghese difende il bene comune, quindi è da escludere che il suo operato possa violare i precetti della morale dominante,  e quindi è anche da rifiutare il sospetto che esso possa mettere la ragion di stato al di sopra di questa morale.

Machiavelli, Guicciardini, Botero, Marx, Nietzsche, Meinecke, avevano torto, lo stato è come un boy scout, e mai e poi mai potrebbe servire con tutti i mezzi gli interessi di una certa minoranza sociale. La critica materialista tuttavia nasce proprio dal rifiuto delle credenze popolari infondate, soprattutto se esse sono un mezzo di instupidimento dei sudditi, degli schiavi, dei soggetti dominati. Cioè se svolgono la funzione della ideologia.

La critica marxista cerca di andare oltre il mondo incantato delle apparenze, quindi il suo compito permanente è la demistificazione delle narrazioni ideologiche.

Lo stato borghese demistificato dalla critica marxista smette di essere il feticcio con la divisa di boy scout, e ritorna ad essere quello che è realmente: attrezzatura di oppressione del proletariato e strumento di difesa e offesa contro gli stati delle borghesie avversarie.

Ma entriamo nel merito di una questione affrontata nel capitolo 21. Undici settembre, torri gemelle, attentati terroristici.

Ovviamente non possedendo dati inconfutabili, abbiamo posto delle semplici questioni e ipotesi in merito alla vicenda. Le uniche certezze che abbiamo sono di tipo storico, nel senso che nel corso della storia alcuni eventi sono stati utilizzati come ‘casus belli’ , cioè come pretesto costruito allo scopo di giustificare una successiva azione offensiva da parte di uno stato verso un altro stato. Si tratta di dati accettati dalla storiografia ufficiale. Antichi come le opere di Omero. Cosa fu infatti il rapimento di Elena se non un casus belli?

Dunque, anche in assenza di prove inconfutabili, si possono fare delle ipotesi, dei ragionamenti basati sulla storia passata, e almeno porsi dei dubbi sulla versione ufficiale degli eventi. Pensiero critico contro supina accettazione della narrazione dominante.

Il prossimo articolo sarà un testo dal titolo ‘Borghesia e complotti’, che è già presente sul sito, esso è molto attinente alle tematiche del punto 21.

Buona lettura.

 

Punto n.21: caratteri formali dell’azione “esterna” del Partito

GLI STILI DELLE RIVOLUZIONI E DEI LORO PARTITI: NON I SUSSURRI ARTICOLATI, INTELLIGENTI E CRUDELI CHE IL “MARXISMO RAFFINATO” INFLIGGE AL PROLETARIATO CARATTERIZZANO IL PARTITO DELLA RIVOLUZIONE, MA IL FATTO DI RIVERBERARE LE GRIDA DI UNA CLASSE DOLORANTE. Non è questione secondaria quella dello stile che deve caratterizzare il Partito in tutte le sue manifestazioni. Già da tempo (1) abbiamo respinto le suggestioni dello stile romantico in quanto efflorescenze retorico- sentimentali della borghesia post-rivoluzionaria, riconoscendole non solo nelle forme degeneri di Mosca e Pechino, con la vacua, pomposa magniloquenza delle parate, delle icone e dei mausolei, ma anche nelle forme meno vistose ma altrettanto degeneri che caratterizzarono la socialdemocrazia, e che furono anch’esse tutt’uno con la celebrazione enfatica e filistea della grandezza dei Capi: Kautsky, ad esempio, non parlava di Marx se non “a furia di epiteti come «spirito superiore», «Olimpico», «Giove tonante» e altri” ed inoltre “evocando il suo primo incontro col suo eroe si lusingava di non aver ricevuto da lui «l’accoglienza sdegnosa che Gœthe aveva riservato al suo giovane confratello Heine»” (2). Ma lo stile cui la nostra Rivoluzione si richiama, innanzitutto, pur essendo antiromantico, e quindi disadorno di inutili fronzoli, non è perciò uno stile semplice, chiaro ed accessibile, ma è di necessità difficile e oscuro: “il testo deve essere difficile. La via dell’opportunismo è lastricata bene e agevole a percorrere: lo stile dei Mussolini dei Nenni etc. è stato sempre limpido: si vedeva limpidamente che erano traditori. La nostra via è disagevole e chi si stanca non la può percorrere”, ragion per cui “io quindi ho desistito da tempo (e la cosa va in parallelo al fatto che non sono finito nel policantismo) dal tentare di essere chiaro”. Ed ancora: “il marxismo è scienza proletaria ma non è scienza popolare. Tra i gravi contrasti che si aprono dinanzi a noi sta quello che la classe illetterata deve possedere e maneggiare la teoria più ardua, mentre i colti borghesi si pascono di buaggini «alla portata di tutti»” (3). Il Partito infatti non solo parla di un mondo che non c’è ancora, ma parla anche del mondo oggi esistente con categorie che, in quanto categorie scientifiche, sono estranee a quelle ordinarie, a quelle derivate dalle ideologie dominanti, da cui le difficoltà enormi anche lessicali. Superare quindi la barriera dei “geroglifici da iniziati”, che sono inevitabili dato che il marxismo, come tutte le scienze, non è immediatamente accessibile ma richiede uno studio specifico, è il minimo che

essere pronti a dare la vita per il Comunismo e non si è disposti a sacrificare qualche ora del proprio tempo per accedere ai postulati autentici della nostra Rivoluzione? Anche attraverso questa ripida via, dunque, la Rivoluzione seleziona i suoi militanti. Poiché è evidente che tutti i militanti devono essere addestrati al maneggio della teoria dato che il loro compito è quello di utilizzarla per spiegare gli avvenimenti e per trasmetterne la corretta interpretazione ai proletari nel lavoro quotidiano, altrimenti a nulla serve parlare di un Partito che opera a contatto con la classe operaia. Va da sé che l’attività di trasmissione alle grandi masse della interpretazione marxista dei fatti sociali che direttamente le toccano, attività che definiamo come attività di agitazione e non di propaganda, essendo rivolta a inculcare poche idee a molti anziché molte idee a pochi, richiede una dose di “chiarezza” maggiore di quella che si richiede su altri piani, in cui il Partito espone in tutta la sua profondità la visione marxista dell’insieme dei fatti sociali, ma anche questa maggior chiarezza non potrà mai essere conseguita a scapito della corretta esposizione delle nostre autentiche posizioni, non potrà mai essere il risultato di una volgarizzazione e di un’annacquamento del loro effettivo contenuto rivoluzionario, e non potrà quindi porsi come il risultato di uno “sforzo per essere chiari”, ma sarà solo ed esclusivamente il risultato del tutto spontaneo dell’avere ristretto il campo della nostra esposizione ad un numero limitato di fenomeni, evitando l’errore infantile di voler concentrare, ad esempio, in un volantino tutta la complessità dell’analisi marxista sulla situazione in cui versa il capitalismo mondiale, sulle prospettive della lotta rivoluzionaria non solo a breve ma anche a lunga scadenza e sui compiti del proletariato e del Partito dopo la vittoria della Rivoluzione. Alla luce di quanto sopra esposto resta escluso ogni vano tentativo di pervenire alla “riduzione in pillole di quelli che sono macigni” (4) e va definitivamente respinto in quanto indizio di politicantismo ogni conato periodico ad essere chiari e comprensibili (o accessibili). Abbiamo già respinto ogni ipotesi di trasformare le posizioni comuniste in qualcosa d’altro, di tradurre i nostri postulati in una “strategia vivente” ossia in un insieme più articolato e comprensibile di proposizioni (vedi Punto n°8) perché sappiamo che ciò equivale a snaturarle. E’ stato proprio quello, infatti, il primo passo del “Nuovo Corso”, e abbiamo visto non solo come è finito, ma abbiamo anche analizzato il concatenamento in forza del quale il percorso degenerativo si è snodato fino alla catastrofe finale (vedi Punto n° 5). Qui vogliamo solo ricordare che l’argomento secondo cui bisogna fare ricorso a proposizioni “più accessibili” è una delle caratteristiche invarianti dell’opportunismo, che infatti nel 1924-25 affermava che il postulato marxista della dittatura proletaria non era abbastanza comprensibile per le masse e quindi bisognava tradurlo in un linguaggio più articolato e “intelligente”, trasformandolo in una parola d’ordine, per l’appunto, più comprensibile, che sarebbe stata quella del “governo operaio”. D’ora in avanti resta pertanto stabilito che le nostre posizioni e le proposizioni che le esprimono devono essere in ogni tempo e in ogni luogo riprodotte meccanicamente, inintelligentemente, pedissequamente, pappagallescamente, senza articolarle in nessun modo e soprattutto senza tentare di renderle più accessibili. Posto che nel normale lavoro di Partito, che comprende l’elaborazione teorica, è prevista l’applicazione e la ripetizione dei concetti già elaborati, e questa non è certo una novità, agli attuali promotori di ridicole opere di “restauro non conservativo”, modo balbuziente per dire “restauro creativo e innovativo”, ricordiamo che per la Sinistra tale attività coincide col “preferire novecentonovantanove volte su mille la rimasticazione catechistica all’avventura della nuova scoperta scientifica” (5). In secondo luogo la antiretorica del nostro stile non è neppure sinonimo di un grigiore e di una pacatezza che sconfinano nel pacifismo, perché coloro che remano nelle galere del capitale non possono essere pacati, ma sono costretti al grido e all’insulto. Non è inoltre l’elegante, raffinata e pungente ironia quella che ci caratterizza, ma è proprio il brutale sarcasmo: l’eleganza e la raffinatezza dell’ironia appartengono infatti di diritto alle classi possidenti, le uniche che si possono permettere il lusso di ricorrere, nella polemica, al fioretto, consapevoli che alle loro spalle si muovono i carri armati. Non è nemmeno la crudeltà, l’indifferenza compiaciuta e divertita di fronte alla sofferenza anche del nemico, perché Lenin ci ha insegnato che i membri dei plotoni di esecuzione devono essere sostituiti quando cominciano ad abituarsi ad uccidere. Non è, come l’opportunismo ha sempre preteso, la forza flessibile dell’acciaio (Stalin in lingua russa), ma è la rigidità la qualità che si addice ad una classe che nei momenti gloriosi del suo passato si riconobbe nel motto “mi spezzo ma non mi piego”, e la cui intera storia è lì per dimostrare che flettersi o, peggio, genuflettersi anche una sola volta equivale a perdere la propria anima, ad assumere la posizione caratteristica dei vermouth di una volta (chinati). Sempre per restare sull’argomento di uno stile che è inseparabile dal contenuto non ci si deve stupire allora se, adottando una attitudine di pacato accademismo, si giunge al punto di prosternarsi al linguaggio forbito delle classi dominanti e si parla quindi della necessità per i proletari di difendersi non dagli “attacchi” dei capitalisti o del padronato o -peggio ancora- degli sfruttatori, termini che evidentemente gridano troppo e che potrebbero essere percepiti dai preti e dagli uomini di cultura come dei pugni nello stomaco, ma, molto più educatamente e civilmente, dagli attacchi “degli imprenditori”. Quanto pudore trasuda da questo linguaggio da educande! Come si vede bene che chi rifiuta il nostro linguaggio lo fa proprio perché si adagia senza nessuno sforzo nella terminologia del nemico di classe! Che a questo stile corrisponda in effetti un contenuto altrettanto reazionario lo si ricava dalla constatazione che, dopo aver parlato in punta di forchetta di “imprenditori”, ci si guardi bene dal dire agli operai come devono difendersi, e cioè rivendicando dei consistenti aumenti salariali e ritornando ai metodi classisti dello sciopero senza preavviso e senza limiti di tempo. D’altra parte, come si possono dire delle simili sciocchezze se la massa operaia metropolitana è “corrotta” e gode quindi di salari fin troppo alti? Non è un caso allora che ci si voglia poi guadagnare la simpatia della “pubblica opinione” rivendicando la difesa della famiglia, sussurrando che i proletari devono sì difendere i loro interessi, ma solo per proteggere l’avvenire dei loro figli, bisbigliando che i proletari devono scendere sì in campo ma non lo devono fare per egoismo, ma per difendere la sorte dei loro familiari, col risultato di aggiogare la lotta di classe alla difesa della famiglia proletaria nel più puro stile staliniano, dimenticandosi che noi salutiamo lo stritolamento della famiglia da parte del Capitale come un fatto altamente positivo in quanto ci risparmia il lavoro che la nostra Rivoluzione sarà chiamata a compiere contro la famiglia, anche proletaria, in quanto ignobile cellula di una società fondata sulla proprietà privata, sugli individui e sulle aziende (6). Constatiamo che chi ha voluto dar prova di inflessibilità verso i militanti del Partito si è adesso convertito repentinamente alla flessibilità, si è trasformato in un servitore felpato ed elastico della “pubblica opinione”, preconizzando la diffusione all’esterno delle nostre posizioni in modo “non rigido” per meglio catturare le famose “avanguardie”. L’elogio della flessibilità e dell’elasticità lo conosciamo bene: basta sfogliare le vecchie annate di “Rinascita”. Quello della crudeltà, anch’essa oggi invocata come un utile ingrediente della nostra propaganda, invece, ci mancava proprio. Il nostro stile antiretorico ed antiromantico è cosa ben diversa: significa fermezza e nervi saldi nell’atto di proferire un verbo che è un pugno nello stomaco o non è, che è una pietra scagliata nella vetrina scintillante del mondo borghese o non è, che è e deve essere sempre, anche nella più cupa controrivoluzione, un grido di guerra (7). Avere paura del ridicolo è solo la manifestazione esteriore del nervosismo e dell’insicurezza dei capi che hanno già tradito. Non avranno alcuna esitazione, i nostri nemici, a massacrarci: possiamo forse pensare che avranno esitazioni a dileggiarci, ad esporci al ludibrio cui sempre nella Storia furono esposti i militi e gli anticipatori di tutte le Rivoluzioni? Ma il nostro stile è fatto anche di denunce precise. Denunce che non sopportano di soggiacere al ricatto giuridico di dover esporre prove documentali e testimoniali che siano inoppugnabili, ma si possono tranquillamente basare anche su semplici ipotesi, laddove tali ipotesi siano storicamente e razionalmente fondate. Denunce che in tanto hanno un senso marxista in quanto svelano non dei complotti di individui o gruppi di individui (la storia non è fatta dai complotti) ma delle manovre compiute sotterraneamente da forze storiche e schieramenti di classe, manovre che non richiedono necessariamente di passare attraverso accordi espliciti tra individui (anche se spesso anche questi aspetti soggettivi non mancano), ma che passano sempre attraverso intese obiettive, attraverso intelligenze e risonanze automatiche in cui si affermano e si difendono gli stessi interessi di classe. Non sappiamo quante volte Rokossovsky abbia avuto incontri segreti con le alte sfere della Wehrmacht, ma sappiamo che si fermò alle porte di Varsavia per consentire a quest’ultima di ripulire la città dalla Comune proletaria. E sappiamo che solo un amico di Rokossovsky e della Wehrmacht avrebbe potuto avere il coraggio di definire l’articolo in cui il Partito denunciava quell’infamia (8) come un articolo paranoico. La stessa cosa vale per gli articoli in cui il Partito denunziò il fatto che Saddam Hussein nel 1991 fosse stato incoraggiato dagli USA ad invadere il Kuwait allo scopo deliberato di indurlo a effettuare l’aggressione che avrebbe consentito poi il solito intervento “liberatore” da parte di questi ultimi. La stessa cosa vale per l’articolo “Auschwitz o il grande alibi”, in cui il Partito denunciava il ruolo di primo piano svolto non dalle famigerate SS ma dai campioni angloamericani dell’antirazzismo nel negare ai deportati ebrei d’Ungheria qualunque possibilità di scampare al destino loro assegnato nei campi di concentramento. E se facciamo un balzo all’indietro di quasi un secolo troviamo che è il Partito-Marx che denuncia la collaborazione tra prussiani e versagliesi nello schiacciamento militare della Comune di Parigi. Pertanto a quanti amano sciacquarsi la bocca con la “dietrologia”, parolina che è oggi molto di moda tra i pennivendoli, ci limitiamo a ricordare che se la realtà dei processi storici e naturali coincidesse con l’apparenza non vi sarebbe bisogno di scienza. E che Marx ha dedicato un intero volume alla storia della diplomazia segreta. In forza di quanto sopra esposto era e resta corretta e tutt’altro che paranoica la denunzia del fatto che gli USA avessero quantomeno consentito agli attentatori dell’11 settembre 2001 di sviluppare l’attacco alle Twin Towers ed al Pentagono (9) non solo perché quegli attentati, come alcuni settori della stessa stampa borghese hanno poi documentato (10), si inserivano perfettamente nel disegno preesistente del dispiegamento di una guerra ininterrotta degli Stati Uniti contro chiunque ne minacciasse gli interessi e in qualunque punto del globo tale minaccia si fosse delineata. Vi si inserivano sia perché rispondevano al bisogno di mobilitare la “pubblica opinione” attorno a quel programma ed ai suoi corollari di esplicita militarizzazione della intera società statunitense, sia perché, nello stesso tempo, si prestavano ad occultare l’imminente esplosione della “bolla speculativa”, deviando così l’attenzione “dell’opinione pubblica” dalle origini endogene, strutturali, di quella crisi economica statunitense, che stava poi alla base della necessità di un così vasto dispiegamento militare da parte degli USA. Ma ciò che deve soprattutto rilevarsi è che consentire ad altri di portare a termine l’“aggressione” contro gli obiettivi a stelle e strisce era solo la continuazione di un metodo più che collaudato da parte della borghesia nordamericana. Storicamente il sostegno popolare all’interventismo americano nelle guerre è sempre stato alimentato, in effetti, da “incidenti” o più in generale da “attacchi” al loro modo di vita: gli USA hanno così sempre assunto la caratteristica “morale” del “gigante buono” che si tramuta per impulso delle azioni criminali altrui in un “castigamatti universale”. Nel 1898 la guerra contro la Spagna inizia dopo una campagna montata dalle catene giornalistiche Pulitzer e Hearst sull’esplosione della nave da guerra Maine di fronte all’Avana. Nel 1915, l’indignazione della sempre più manovrata “opinione pubblica” viene montata sfruttando l’affondamento del transatlantico Lusitania, che, nonostante l’avviso pubblicato dalla Germania sui giornali americani, non tiene la rotta e porta un carico di armi pur essendo stracolmo di passeggeri. Nel 1917, dopo la proclamazione del blocco navale totale da parte della Germania, riprende la campagna giornalistica sul Lusitania che lubrifica l’intervento nella I Guerra. Nel 1941, è l’attacco di Pearl Harbour, conosciuto in anticipo dai servizi segreti americani ma non rivelato, a svolgere lo steso ruolo di catalizzatore dell’unità guerrafondaia di tutte le classi in funzione anti-giapponese: il nostro Partito non ebbe bisogno di raccattare prove per affermare senza mezzi termini che “non certamente per dabbenaggine Roosevelt e i suoi collaboratori deliberatamente provocarono” ( 11) quell’incidente. Nel 1964 l’incidente del Tonchino permette a Johnson, allora presidente, di dare inizio alla escalation nella guerra del Vietnam. Ora noi capiamo bene che le teorie dei complotti non piacciono alle persone molto “ragionevoli” e dotate di molto buon senso. Sfortunatamente il “buon senso” viene utilizzato anche dagli organizzatori di complotti, anche di grandi complotti. Il “cittadino medio” sempre più corteggiato e fessificato da mostruosi Apparati statali non riuscirà mai ad immaginare che per realizzare obbiettivi politici, ci sia qualcuno, istituzione o stato, che sia capace di organizzare a tavolino assassini di massa di persone innocenti. Il “cittadino medio” troverà invece rassicurante, l’idea che a compiere un’azione così efferata sia opera di pazzi fanatici. Ed è su questo riflesso difensivo che giocano gli ideatori ed organizzatori di “complotti terroristici di stato”. Nel 1997 Gore Vidal nel suo “Menzogne dell’impero ed altre tristi verità” cita l’ex-segretario di stato americano Zbignew Brzezinski, che scriveva in un suo saggio: “bisogna considerare che l’America sta diventando sempre più una società multiculturale e, in quanto tale può essere difficile creare il consenso su questioni di politica estera, tranne che in presenza di una minaccia nemica enorme, diretta, percepita a livello di massa”. Che cosa è stato di diverso l’11 settembre? I riti funebri officiati dai preti di tutte le religioni per le vittime dell’attacco aereo sono stati la rappresentazione visibile, tangibile del conseguimento di quel consenso: le diverse “culture” ed “etnie” finalmente unite di fronte alla morte attorno alla bandiera nazionale. Il Partito, che rappresenta la memoria storica della classe operaia mondiale, aveva dunque il dovere elementare di ricordare ai proletari che l’11 settembre è stato solo un ulteriore applicazione del metodo di sfruttare o pilotare se non addirittura di programmare direttamente gli attacchi proditori degli stati-canaglia di turno (12), pena il fatto di scivolare nel pantano della “manovrata ed inerte opinione pubblica”, oggi più soggiogata che mai dalla droga mediatica distribuita urbi et orbi dalla centrale imperialista di Washington per arricchire di particolari spettacolari o disgustosi la nuova puntata talibanbinladesca del solito copione hollywoodiano della “Dottrina dell’Energumeno”. Altro che volantino assolutamente fuori luogo, improntato a reazioni allarmate e allarmanti e per di più caratterizzato da un tono paranoide che non è all’altezza del nostro Partito! Magnifico spettacolo invece quello di un Partito Comunista Internazionale portato a spasso al guinzaglio come un cagnolino giudizioso da Edward Luttwack e Condoleeza Rice? La Sinistra Comunista addomesticata, teleguidata e ligia al Verbo bushita? Più avvilito di così il Partito della Rivoluzione non avrebbe potuto essere: possiamo quindi solo ringraziare la voce che si è levata della periferia e che ha salvato l’onore del Partito.

1 Così è descritto dalla Sinistra lo stile della nostra rivoluzione prendendo ad esempio “lo scioglimento nel ridicolo della assemblea costituente” in Russia: “fatto storico immenso: posa drammatica nessuna”, uno stile che rifugge da quella retorica che in seguito et pour cause “prenderà la mano un poco a tutti”, uno stile che si colloca agli antipodi di quello romantico, tipico della “efflorescnza intellettuale che corrisponde […] alla post-rivoluzione capitalista” e che è definito marxisticamente dal “contrasto tra la difesa di un privilegio esoso e la proclamazione di rappresentare l’umanità in emancipazione dalle tenebre barbare”, tra un “contenuto di fermo interesse” e una “forma di estremo disinteresse”, contrasto da cui si sprigiona non solo la retorica e la dobbiamo richiedere a chi si avvicina al Partito. Si afferma di teatralità, ma anche e soprattutto il sentimentalismo romantico, la sensiblerie, in cui vediamo la deformazione demagogica a volte acida ma più spesso untuosa dell’umano sentimento nella forma di una vacua quanto altisonante esaltazione (“Fiorite primavere del capitale”, il programma comunista, n° 4, 1953).

2 P. Mattick, “Kautsky de Marx à Hitler” (1939).

3 Lettera a Salvador del 29.10.52.

4 Ibidem. 101

5 “Il marxismo dei cacagli”, Battaglia comunista, n° 8, 1952.

6 Nel recensire l’opuscolo di T. Lunedei e A. Faraggiana intitolato “La donna nella Società Comunista”, opuscolo secondo cui “le unioni fondate sul libero amore conducono naturalmente alla monogamia” e si dovrebbe per conseguenza propugnare una “lotta per il conseguimento di una famiglia fondata sul libero amore o in altri termini dell’attuale famiglia con la variante intrinseca della mancanza di vincoli civili e religiosi e l’altra estrinseca dell’ambiente mutato”, la Sinistra rilevava: “Orbene noi ci saremmo aspettato che gli autori «a coloro che affermano che noi si voglia distruggere la famiglia» avessero risposto e rispondano che la famiglia non siamo noi a volerla distruggere, ma che come istituto coevo e dipendente da quello della proprietà privata scomparirà per necessità quando ne cesserà la causa. […] Onde, senza tema di passare per azzardati o poco cauti profeti, ci par lecito di affermare che con l’abolizione della proprietà privata anche la famiglia verrà a mancare” (“La famiglia secondo la concezione marxista”, Prometeo, n° 1, 15 gennaio 1924).

7 Non gridava forse troppo forte il Partito quando nel 1956, dunque in piena fase controrivoluzionaria, reagiva alla invasione russa dell’Ungheria uscendo col titolo “Con la tresca immonda fra comunismo e democrazia, tutto hanno sfasciato i cani rinnegati” (il programma comunista, n.22, 3-17 novembre 1956)? Vogliamo sfogliare le annate del periodo più luminoso del Partito nel dopoguerra? Troveremo altri titoli che sono altrettanti urli e pugni nello stomaco: da “Vomitorium montecitorii” a “Democrazia maliarda ed assassina” da “Microfonie diarroiche” a “Schifo e menzogna del mondo libero” … Le orecchie dei nostri contraddittori sono davvero diventate molto delicate e sensibili, ma solo quando l’insulto è diretto al nemico di classe, non quando l’epiteto di “criminali” è rivolto a dei compagni. Siamo arrivati infatti al completo capovolgimento dell’unica «morale» che riconosciamo, quella “che Lenin additava alla Russia comunista del ’18: l’amore per i compagni, l’odio per gli altri” (“Marxisti e religione”, il programma comunista n° 14, 1964). Ma c’è anche di peggio nell’indignazione con cui alcuni compagni hanno accolto la prima bozza di questo documento, qualificandola come “irricevibile”, ed è la ipocrita pruderie di chi che si è ritratto sdegnato per il riferimento ai “morti genitali” di Mocenigo o per le qualificazioni del’organo-partito. A queste scandalizzate vestali di non si sa bene che cosa ricordiamo l’altrettanto “irricevibile” Schema di Circolare del Febbraio 1953, in cui il Centro di allora intimava ai compagni “di astenersi dalle stimolazioni patologiche di cui segue la lista: -Testi che non potrebbero essere che testicoli. –Prospettive nell’oscurità totale. –Documenti sullo zero e le sue potenze. –Discussioni che conducono a dissensi sul nulla. –Dibattiti che finiscono nella sregolatezza. –Analisi del vuoto assoluto. – Garanzie sull’attivo della bancarotta. –Congiuntura favorevole a prenderla nel culo. –Posizioni atte alla stessa operazione”. Lo scandalo e l’indignazione equivalgono ad una ulteriore confessione: quella di essere rimasti ancorati al più vieto personalismo, tutto accettando ma solo da parte del Grand’Uomo o Superuomo. Anche l’epiteto di fessi, ritenendo a torto di essere stati con ciò elevati al rango di Superfessi.

8 “Il ghetto di Varsavia”, il programma comunista n° 23 del 1953 e n° 1 del 1954.

9 Nel volantino di Partito elaborato dai compagni spagnoli all’indomani dell’11 settembre (“Esplosioni in USA. Fortezza attaccata, simboli di ostentazione del potere imperialista distrutti: obiettivamente, chi lo desiderava? Chi lo ha permesso? Chi ne beneficia?”) ad esempio si ipotizzava apertamente che le esplosioni potessero essere state “una provocazione montata o tollerata da un settore della stessa borghesia nordamericana per forzare una coesione nazionalista e patriottica di fronte all’esplosione finanziaria” e si evidenziavano a conforto di questa ipotesi dei fatti estremamente eloquenti: “se la conduzione di questi moderni aerei è automatica, chi li ha diretti contro le Torri Gemelle? A qualcuno è passato per la testa che era necessario che i terroristi avessero buone conoscenze di navigazione aerea e grande perizia? O forse hanno manipolato i sistemi di navigazione automatica e li hanno telecomandati da altri posti di comando sulla terra, in mare e nell’aria? Quali terroristi sarebbero in possesso di condizioni tecniche, economiche e territoriali, aeree o marittime, tali da preparare e portare a compimento questo piano quasi diabolico senza che la super potenza unica ed i suoi giganteschi servizi di spionaggio lo abbiano individuato e distrutto? Nessuno!”.

10 T. Meyssan, “11 septembre 2001. L’effroyable imposture”, Carnot, 2002.

11 “La «distensione» aspetto recente della crisi capitalistica”, il programma comunista, n. 1-6, 1960.

12 Sempre nel volantino di Partito di Madrid sopra riportato (“Esplosioni in USA. Fortezza attaccata, simboli di ostentazione del potere imperialista distrutti: obiettivamente, chi lo desiderava? Chi lo ha permesso? Chi ne beneficia?”) si aggiungevano infatti le seguenti fondamentali considerazioni: “Si ricordi bene che la borghesia nordamericana è una grande specialista nel montare provocazioni per giustificare i suoi attacchi, le sue guerre e i suoi massacri; ricordiamo alcune di queste provocazioni: 1886, bombe di polizia contro la mobilitazione dei sindacalisti perla giornata di 8 ore, a Chicago; 1898, fanno esplodere le loro stesse navi a La Havana per dichiarare guerra al colonialismo spagnolo a Cuba; anni 20, fabbricano prove contro Sacco e Vanzetti; anni 30, fabbricano prove, testimoni e processi contro decine di dirigenti sindacali, che sono condannati e giustiziati per aver difeso gli interessi della classe operaia. Memoria storica: nel 1941, in piena Seconda Guerra Mondiale, si produsse l’attacco giapponese di Pearl Harbour. I Servizi Segreti ed il governo statunitense conoscevano da mesi la preparazione dell’attacco, ma non informarono né fecero nulla per contenerlo o impedirlo. Utilizzarono invece l’indignazione della manovrata ed inerte opinione pubblica per rompere ogni tipo di resistenza contro la liberalizzazione più completa nella moltiplicazione dei presupposti per la produzione di armamenti e di tutto ciò che concerne l’esercito e l’entrata formale nella seconda mattanza imperialista mondiale, superando, così, la grande crisi di sovrapproduzione del 1929-33 e del 1938-41”. Vedi anche il successivo volantino sulla guerra della Sezione di Madrid del Partito (“Non sogniamo la pace nel mattatoio capitalista! Le crisi e le guerre imperialiste sono prodotte dal capitalismo! Solo la rivoluzione anticapitalista internazionale metterà fine alle crisi di sovrapproduzione relativa ed alle guerre!”).

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