Punto n°29: la lotta politica nel partito

 

 

 

Punto n°29: la lotta politica nel Partito

IL FUNZIONAMENTO FISIOLOGICO DEL PARTITO COMUNISTA ESCLUDE CHE AL SUO INTERNO SI SVILUPPI UNA QUALSIASI FORMA DI LOTTA TRA DIVERSE CORRENTI E LINEE POLITICHE. Ogni lotta politica è lotta di classe. La presenza di una lotta politica all’interno del Partito comunista è pertanto l’indizio del sorgere e del manifestarsi di interessi di classe contrapposti in seno ad una compagine che è e vuole essere mono-classista non dal punto di vista della sua composizione sociale ma dal punto di vista degli interessi storici che condensa ed esprime. “Quando questa crisi scoppia, appunto perché il partito non è un organismo immediato ed automatico, avvengono le lotte interne, le divisioni in tendenze, le fratture, che sono in tal caso un processo utile come la febbre che libera l’organismo dalla malattia, ma che tuttavia «costituzionalmente» non possiamo ammettere, incoraggiare e tollerare” (1). Perché la lotta politica è una manifestazione della lotta di classe, perché l’armamentario di “consultazioni, costituzioni e statuti”, di cui la lotta politica dentro ai partiti anche proletari si è sempre avvalsa e nutrita, è caratteristico “delle società divise in classi e dei partiti che esprimono a loro volta non il percorso storico di una classe, ma l’incrociarsi dei percorsi divergenti o non pienamente convergenti di più classi” (2). Il fatto di non ammettere costituzionalmente la lotta politica nel Partito Comunista non significa quindi, come presumono i sotto-fessi, che nel Partito la critica e l’errore sarebbero impossibili visto che si possiede la teoria, ma significa che il funzionamento fisiologico del Partito non ammette che vi sia una lotta tra diverse linee politiche e a maggior ragione la divisione in correnti o tendenze; e significa anche che quando quei fenomeni si verificano e addirittura esitano in fratture della compagine organizzata vi è un funzionamento patologico del Partito, una malattia, che si manifesta con quelle “crisi febbrili” che sono rappresentate per l’appunto dalla lotta politica interna e dalla formazione di tendenze in contrasto tra loro, e che in tanto sono utili in quanto aiutano l’organo-Partito a liberarsi dalla malattia, che è sempre da identificare nel formarsi di gruppi di interessi borghesi nel suo seno. Ciò vale sempre, anche se il Partito Formale è ridotto ai minimi termini e le contese assumono quindi l’aspetto di “tempeste in un bicchiere d’acqua”, in quanto il fatto che esso non sia neppure in grado per difetto di effettivi di difendere gli interessi immediati della classe operaia non significa che automaticamente sia assicurato il suo allineamento agli interessi storici della nostra classe. Il fatto che il tradimento – ovvero l’allinearsi di una frazione del Partito con gli interessi di altre classi- sia, almeno all’inizio, inconscio (3) non ci autorizza insomma a misconoscerlo, rifugiandoci nella ingenua valutazione secondo cui in questa fase storica non ci possono essere traditori. Ben altra cosa rispetto alla lotta politica interna sono le differenti valutazioni, che possono normalmente e fisiologicamente sorgere tra i compagni, ma senza cristallizzarsi in tendenze e correnti contrapposte. Il centralismo democratico, infatti, riconosce e ammette le correnti all’interno del Partito, mentre il centralismo organico le esclude. “Il centralismo democratico non si applicava nel PCI secondo gli stereotipi degli altri partiti comunisti e del blocco sovietico. Le correnti di opinioni infatti esistevano, e anche se non potevano essere definite frazioni, erano molto importanti, perché a differenza degli altri partiti italiani non nascevano dai contrasti di personalità o patronato, ma da vere differenze ideologiche di fondo” (4). L’analisi, desunta da un rapporto della CIA della fine degli anni ’70, è confermata da Emanuele Macaluso, il quale confessa che “il centralismo democratico non impediva il manifestarsi di diverse anime, quelle che già Togliatti chiamava «diverse sensibilità», in questo modo riconoscendole. Si trattò di un’articolazione di posizioni che poi, dopo la morte di Togliatti, si espresse ancora più nettamente. Fu un processo che esplose nell’11° congresso del 1966, quando si verificò il grosso scontro tra la sinistra di Ingrao e la destra amendoliana” (5). Le divergenze di valutazione sulle situazioni contingenti, che fanno parte della normale e sana vita di Partito, al contrario, non si articolano né tendono ad esprimersi in modo più netto, insomma non danno luogo alla formazione di diverse tendenze, ovvero di gruppi che la pensano allo stesso modo su un insieme di situazioni e problemi differenti, ma si risolvono e non possono che risolversi fraternamente, e cioè mettendo sul tavolo le Tesi del Partito e gli elementi di valutazione desunti dall’analisi delle situazioni a proposito delle quali la divergenza si è manifestata. Se le direttive fissate nelle Tesi sono realmente un patrimonio comune, le divergenze possono nascere infatti solo da un diverso apprezzamento della situazione contingente, apprezzamento che può essere anche molto diverso in funzione delle limitate informazioni che il singolo militante o la singola Sezione possono trarre da una visione parziale della realtà sociale. Da cui il nostro assunto dogmatico che nella vita di Partito, grazie alla doppia direzione, grazie alla omogeneità dottrinale ed al riverberarsi dal Centro alla periferia di una visione d’insieme della realtà contingente, le divergenze si superano. E, soprattutto, si superano da sé, senza forzature, senza combattimenti per “far passare” linee che spontaneamente non passano perché sono stridenti con tutto ciò che significa Comunismo e Rivoluzione. Si superano fraternamente, inoltre, il che non vuol dire con un dolciastro spirito ecumenico, atto a smussare e a conciliare le divergenze attraverso delle “mediazioni” diplomatiche, ma prendendole di petto con un atteggiamento mentale “aperto” da entrambe le parti, anche e soprattutto se una delle due parti è il Centro, con l’atteggiamento cioè di chi è disposto ad ammettere di aver torto ed a convincersi della correttezza dell’apprezzamento altrui, non certo con l’attitudine di chi è lì per imporre una soluzione precostituita ed è quindi pronto ad usare gli argomenti di fatto e di teoria non come degli strumenti di conoscenza, ma come delle granate da scagliare in faccia all’avversario, non importa se riflettono o meno fatti reali e buona dottrina, basta che esplodano e facciano male. Perché se lo scopo è per davvero comune e la strada per raggiungerlo anche, questo è l’unico modo di procedere, e se non si procede a questo modo significa che lo scopo per qualcuno è ormai un altro, e quindi è un’altra la strada da percorrere. Mettere sul tavolo le nostre Tesi significa magari anche ridiscuterle, se con questo termine si intende lo sforzo incessante di analizzarle per comprenderne l’esatta portata, e quindi di scolpirne i lineamenti in modo sempre più netto e tagliente, ma in ogni caso utilizzandole per verificare alla loro luce se questa o quella posizione politica rappresenta una effettiva applicazione di quel corpo unitario di direttive e quindi è conforme agli scopi per cui ci muoviamo e che lì si trovano fissati assieme alla via da percorrere per conseguirli. Perché fare diversamente, e cioè genuflettersi alle Tesi per poi gettarsi nel vivo della loro presunta applicazione senza neppure essersi degnati di compulsarle e di vedere che cosa di vitale e di ingiuntivo esse ci trasmettono, equivale a trasformarle ipocritamente, ancora una volta, in una “icona inoffensiva”. Il testo da cui sono state tratte le conclusioni che abbiamo prima esposto è un testo basilare del Partito, e non è affatto il risultato delle autonome e successive elucubrazioni “fiorentine”. A proposito di queste ultime va osservato che come l’antifascismo fu il peggior prodotto del fascismo, allo stesso modo il peggior prodotto della deviazione “fiorentina”, che prese l’avvio dalla esperienza del “sindacato rosso” ed alla quale mal si reagì allora prima con un inaccettabile provvedimento di espulsione (6) e poi con una “ghiacciata diffida” che ancor di più rompeva i ponti col centralismo organico, fu proprio l’antifiorentinismo becero di quanti nel Partito presero da allora in poi a spacciare per “fiorentinismo” la buona e sana tradizione del Partito allo scopo di giustificare il “Nuovo Corso” in fase di gestazione. La politica rivoluzionaria non si fa strada applicando etichette di comodo (7), e i problemi che il nostro movimento incontra sul suo cammino devono essere affrontati su ben altro terreno che non quello stalinista della definizione di sempre nuove confraternite di mestatori, per cui il metodo risorgente di appioppare etichette (ad es.: velleitarismo, operaismo, meccanicismo, attivismo) per esorcizzare i problemi va definitivamente rigettato: nell’uso di questi termini come degli anatemi, ossia nella immotivata applicazione di etichette prefabbricate rivivono infatti in forma farsesca le invettive di ieri contro la “cricca trotzkista-zinovievista” di turno. La Sinistra ci ha appreso invece che “da buoni marxisti non filistei, non bonzificati o bonzificatisi, la questione [cioè la risposta alle critiche] andrebbe messa così: la sinistra dice che l’Internazionale sbaglia. Per le ragioni a, b, c, inerenti al problema sollevato, dimostriamo che la sinistra stessa è invece in errore. Questo prova ancora una volta che l’Internazionale non ha commesso errori, ed è sulla buona via” (8). Altro metodo obliquo e da proscrivere per sempre è quello di inserire dei filtri e diaframmi sempre nuovi ed impreveduti tra i postulati dottrinali, cui ipocritamente ci si genuflette, e la prassi quotidiana. Si dice ad esempio che non è sufficiente la “ripetizione ossessiva” dei testi, che non basta copiare quello che essi dicono per essere in regola, che quel patrimonio bisogna anche comprenderlo ed assimilarlo con “l’umiltà e la pazienza” che possono essere conquistate solo nel “lavoro ordinato, sistematico e collettivo”, e cioè che bisogna comprenderlo ed assimilarlo come dicono loro e sotto il loro controllo, naturalmente, ovvero secondo un modellino in cui l’umiltà è richiesta ai gregari e la pazienza è richiesta ai professorini, in quanto, fuori da questo schema da scuoletta, i compagni finirebbero con … “l’abusare” dei Testi di Partito. Si dice inoltre che non è sufficiente riprendere in mano le fondamentali affermazioni codificate in tutti i testi del partito storico in quanto bisogna anche saperle davvero  applicare “nella maniera più intelligente possibile”, restando aperta la scelta di sostituire il termine “intelligente” con un altro dei seguenti aggettivi: duttile, creativa, adeguata alla realtà concreta…, in modo da riuscire ad annacquarle e a snaturarle; non ci possiamo inoltre accontentare di riproporre le parole d’ordine storiche del movimento operaio, perché le immiseriremmo, bisogna anche che le interpretiamo e le adattiamo alla realtà di oggi, in modo da svirilizzarle e renderle inoffensive, e così via. Gli opportunisti, come il capitalismo, sono pletorici, sovrabbondanti, non ne hanno mai abbastanza, vogliono sempre qualcosa di più. Sono affetti da una cronica crisi di sovrapproduzione delle fesserie, ragion per cui la Sinistra ha definito la nostra opera come il frutto di un piano di sottoproduzione delle medesime. E solo degli ingenui inguaribili possono sentirsi rassicurati dal fatto che costoro non vogliono togliere nulla alla sana tradizione del Partito e della Rivoluzione. Il guaio non è quando questi impostori vogliono toglierci qualcosa, il guaio è quando vogliono aggiungere qualcosa, quando vogliono somministrarci gratis il veleno nascosto nelle loro logomachie diarroiche. Non stiamo dicendo niente di nuovo: la Sinistra ha messo sempre in guardia soprattutto contro i creativi, gli innovatori, gli aggiornatori. Quando essi si insinuano tra noi, quindi, non possono più usare esplicitamente i termini sopra emarginati, che sono stati messi per sempre alla gogna. Quindi usano altri termini, che sono quelli che abbiamo ricordato in precedenza: le smanie interpretative, adattative, applicative, assimilative, di cui costoro, dal “Nuovo Corso” in avanti, ci hanno deliziato, non sono altro che il cavallo di Troia attraverso cui l’innovazione e l’aggiornamento della dottrina, buttati fuori dalla porta, vengono fatti rientrare dalla finestra. Sono la nuova forma fenomenica che il “marxismo” creativo ha dovuto assumere per insinuarsi nel corpo del Partito formale nato dal ceppo della Sinistra. Allora, ci si chiederà, a nulla servono le messe in guardia e i “paletti” tanto faticosamente drizzati dai nostri compagni della vecchia guardia? Ancora una volta, lo abbiamo sempre detto: essi non sono una ricetta capace di immunizzarci per sempre dalle ricadute. Ciò che conta è solo che il vaccino che la Sinistra ci ha instillato funzioni, facendoci reagire contro i nuovi opportunismi, rendendoci capaci di identificare e combattere contro le nuove forme della malattia di sempre. Accontentiamoci quindi, per ora, di aver identificato le nuove locuzioni che definiscono il traditore: traditore è colui che vuole sempre aggiungere qualcosa, è il saputello –bidellino o professorino che sia- a cui le vecchie parole vanno sempre bene ma non bastano mai perché vanno sempre integrate con altri ingredienti. E’ chi esordisce con il “non è sufficiente…”, oppure con il “non basta certo…”, oppure ancora con il “non possiamo sicuramente accontentarci …”. E’ colui che vuole sempre complicare ciò che è semplice, certo non immemore dei fasti della burocrazia statale borghese, che sui mille “uffici complicazioni degli affari semplici” da sempre campa e prospera. Comunista è invece quello che si accontenta. C’est bien simple … . Assodato che la lotta politica condotta dal Centro con l’appoggio di alcune sezioni tra il 1974 e il 1982 per far trionfare il “Nuovo Corso” contro la resistenza ostinata e tenace di una serie di altre sezioni del Partito è stata l’espressione del “percorso divergente di più classi”, si tratta ora di precisare meglio di quale lotta di classe quella battaglia politica è stata espressione, applicando anche al Partito ed alla sua storia il metodo materialistico-dialettico che ci contraddistingue. Ciò che allora si svolse non fu infatti solo la manifestazione della generica penetrazione di “posizioni opportuniste” nel Partito. Le idee non sono mai campate per aria. “Dovete spiegarci materialisticamente da quali interessi economici nasce il nostro presunto opportunismo”, sentenziavano infatti con beffarda arroganza nel 1983 gli artefici di “Combat”. Gli serviamo la nostra risposta “a freddo”, vent’anni dopo. Una vera e propria lotta di classe, infatti, nel nostro Partito vi fu, anche se in miniatura. Da un lato dello schieramento un Centro composto esclusivamente da intellettuali borghesi, supportato da una platea bolscevizzata anch’essa a base prevalentemente piccolo-borghese ed intellettuale (“transfughi” del movimento del ’68 e dintorni). Dall’altro lato dello schieramento, le Sezioni operaie del Partito: Ivrea, Torino, Torre Annunziata, Schio, Madrid. Ci mettiamo anche Ovodda, che non si oppose apertamente alla deriva, ma che silenziosamente scomparve dopo l’éclatement. Questa è la realtà dei fatti. Gli intellettuali borghesi insediatisi al Centro avevano infatti reclutato la loro “leva leninista”, raccattandola non tra il contadiname, come fece Stalin, ma tra il piccolo-borghesume urbano dei vari “gruppetti” studenteschi extra-parlamentari (Lotta comunista, Avanguardia Operaia ecc.) sulla base di una palese forzatura dei criteri per la formazione dei militanti, che approdava al disprezzo per la teoria marxista e per la sua necessaria assimilazione. Le posizioni politiche opportuniste sostenute dal Centro e dalla suddetta platea non erano lì per caso, come non sono lì per caso quelle in cui si condensa l’attuale rigurgito neo-stalinista. Erano lì perché rispondevano allora e rispondono tuttora non alle necessità dei proletari, ma ai bisogni di un’altra classe. Perché rispondevano al bisogno della categoria degli intellettuali piccolo-borghesi (9) di avere quante più truppe da manovrare fosse stato possibile, di disporre del maggior numero possibile di gregari da comandare e “dirigere” a proprio piacimento. I rifiuti dell’intellighentsia piccolo-borghese, come al solito, erano venuti per cercare la loro rivincita nel Partito proletario, sfruttandolo per i loro fini. Essendosi urtati in qualche spigolo del loro mondo, e quindi essendo animati da invidia e desiderio di vendetta nei confronti dei loro fratelli di classe meglio dotati e quindi inseriti appieno negli organigrammi del potere borghese, vennero a noi. Per rovesciare i meccanismi di quel potere? Per spezzarli con la forza della nostra Rivoluzione? Giammai. Essi vennero a noi, come sempre, per conquistarsi un gregge, per sfruttare i proletari-gregari (oltre che i gregari piccolo-borghesi come loro) in funzione dei loro propri interessi. Vennero cioè per utilizzare i gregari, le pecore, per l’appunto, come pecunia, ossia come merce di scambio utile a conquistarsi un posto all’interno di quell’ingranaggio capitalista da cui erano stati esclusi. Avere gente dietro di sé, è noto, è come avere denaro sonante. Io peso a seconda del numero di seguaci che posso far valere gettandoli su un piatto della bilancia. Ho milioni di organizzati: posso aspirare a diventare Primo Ministro o Presidente della Repubblica, o quantomeno un alto papavero dell’INPS. Ho quattro gatti dietro di me: posso aspirare a gestire la biblioteca comunale di Viggiù previo consenso del Comitato di Circoscrizione, oppure ad entrare nel comitato di redazione di qualche giornalucolo locale passando attraverso la porta di servizio. Quelli di loro che erano venuti per saccheggiare il tesoro del Partito, la sua dottrina, per poi utilizzarne dei brandelli a fini personali (pubblicazioni, acquisizione di titoli e ruoli accademici) furono in fin dei conti quelli che fecero meno male al Partito. Quelli che fecero più danno furono proprio quelli che del Partito vollero fare il loro proprio gregge e poi dall’alto (o dal basso) di tale posizione dettare le loro condizioni per rientrare nel gioco. Costoro hanno fatto più danno perché per realizzare tale obiettivo hanno dovuto manomettere la dottrina molto più insidiosamente dell’altra banda di profittatori. La teoria del Partito non è neutra. Non si piega alle esigenze dei vari Pastori di ingrandire il loro gregge quanto più è possibile per meglio contrattare un ruolo nell’ingranaggio del potere capitalista. Manomettere la dottrina conservandone l’apparente integrità, in nome della quale tenere unito il gregge, è quindi per costoro un’esigenza perentoria, insopprimibile. Volevate la risposta al quesito “allora diteci chi ci paga?” La risposta è che trasformando il Partito in un gregge vi siete pagati da soli in attesa di poter trasformare la merce in tal modo acquisita in un’altra merce. E facendo il vostro personale tornaconto avete distrutto il Partito, realizzando così l’interesse generale della società borghese. Ricordate il discorso di Adam Smith sulla mano invisibile che regola il mercato? Ricordate “Justine o le sventure della virtù”, in cui magistralmente il proto-comunista de Sade (che non a caso finì i suoi giorni nel manicomio criminale di Charenton) svelò l’arcano per cui solo l’egoismo ed il vizio fanno l’interesse generale della società borghese mentre il disinteresse e la virtù lo danneggiano? Lì sta la risposta che cercavate. Non è l’idiozia a guidare quanti compiono “con mano ferma” gli stessi errori che nel passato portarono il Partito alla catastrofe. E’ la determinazione inesorabile che scaturisce dal bisogno di allargare il gregge a qualunque prezzo e correndo qualunque rischio, perché non tentare di allargarlo, per costoro, esattamente come per i borghesi che devono allargare la loro nicchia di mercato o perire, significa avere già perduto in partenza la loro battaglia. Si è già accennato (Punto n° 13) alla necessità di un “cordone sanitario” per impedire che quanti non sono dei veri disertori affluiscano nelle nostre file. E’ il caso di aggiungere allora che per essere dei veri disertori non basta essere disposti a sacrificare la propria rispettabilità e credibilità, esponendosi al ludibrio del “bel mondo”. Bisogna innanzitutto possederla, questa rispettabilità e credibilità, per esporsi al rischio di perderla. Quindi: escludere non solo quelli che dal ludibrio si ritraggono, ma anche coloro che volentieri vi si espongono perché non hanno nulla da perdere in quanto sono i rifiuti dell’intellettualità piccolo-borghese. In altri termini: ci stanno bene anche i transfughi intellettuali, ma quelli dotati di qualche capacità, quelli cioè bene inseriti e remunerati, non gli sradicati gonfi di invidia, livore e bramosia di rivalsa. Ricordiamo ancora una volta le parole della Sinistra, che non ha mai usato le parole a caso: possono entrare nel Partito “qualificati esponenti delle classi possidenti”, se sono veri disertori, mentre “non vediamo i disertori” di cui parlava Marx tra la piccola borghesia intellettuale. Quanto alle responsabilità centrali, si tratta di rovesciare i criteri di cooptazione sinora adottati, e quindi di mettere in quarantena gli sgobboni e reclutare i lazzaroni.

1 “Forza, violenza e dittatura nella lotta di classe”, 1946-1948, par. V, in “Partito e classe”, pag. 116.

2 Premessa alle “Tesi dopo il 1945” (“In difesa della continuità del programma comunista”, 1970, pag. 131).

3 Il riferimento all’inconscio non va interpretato come il ricorso a categorie psicoanalitiche per leggere le crisi del Partito in termini di psicopatologia individuale: stiamo solo ripetendo pedissequamente la Sinistra, che nel 1913 affermava che gli intellettuali non vengono al Partito “quasi mai con la cosciente malafede di farsi un piedistallo politico”, cosa che, di regola, “vien dopo” (“Un programma: l’ambiente”), il che vuol dire che la spinta è di solito inizialmente inconscia e che tale rilievo non ha nulla né di freudiano né peggio ancora, di “esistenzialistico”. Intendiamoci bene, allora, a scanso di equivoci: questi signori non operano coscientemente nel senso sopra descritto, almeno all’inizio, e la loro malafede risiede in altri comportamenti ed emerge dal loro manovrismo. In questa fase storica, in cui il movimento proletario non attira certo folte schiere di falsi transfughi, non potrebbe essere altrimenti. Materialisticamente, è la loro reale natura e collocazione di classe che guida le azioni che compiono, e che sono finalizzate alla costruzione del loro personale piedistallo politico a spese del Partito, anche se in un primo tempo non se ne rendono nemmeno conto. A volte però, l’inconscio li tradisce; così come accadde ai dirigenti di un gruppo stalinomaoista che, a Parigi nel 1968, scrissero in un loro volantino che “gli operai sono avidi di potere” (sic!) . Singolare esempio di transfert. All’inconscio non si comanda!

4 “Sotto il velo del centralismo democratico anche i comunisti hanno coltivato la divisione in correnti”, La Stampa, 20.9.2003.

5 Ibidem.

6 Che di espulsione si fosse trattato nel 1973 (come poi in seguito), e cioè del ricorso ad un arnese democratico, di cui già il Partito aveva preconizzato la definitiva abolizione, lo dice la stessa “Ghiacciata diffida”, dove afferma che “dal Partito dipende la decisione […] di riammettere nelle file dell’organizzazione chi ne è stato, o se ne è, escluso” (il programma comunista, n° 5, 1974), ammettendo in tal modo che la ordinaria vita interna del Partito possa e debba ancora contemplare procedimenti di “esclusione” che in nulla si distinguono, se non nel suono della parola, da quelli di “espulsione”. L’ipocrisia continuò in forma ancor più grave quando si procedette all’espulsione della Sezione di Torino. La lettera centrale dell’Aprile 1981 infatti affermava: “Siamo noi arrivati a tanto [alla irrimediabile degenerazione, N.d.R.]? Noi lo neghiamo recisamente. La vostra lettera […] non meno recisamente lo afferma. Non possiamo che prenderne atto: per noi la vostra sezione ha cessato di esistere come sezione di partito, con tutte le conseguenze che sul piano organizzativo ne derivano”. Non si disse apertamente: “siete stati espulsi”, perché ciò avrebbe contraddetto in modo troppo stridente i nostri postulati in materia di organizzazione. Allora si ricorse all’espediente vile di sostituire il termine inaccettabile con un altro termine, che esprimeva la stessa sostanza, e si disse: visto che secondo voi siamo opportunisti, non ci prendiamo certo la briga di dimostrarvi mettendo sul tavolo le Tesi del Partito che così non è, che siamo sulla buona strada e che voi sbagliate per i motivi a b e c, ma si disse: prendiamo atto della vostra accusa, ce la mettiamo sotto i tacchi perché di essa nulla c’importa e cogliamo l’occasione al volo per significarvi burocraticamente che non esistete più come sezione del Partito, con tutto quel che ne consegue. Solo l’ipocrisia e il filisteismo piccolo-borghesi possono ravvisare una qualunque differenza tra questa cortese “messa alla porta” ed una espulsione! Gli attuali dirigenti, movendosi sulla linea incorrotta dell’ipocrisia di ieri, hanno inviato una lettera alla Sezione di Madrid (6.4.03) in cui, dopo aver ingannato il Partito affermando a più riprese che non si stava procedendo ad espellere nessuno, comunicavano altrettanto burocraticamente ai compagni di laggiù che, essendo “i chiarimenti politici preliminari a qualunque proclamazione di «internazionalismo formale e organizzativo»”, avevano deliberato che “finché non si siano raggiunti chiarimenti convincenti e completi […] è preferibile che sulla vostra stampa per il momento non compaia alcun riferimento a «il programma comunista»”. Dopo aver scagliato la pietra, i dirigenti, nuovamente, nascondono la mano, affermando senza arrossire a 22 giorni di distanza da quella lettera che “non è in corso alcun provvedimento di espulsione, come insinuato da qualcuno” (Circolare n° 2, 2003, del 28.4.03). Vergogna, vergogna, vergogna!! Non vi abbiamo espulso, vi abbiamo escluso. Non vi abbiamo espulso, abbiamo constatato che non esistete più come sezione di Partito. Non vi stiamo espellendo, vi diffidiamo ad uscire pubblicamente presentandovi come una Sezione di Partito. La tracotanza e la supponenza del piccolo-borghesume è davvero infinita e priva di qualsiasi senso del pudore, perché questi presunti “depositari della dottrina” ritengono di avere a che fare coi dei cretini ai sensi di legge.

7 Il malvezzo di applicare etichette porta al rischio che l’etichettatore di turno si ritrovi appiccicate addosso proprio quelle che aveva creduto di poter affibbiare ad altri; si dà il caso infatti che proprio dalla letteratura dei “fiorentini” si possa trascrivere questo passaggio: “E’ evidente che il sostenere la necessità di un’organizzazione di partito centralizzata e disciplinata implica, fra l’altro, una differenziazione gerarchica che vede i singoli militanti distribuiti in funzioni diverse e di diverso peso. Ci devono essere nel partito i capi e i responsabili per le diverse funzioni. Ci devono essere coloro che comandano e coloro che eseguono gli ordini e ci devono essere organi differenziati adatti a svolgere queste funzioni” (“Il Partito Comunista nella tradizione della sinistra”, 1974, Cap. 3 – Differenziazione di funzioni, Ed. Il Partito Comunista, pag. 35). Anche sulle rive dell’Arno, quindi, e non solo sui navigli meneghini, il buon concetto secondo cui nel Partito “nessuno comanda e tutti sono comandati” si è perso per la strada. Ma anche peggiore è il passaggio che rivendica le espulsioni, per la Sinistra arnese democratico per eccellenza: “quando si è nell’organizzazione si è tenuti all’osservanza della più ferrea disciplina nell’esecuzione degli ordini centrali, ma la trasgressione a questa regola non può essere eliminata dal centro se non attraverso la espulsione dei trasgressori. Il centro non dispone, per farsi obbedire, di altre sanzioni materiali” (Ibidem, pag. 75). Il fatto è che, purtroppo, da una parte e dall’altra, un testo di Partito fondamentale per la comprensione del centralismo organico, come “Origine e funzione della forma partito”, anche se non è stato mai formalmente rigettato, è caduto tuttavia in un silenzioso ma totale oblio. Infatti in uno studio di 278 pagine sul Partito, come quello sopra riportato, non compare una sola citazione tratta da quel testo, da noi viceversa utilizzato nella stesura di questi “Punti”. Non si tratta di una dimenticanza casuale, naturalmente, in quanto vi si riflette il fatto che sia i “fiorentini” sia i dirigenti dell’attuale “programma comunista” sia quelli de “il comunista/le prolétaire” sono tutti figli legittimi del “Nuovo Corso”, anche se i “fiorentini” ne hanno condiviso solo l’incipit, rappresentato dalle “Tesi sindacali” del 1972.

8 “Il pericolo opportunista e l’Internazionale” (L’Unità, 30 settembre 1925).

9 Quando diciamo “intellettuali borghesi insediati al Centro” intendiamo dire ovviamente “intellettuali borghesi che non hanno rinnegato la loro collocazione anagrafica”. Che di tale natura sia anche l’attuale scampolo della trascorsa lotta di classe che attraversò in Partito all’epoca dell’instaurazione del “Nuovo Corso”, insomma che di quella pasta sia fatto anche l’attuale Centro e la platea bolscevizzata che ad esso applaude non lo diciamo noi. Lo dicono loro. Lo dicono attraverso lo stile inconfondibile che riverberano nella loro prosa, che è lo stile professorale. Ad esempio, dopo aver spiegato che cosa è la dialettica, i nostri dirigenti sentono il bisogno di aggiungere: “scriviamo tutto ciò con un certo imbarazzo, e non lo nascondiamo: perché riteniamo che su questa questione, come su molte altre sorte negli ultimi tempi, non si dovrebbe nutrire esitazione alcuna” (Circolare n° 2, 2003, pag. 2). Altro scampolo di prosa professorale: “Abbiamo dovuto stigmatizzare molto severamente [matita rossa? No, matita blù!!] un’incipiente polemica sulla «presenza degli intellettuali nel P.»: per chi è saldamente sul terreno della Sinistra, la questione dovrebbe essere chiusa fin dal 1848 [ragazzi, che diamine, siete arrivati in quinta e dobbiamo ancora stare a spiegarvi queste cose?]” (Circolare n° 2, 2002, pag. 3): le polemiche non sono l’occasione per chiarire, ma per stigmatizzare, per dare bacchettate sulle dita, quindi non si permette certo che si sviluppino, ma le si stronca quando sono ancora “incipienti”: i ragazzi “bene educati”, infatti, non devono chiedersi troppi perché, altrimenti perdono la necessaria riverenza verso i Maestri e, di riflesso, verso chi comanda anche fuori dalle aulette scolastiche. A proposito dell’adesione al Partito si afferma che “per coloro che hanno un passato di adesione o di condivisione con il comunismo” (non si dice: “per gli ex-militanti del Partito che se ne sono in passato allontanati per un motivo o per l’altro”, perché sarebbe troppo semplice, capirebbero tutti , ma si dice: “per coloro che grazie ad un viaggio nel futuro hanno condiviso non già la vita di Partito, perché sarebbe ancora una volta troppo banale, ma … il comunismo”, e ciò senza neppure prendersi la briga di spiegare che lo si dice nel senso che la vita di Partito è un’anticipazione del comunismo), per costoro il metodo di avvicinamento deve essere “ancor più duro nell’applicazione maieutica”, ma ancora una volta lo si dice senza spiegare che cos’è la maieutica, come se fosse un termine abituale nella nostra tradizione, in modo tale che chi non ha studiato filosofia non capisca nulla. E che dire della preconizzata “battaglia teorica per un maneggio sempre migliore della dialettica” (Circolare n° 1, 2003, pag. 4), se non che è la pratica a verificare se si è capaci di maneggiare la dialettica, e non certo una sedicente “battaglia teorica per la dialettica”, in cui i vari professorini di “marxismo non aggettivato” possano correre ad arruolarsi? E’ ovvio quindi che gli attuali dirigenti vadano in bestia se si parla di “professorini” (“ma da quando in quando ha posto dentro alla tradizione del nostro partito la polemica sui «professorini»?!”, si esclama ad esempio nella Lettera del Centro a Schio 24.12.02, pag. 3, dimenticandosi completamente la polemica della Sinistra contro i “bidellini”). Ma non è logico che a tale constatazione si opponga la solita questione dei “transfughi” da parte di elementi che, come si è dimostrato prima, sono professori, ragionano da professori e parlano da professori.

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