CONTENUTO ORIGINALE DEL PROGRAMMA COMUNISTA È…

Riproponiamo un corposo stralcio di testi scritti a cavallo degli anni 50 e 60,  pubblicati all’epoca su ‘il Programma comunista’, e successivamente riproposti in una raccolta (agli inizi degli anni 70). Nella sezione del sito denominata ‘Testi marxisti’, il lettore troverà il file pdf , di oltre ottanta pagine, contenente la miscellanea integrale da cui sono state tratte le pagine seguenti.  

CONTENUTO ORIGINALE DEL PROGRAMMA COMUNISTA È L’ANNULLAMENTO DELLA PERSONA SINGOLA COME SOGGETTO ECONOMICO, TITOLARE DI DIRITTI ED ATTORE DELLA STORIA UMANA

Marxismo e proprietà

Un tema che ci ha frequentemente occupati è quello della formula che giustamente contrappone nel programma comunista l’epoca storica post-borghese a quella attuale. A questo tema fu dedicato il vecchio studio di Prometeo, prima serie, su Proprietà e Capitale. Discutemmo, e vi tornammo sopra a fondo nella ultima riunione a Torino, la formula di propaganda più comune del socialismo antebellico: abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione (e di scambio). La parentesi la mettiamo perché così è in un testo di Engels indicato. Il sostantivo abolizione non è stato mai soddisfacente. Sente di atto di volontà e va bene per gli anarchici, e (logicamente) per i riformisti. L’aggettivo privata pone il dubbio se il rapporto, che si definisce proprietà, debba nella società comunista scomparire, o solo cambiare di soggettoNella ricerca di questo soggetto nuovo sta in fondo tutta la base delle deviazioni e dell’immediatismovecchio e nuovo, filisteo sempre. Passerà la proprietà dal privato (nella volgare accezione: grosso padrone) a gruppi di produttori, a distretti di produttori-consumatori, allo Stato, a categorie professionali o addirittura a sottoclassi sociali?

La nostra ricerca svolta a Torino e nei Corollarii su queste pagine (V. nn. 13, 14, 15, 16 e 17) condusse

alla tesi che non deve sopravvivere nessun soggetto della proprietà, come nelle storicamente sterili ideologie piccolo borghesi; e non deve sopravvivere nessun oggetto: mezzo di produzione o scambio, terra, impianto fisso, o bene di consumo, nemmeno individualePoiché le formule orecchiate hanno una resistenza terribile, i Corollarii furono dedicati a svolgere la prova che questa non è una tesi nuova, ma come sempre quella classica del marxismo, e lo facemmo con luminose pagine di Engels e di Marx. Spingemmo la dimostrazione fino a stabilire, su di un passo basilare del Terzo Libro del Capitale, che il comunismo non è nemmeno definibile come proprietà della terra portata dal singolo alla Società, perché il rapporto tra la società e la terra, ove proprio lo si voglia indicare con un termine del sistema giuridico convenzionale, non è di proprietà ma di transitorio  usufruttoMa forse taluno può pensare che esistano enunciazioni di Marx che fanno salva la proprietà personale, individuale, sui beni di consumo, almeno del lavoratore salariato che certamente non la ha tratta dal frutto di lavoro altrui. Va mostrato che un tale modo di ragionare non poggia sul marxismo ma su una vaga e infeconda filosofia dello sfruttamento che sta alla base di molti odierni falsi sinistrismi (vedi lo Chaulieu di Socialisme ou Barbarie, come teorico non improvveduto ma condannato nella triste cerchia immediatista).

Per il marxista ogni merce della società attuale è Capitale – in quanto il Capitale non è che la massa delle merci che circolano; siamo all’Abc! – e contiene una frazione di plusvalore, di lavoro estorto e non pagato. Chi con danaro compra e consuma quella merce si appropria lavoro altrui, anche se nel ciclo produttivo altri si sono appropriato il suo.

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L’uomo e la natura

Il brillante brano di Marx di cui il relatore ebbe a servirsi allo scopo di elucidare quistioni di economia e di storia sociale, portando in argomento il tema suggestivo dei rapporti tra individuo e società nel loro svolgimento, e quello della possibilità di una scienza umana (non individuale ma collettiva e di partitoqui il punto cruciale) di stabilire leggi della storia avvenire, condusse sul terreno che comunemente si dice filosofico, e dette luogo ad alcune critiche del relatore ad interventi e riferimenti di marxisti (ma di pianta stalinista, ahimé) nel coevo congresso di filosofi a Venezia.

Noi sosteniamo che sia possibile l’indagine sulle leggi della società futura in quanto diamo alla scienza della società umana, per quanto sia essa solo al suo inizio, le stesse capacità che alla scienza della natura, la quale già all’inizio del tempo borghese, quattro secoli addietro, era in piena fioritura.

Con ciò il marxista ha superata la reverenza per una barriera invalicabile tra le forme della conoscenza dei fatti della natura e quella dei fatti umani. La nostra pretesa di descrivere la società futura si fonda su quella dell’astronomo di prevedere le eclissi, fatto bene antico, ed anche le fasi millenarie della vita di una stella o di una nebulosa.

La filosofia della storia non ha ragione di essere diversa dalla filosofia della natura; e ciò più correttamente si esprime dicendo che, quale che sia il diverso grado di sviluppo, scienza della natura e della storia si servono degli stessi metodi di indagine, per lo scopo unico di stabilire uniformità di eventi passati ed attuali, e da tanto assurgere a previsione di eventi futuri.

Ciò non si reggerebbe se si tollerasse la estraneità di due mondi, quello della natura materiale e quello dello spirito. In base a queste distinzioni elementari tutti i marxisti che hanno trattato di filosofia e di critica delle filosofie convenzionali del mondo borghese si sono proclamati monisti, in quanto materialisti. Filosofia monista potrebbe essere anche quella basata sul solo mondo dello Spirito, di cui quello materiale sia considerato una emanazione o (cosa meno astrusa delle altre) una creazione. Si dicono invece dualisti i sistemi che tengono due mondi in piedi di fronte e distinti. Marx ed Engels si dissero monisti di fronte ad Hegel e all’idealismo tedesco, Plekhanov e Lenin ne rivendicarono la posizione dinanzi a più recenti filosofi borghesi e a contorcitori del marxismo classico anche sul piano filosofico.

Ma i cosiddetti marxisti del Congresso di Venezia ostentano di non essere “monisti” e attribuiscono tale qualifica al “materialismo volgare e borghese”. Il materialismo di Marx è detto, con termine che piacque a Stalin, dialettico, e secondo tali orecchianti la dialettica c’entra in quanto concede, di fronte al mondo della natura, una posizione autonoma e contrapposta al mondo dell’uomo.

Uomo e natura era uno dei temi di Venezia; e ciò avrebbe condotto a parlar molto di marxismo: ma di quale marxismo? A dire di una relazione dell’Unità di settembre, il Congresso si sarebbe orientato contro la tendenza a risolvere i due termini l’uno nell’altro, “la natura nell’uomo (idealismo) o l’uomo nella natura (meccanismo o materialismo volgare)”. La concezione che oggi è “alla moda” avrebbe stabilito che i due termini sono “correlativi”, e di questo il marxismo sarebbe la più vivace se non l’unica (sic!) espressione.

Il solo fatto che un giornale che si dice marxista vada a cercare successi in un simposio di filosofi ufficiali e professionali basta a spiegare come si sia in presenza di una tremenda confusione di principii.

La dialettica è invocata a torto per far passare il contrabbando che il settore dei fatti umani si contrapponga dall’esterno al settore dei fatti naturali; e questa non è che una passerella alla confessione che non si deve ammettere che cause naturali determinino i processi umani, e vale introdurre quindi fattori non materiali di cui l’uomo pensante è portatore e che trasformano il mondo.

Ciò vale ammettere che la natura si plasmi su modelli che hanno fatta la loro prima apparizione nel Pensiero, ossia nello spirito, e vi trovano tutta la loro genesi. Il gioco della dialettica va invece posto in ben altro rapporto: non tra natura ed uomo, ma in quello tra società umana ed individuo singolo.

Tutte le ideologie che vogliono portare innanzi l’uomo rispetto al mondo fisico, e dargli su questo un imperio, che lo liberi dalla determinazione, anche dove non lo dicono, non pensano all’Uomo specie, ma all’uomo persona. Tutti gli idealismi sono individualismi. Tutti i Croce che dicono che sola origine della scienza è nell’atto del pensare ammettono come campo di ricerca la mente ed il cervello, che è di un uomo singolo.

I vari materialismi

Che cosa intende dire Marx quando parla di materialismo volgare in contrapposto al suo materialismo storico? Qualche cosa di analogo a quando contrappone la economia volgare alla precedente economia classica, sebbene borghesi entrambi. Il materialismo volgare non è quello di prima, ma di dopo la Rivoluzione Francese. Nell’Enciclopedia vi è un materialismo filosofico che Marx chiama appunto classico, e a cui attribuisce la potenza di condurre dalla distruzione di ogni fideismo nella natura a quella del fideismo e spiritualismo nella società umana. Ma la vittoria della società capitalistica ferma questi sviluppi dottrinali classici, e riduce la scienza economica all’economia volgare, che dissimula la estorsione di plusvalore e pluslavoro come riduce il materialismo classico di Diderot e di d’Alembert ad una filosofia volgare che non intacca la dominazione borghese e apologizza la oppressione economica dopo avere condannata quella culturale e giuridica. Il materialismo volgare come lo intende Marx è quello che si sviluppa poi nel positivismo oggi giustamente dileggiato e scientizzante degli Spencer, Comte, Ardigò e varie versioni nazionali, che adescarono decenni addietro i socialisti revisionisti anglolatini, mentre l’idealismo vecchio stile adescava i tedeschi e russi.

Cercheremo di indicare più linearmente la distinzione tra materialismo volgare e materialismo marxista.

Ammettiamo che in entrambi siano posti a base e sottostruttura i fatti materiali, e dalla loro dinamica si voglia indurre la scienza dei fatti e comportamenti umani e la spiegazione delle umane opinioni ed ideologie. La miopia del materialismo volgare sta nel porre questa relazione nel campo chiuso dell’individuo umano.

Per il materialismo storico nostro, termine che Marx considerava equivalente a quello di determinismo economico, la quistione è sollevata al campo di tutta la società e della sua storia, e la ricerca non verte più sul comportarsi e il pensare del singolo, ma sull’attitudine e la ideologia delle classi sociali e delle forme che si succedono nella storia.

Il determinismo dei positivisti si riduce ad una causazione tra fisiologia e psicologia; quello dei materialisti marxisti parte dalla economia sociale per costruirvi la spiegazione del diritto, della religione, della morale e anche della filosofia delle successive epoche.

La prima veduta è sterile ed insufficiente ed inoltre si avvia su un percorso oscuro e senza fine. Essa tiene come noi conto dell’effetto dell’ambiente fisico esterno all’uomo, ma in mille irreducibili peculiarità, mentre a noi interessano circostanze e relazioni generali come quella tra un clima geografico e l’adattamento e comportamento che induce nel popolo che ci vive, come media costante per tutti i singoli.

La scienza è molto molto lontana dal poter stabilire dai dati fisici dell’ambiente in cui vive un organismo umano, e dal… menù delle vivande che gli sono servite in tavola, la generazione dei pensieri nel suo cervello; in quanto ancora non è scoperto il legame che unisce i sistemi vegetativi e neuro-psichici. Ma nel nostro materialismo noi riteniamo di poter trattare con rigore scientifico, ossia con buona riduzione degli effetti dell’errore, la relazione causale tra le condizioni materiali di vita di una collettività umana, come rapporto con la natura e rapporti tra uomini (tra classi sociali) e i caratteri della sua organizzazione politica giuridica e così via.

La differenza tra i due materialismi non sta dunque nel fatto inventato che Marx abbia decampato dal terreno monista per stabilire la vuota parità dignitaria tra natura ed uomo, specie di neo-dualismo, ma nel criterio fondamentale che noi non passiamo per la inafferrabile determinazione che gioca nel singolo organismo e cervello personale, non cerchiamo la vuota fantasima della “personalità”, ma fondiamo la relazione sulle condizioni materiali di una comunità sociale e tutta la serie delle sue manifestazioni e sviluppi storici.

Su questa base noi riteniamo fondatamente e con ricchezza di prove storiche che nulla è l’influenza di

una personalità sulla vicenda sociale, e che la storia e la sociologia umana vanno considerate come uno dei campi di descrizione in cui è lecito considerare ripartita la conoscenza della natura, senza che una tale distinzione e separazione abbia valore preminente davanti a tutte le altre; per il che è ben giusto dire che nella dottrina marxista la scienza della società umana è compresa in quella della natura materiale, anzi la seconda nella sua costruzione deve giocoforza precedere la prima.

Perché materialismo dialettico

Fermo restando che il materialismo dialettico è stato assai malamente presentato da Stalin nel suo libro, avente la sola mira di giustificare, con concessioni ad un aberrante volontarismo storico, la pretesa di costruire socialismo artificiale nella Russia isolata ed arretrata, possiamo chiarire ora in quanto si può ammettere la espressione di materialismo dialettico come totale equivalente di materialismo storico.

Non si deve intendere che la dialettica consista nel dire: l’economia fa la politica, ma poi la politica (bassamente ridotta a prassi di stato) rifà a suo modo l’economia. Questa è una inversione di tesi e non la sintesi di una tesi e di una antitesi feconde. Marx ha detto che gli uomini fanno la loro storia, vecchia obiezione di rimasticatori scarsi. È certo che la fanno, colle mani coi piedi e con la bocca anche, e con le armi; materialmente la fanno, ma quello che noi neghiamo è che la facciano con la testa, ossia che siano a tanto di “costruirla” (termine esoso e da imprenditore borghese) su di un modello, o progetto, tutto pensato. La fanno sì, ma non come credevano e sapevano di farla, né come prevedevano e desideravano. Ecco il punto.

La dialettica sorge nel chiedere: questa impotenza, questo negato libero arbitrio umano, concerne l’individuo o concerne anche la società umana?

La risposta marxista è qui classica. Il soggetto personale, e a più forte ragione nelle società a struttura individualista, è immerso nel massimo di quella impotenza a prevedere ed a guidare. In queste società, e soprattutto in quelle la cui ideologia è bolso liberalismo, più il singolo riveste un grado alto della gerarchia, più è una marionetta tratta dai fili deterministi. Anche la società come un tutto, e fino a quando è una società divisa in classi non possiede visione e direzione del proprio avvenire; in essa nel corso della storia gli interessi delle classi che si scontrano si rivestono di previsioni (profezie) e di ideologie in contrasto, ma non arrivano alla potenza di prevedere e di preparare il futuro. Quella sola classe, presente in questa società capitalista, che ha interesse alla abolizione della società divisa in classi, può aspirare alla capacità di lottare per tale fine e di averne nel suo seno una conoscenza ed una visione, e questa classe (il marxismo scoprì), è il moderno proletariato.

Ma fino a che questa classe vive nella società capitalistica la visione cosciente del suo avvenire non può aversi in ciascun suo membro, e nemmeno nella sua totalità, ed è solo sciocco pretendere tale coscienza e volontà nella maggioranza di essa; questa idea non è che uno dei tantissimi derivati borghesi che intorbidano le menti dei proletari e che solo un seguito di generazioni potranno cancellare.

Quindi un singolo non può assurgere alla visione della società comunista per effetto del riflesso delle sue convenienze ed interessi personali; questo sarebbe materialismo volgare. E nemmeno può concentrare in sé la visione della classe e il futuro della società umana se non come convergenza delle forze di classe.

La contraddizione è che l’uno non può e la collettività neppure; e ciò condurrebbe alla impotenza eterna non solo di volere il futuro, ma di prevederlo.

La uscita dialettica da questa doppia tesi (che il proletariato può e non può, è la prima classe che tende alla società aclassista, ma non ha la luce che alla specie umana risplenderà dopo la morte delle classi) sta nel doppio passo contenuto nel Manifesto dei Comunisti: primo tempo: partito; secondo tempo: dittatura. Il proletariato massa amorfa si organizza in partito politico e assurge a classe. Solo facendo leva su questa prima conquista si organizza in classe dominante. Egli va alla abolizione delle classi con una dittatura di classe. Dialettica! La capacità di descrivere in anticipo e di affrettare il futuro comunista, dialetticamente non cercata né nel singolo né nell’universale, è trovata in questa formula che ne sintetizza il potenziale storico: il partito politico attore e soggetto della dittatura.

Determinata passività del singolo

La tesi che abbiamo stabilita mette al loro posto il materialismo volgare o borghese e quello comunista. Il primo gioca, anche nella origine classica, sulla persona. Quando il francese d’Holbach dice “nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu” ossia: nulla è nell’intelletto che non sia prima stato nel senso; egli stabilisce una relazione diretta tra la influenza materiale della natura sull’individuo e le sue manifestazioni mentali, le sue opinioni. Questo era, anche per Marx, un passo avanti, perché permetteva di superare il fideismo, secondo il quale nella mente di ciascuno vi è un dato innato (anima) che viene dalla divinità; ed anche il contemporaneo idealismo sassone per il quale, anche facendo a meno del dio, un substrato ideale che non si sviluppa dalle materiali sensazioni si trova collocato in tutte le teste. Ma la posizione del materialismo borghese è enormemente indietro rispetto alla nostra. La relazione, in Marx, si stabilisce tra la condizione materiale media in cui vive un determinato agglomerato sociale e le sue corrispondenti manifestazioni nei campi dell’intelletto, che sono ritenute come religione, ideologia, arte, cultura, politica. La passività dello “spirito” rispetto alla materia nella singola persona resta per noi fatto assodato, ma la sua meccanica resta irraggiungibile alla scienza del tempo capitalistico, oggi in piena crisi degenerativa, che la ha vanamente inseguita. Il pensiero ufficiale, e peggio nei congressi filosofici, non possiede la chiave dialettica per spiegare le sue contraddizioni. Per il fideista Dio ha meso tutto a posto nella testa dell’uomo (come in ogni angolo della natura fisica che lo attornia), ma al primo è data una persona, col suo libero arbitrio nell’opinare e nel comportarsi, ed una responsabilità (inevitabile complemento del fastidioso feticcio: la personalità), e quindi il sistema di premi e di castighi. Il borghese ateo in un primo tempo gettò giù il libero arbitrio e aggiogò la testa allo stomaco, ma siccome, per dirla in breve, la sua nuova “forma di produzione” aveva bisogno di stomaci vuoti, autorizzò a pensare ed opinare i relativi cervelli, e fondò il sistema della democrazia elettiva generale e della responsabilità giuridica, arrivando a fare del suo Stato di classe dominante l’Assoluto etico sociale. La cultura moderna, in cui confluiscono bassamente i disertori della rivoluzione, oscilla tra questi due fantocci di cartapesta: il singolo responsabile, e lo Stato etico cieco. Noi riteniamo il risultato della passività incosciente del singolo, ma nel nostro determinismo la previsione e la verifica non pretendiamo averle alla scala individuale. Le dimostriamo nel campo sociale con la analisi storica (ed economica), e non escludiamo che la regola media generale sia contraddetta in casi singoli svariatissimi, senza che ciò intacchi la nostra teoria. Non cerchiamo la prova del determinismo nelle opinioni che stanno nella testa degli uomini presi uno per uno, né la sua rottura nella coscienza volontà ed iniziativa di azione di persone, minime o massime. La rottura tuttavia viene, e in generale nella storia ha sempre nel fatto preceduta la sua esatta coscienza teorica. La rottura che seguirà la determinazione dell’epoca borghese, per cui le vittime del sistema pensano con la ideologia propria di esso, in generale, verrà, ma per la prima volta nella storia (e quindi non per effetto innato nell’atto creativo divino o nella immanenza della Idea) – ed in ciò il “rovesciamento della praxis” – con la comparsa di un soggetto conoscente, volente ed agente di sua iniziativa che non è una persona, ma il partito rivoluzionario. Questo esprime la organizzazione della classe proletaria moderna, ma più che rappresentare la classe in un senso borghese di delega democratica, la rappresenta nel suo programma e nella sua futura attuazione, rappresenta la società comunista di domani, e questo è il senso del salto (Marx-Engels) dal regno della necessità in quello della libertà, che non compie l’uomo rispetto alla società, ma la Specie umana rispetto alla Natura.

Potente ortodossia

Negazione dell’individuo, affermazione dell’Uomo Sociale, della Specie uscita dalla sua travagliosa preistoria. Si tratta di continuo, e senza accusare stanchezza, di mostrare che la tesi è quella originaria della scuola marxista, e che essa sgombra il campo da tutti gli ostinati e infetti immediatismi, la cui comune diagnosi è la paralisi della dialettica, universale e non contingente e pettegola, propria del marxismo rivoluzionario. Per il primo effetto rifacciamoci al brano più classico di Marx, nella prefazione alla Critica dell’Economia Politica. Quando noi facciamo entrare in campo, al posto dell’individuo, il complesso degli uomini, non facciamo solo una integrazione quantitativa, dall’uno ai molti, e saremmo per dire spaziale, ma anche temporale. La vita della specie non ha limiti temporali comparabili a quelli della caduca Persona; e nel marxismo la Produzione non conserva solo il singolo animale uomo ma è un anello della sua Riproduzione. Lo stesso citato filosofo barone (uscito come persona dal suo determinismo di classe feudale) non avrebbe esclusa l’ereditarietà: ogni cervello non pompa solo dalle sensazioni della sua vita, ma anche da quelle dei progenitori. Ciò è del tutto scientifico; ma non lo è meno la constatazione, più che materialista, che ciascuno pensa anche col cervello degli altri, anche conviventi. Sarà brillante dire che il cervello è una glandola che secerne il pensiero, ma in questo non siamo materialisti volgari, e non aspettiamo chi scopra l’ormone-pensiero; per noi, veri materialisti, vi è un cervello collettivo, e l’Uomo Sociale vedrà uno sviluppo, ignorato dalle antiche generazioni, del Cervello Sociale. Ma che si pensi colla testa degli altri è un fatto positivo antico e contemporaneo.

“Nella produzione sociale della loro vita gli uomini accedono a rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà; rapporti questi di produzione i quali corrispondono ad un grado determinato della evoluzione delle forze produttive materiali”. Il testo segue definendo come base questi rapporti di produzione che costituiscono la struttura economica della società.

Su tale base reale “si eleva la superstruttura giuridica e politica, cui corrispondono determinate forme della coscienza sociale”. Come nella nostra fedele ricostruzione, la persona sulla scena non è apparsa affatto. Non è la posizione economico-sociale dell’individuo che determina la sua ideologia; questo è stato detto tanto spesso quanto male: la formula di Marx è: “il modo di produzione della vita materiale condiziona il processo della vita sociale, politica e spirituale in generale”. Segue la nota presentazione del contrasto tra le forze produttive e le forme di produzione o rapporti di proprietà; o teoria delle rivoluzioni (di tutte le rivoluzioni). A questo punto la critica investe in modo lapidario, dopo aver messo fuori causa la coscienza della persona e quella di ogni data società, la stessa “coscienza che la rivoluzione ha di sé stessa”. Il testo dice: “Come non si giudica un individuo secondo ciò che egli pensa di essere, così non si possono giudicare le epoche di sovversione (e, aggiungiamo noi, a maggior ragione quelle di conformismo) dalla coscienza che esse si formano di sé stesse“.

Ove, poco oltre, Marx, dopo avere elencata la serie classica dei modi storici di produzione, enuncia che con la forma borghese “si chiude la preistoria della società umana”, in quanto le forze produttive sono divenute tali da consentire di risolvere l’antagonismo tra rapporti e forme di produzione, ossia di passare ad una società senza classi; è precisato che quei rapporti borghesi, ultimi ad essere antagonistici, lo sono “non nel senso dell’antagonismo personale e subiettivo, ma nel senso di un antagonismo risultante dalle condizioni della vita sociale degli individui”.

È dunque rigorosamente classica la nostra riduzione a zero del fattore individuale nella storia, nelle rivoluzioni, e nella rivoluzione comunista. E la eliminazione della persona singola come soggetto di azione rivoluzionaria, e perfino di antagonismo sociale (lotta di classe).

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La posizione marxista

Il primo tema del Congresso che una schiera di professorissimi teneva a Venezia aveva dato lo spunto alla nostra piccola riunione di Parma per mettere in luce viva la nostra tesi antindividualista che scioglie i nodi dell’antico imbroglio tra monisti e dualisti, tra materia e spirito. Il secondo tema, a parte le palesi attinenze tra i due, ci offrì l’agio di ribadire la nostra tesi antimercantilista. Come la nostra rivoluzione sola e prima compirà il saltus fuori dal personalismo, così sola e prima farà quello che va fuori di un’altra peste multiforme: il mercantilismo.

La categoria valore, oggi in gran moda, non è che la vuota sovrastruttura della base economica valore di scambio, propria delle economie di mercato. Noi non ci schieriamo nel corteo dei cercatori di valori nuovi, o tampoco alla testa di esso. Quando il prodotto del lavoro umano ed il lavoro stesso non avranno più come finalità lo scambio con altro prodotto, o col tramite monetario, e il lavorare e il produrre avranno fine e gioia intrinseca senza barriere nel consumare, allora non resteranno valori ideologici intorno a cui blaterare letterariamente o congressualmente. Come la categoria libertà, che storicamente ha avuto sempre il significato di lotta di uomini contro uomini oppressori, perderà il suo senso soggettivo in una società senza antagonismi, perché senza lavoro venale, e la libertà non avrà più per soggetto la persona o la classe oppressa, ma l’Uomo Sociale che non potrà perderla oltre i limiti della naturale necessità fisica; così la categoria valore svuotata nel campo economico sparirà come tema diverbali esercitazioni, dietro le quali vi è il nulla.

Possiamo leggere poche pagine più oltre la nostra Critica dell’Economia Politica:

“Come attività adeguata per l’appropriazione della materia in una forma o nell’altra, il lavoro è la condizione naturale dell’esistenza umana, è una condizione per attuare il ricambio materiale tra l’uomo e la natura, indipendentemente da tutte le forme sociali. Al contrario il lavoro che crea valori di scambio è una specifica forma sociale del lavoro“.

Il testo dà l’esempio del sarto che produce abiti, ma non produce valore di scambio, nella sua qualità di lavoro specifico, ma lo produce oggi come lavoro astrattamente generico, il quale è proprio di un certo nesso sociale (mercantilismo artigianale o capitalistico) “che non è stato cucito con l’ago del sarto”.

Nella antichità i tessitori producevano l’abito senza produrre il valore di scambio dell’abito, aggiunge Marx. E noi aggiungiamo sicuri: nella società comunista si produrranno gli abiti, come ogni altra cosa, senza produrre valori di scambio. Socialismo – sempre il dialogo con Stalin! – è l’economia senza valori di scambio (nello stadio inferiore e nel superiore). Se dunque i marxisti nella loro concezione espellono il valore dalla struttura economica di base, quali valori restano loro da perseguire nella sovrastruttura? Ove un valore economico sorge, per la legge di scambio per un altro soggetto esso è scomparso. Si forma valore dove si forma sopraffazione. La stessa abolizione dello sfruttamento economico è formula (vedi sopra) inadatta e incompleta storicamente; e noi diciamo più esattamente che si tratterà di abolizione di ogni valore di scambio e di ogni produzione di valori dal lavoro. Se non se ne produrranno dal lavoro, quali valori dovranno essere superstiti nella sfera, che abbandoniamo ai filistei, della ricerca “filosofica”? In conclusione il binomio libertà e valore echeggia con un certo significato nel solo ambiente di una società, come la presente, in cui la fregatura dell’uomo da parte dell’uomo sia, non diciamo un incidente più o meno criminale, ma la ragione stessa intima della sua struttura nel produrre e nel consumare, e quindi nel pensare.

La ricerca della libertà e del valore dunque non interessa il marxismo rivoluzionario, che nella dottrina del suo partito imposta la lotta del proletariato in modo assolutamente diverso da una qualunque partecipazione ad un concorso universale per una nuova formula in questa serie ingannevole, che le società antagoniste hanno offerto agli uomini nelle vicende della loro preistoria. Questa serie nella presente epoca borghese vede il suo termine, a cui non già resta da salire un solo scalino, ma che è il più nemico ed ostile, ed il più meritevole di una totalitaria distruzione, e negazione spietata di tutti i valori mentiti verso i quali – degenerando ormai fino all’estremo limite – tortuosamente si inerpica nelle sue mascherate ufficiali.

Persona e Partito

Il volgare tranello che i nostri avversari tendono alla formidabile costruzione marxista della teoria del partito rivoluzionario consiste nel riproporre tendenziosamente, dopo che la nostra critica ha superato il problema della relazione tra individuo e società, quello tra persona e partito, ed in altri termini il vecchio argomento del capo e delle gerarchie. Tale argomento concerne ogni forma di organizzazione e non il solo partito politico, in quanto ogni tipo di organizzazione ha il suo famigerato “apparato”. Quindi in molteplici circostanze (tra le altre, Riunione di Pentecoste) abbiamo mostrato che se pericoli vi sono essi possono essere domati e superati solo nella forma partito a preferenza di tutte le altre, la cui storia è piena dei fenomeni degenerativi che hanno accompagnato le ondate di opportunismo. Il classico “bonzismo” dei dirigenti, trattati con lauti stipendi e resi inviolabili da uno stupido timore reverenziale contro il quale abbiamo lottato all’arma bianca al tempo di Lenin, era il tessuto connettivo della Seconda Internazionale, e aveva dilagato nelle forme sindacali ed elettorali, le quali soffocavano la vitalità dei centri organici del movimento politico e se li erano sottomessi. In ciò il nocciolo della critica leniniana distruttiva dell’opportunismo, in tutti i paesi.

Nel rispondere a questa insinuazione dei detrattori del marxismo non va dimenticato che noi non difendiamo il “partito” in generale, un qualunque partito storico tra i tanti, ma la speciale ed unica forma che è quel partito rivoluzionario il quale primo e solo impersona il compito storico della classe proletaria moderna, e fa di essa non solo fine a sé medesima, ma mezzo per la realizzazione del programma comunista. Il socialismo, disse Engels nella sua prima redazione catechistica del Manifestoè la dottrina delle condizioni della emancipazione del proletariato. Non meno generale è la citazione della frase che la emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori medesimi. Sono posizioni dialettiche a fronte della pretesa che il proletariato moderno sia stato già emancipato dal liberalismo borghese come tappa finale, e di quella peggiore oggi dilagante che possa essere emancipato dalla massa “popolare” piccolo borgheseo populismo.

E l’altra nota massima di Lenin che deve servire la rivoluzione per il proletariato, ma non il proletariato per la rivoluzione va compresa dialetticamente (ogni nostra tesi va impiegata dopo aver chiarito l’antitesi che la sollevò storicamente) nel senso che la classe operaia non è una forza al servizio di una qualunque rivoluzione (si trattava allora di quella che creò la tedesca repubblica di Weimar) ma che la lotta rivoluzionaria va per noi condotta pei fini propri della classe proletaria, ossia per il programma comunista.

La obiezione che i capi rovineranno tutto è una secolare risorsa della polemica antisocialista dei ventri dorati, i quali ai lavoratori dicevano: volete unirvi per difendervi da voi stessi? Ebbene, avrete bisogno di chi vi organizza e lo dovrete pagare con quegli stessi sacrifici che oggi dite di fare per noi padroni. La modernissima pudicizia, da zitelle inacidite della rivoluzione, contro la coraggiosa leale e disinteressata rivendicazione della dittatura del partito comunista come unica forma reale della dittatura del proletariato, non è che una ennesima edizione di quella tradizionale reazionaria obiezione.

La sola forma invece che eviterà le degenerazioni bonziste è quella in cui la aperta dichiarazione del partito che tende ad avere tutta la direzione della lotta rivoluzionaria non sarà sostituita dalla ipocrita offerta di consultare democraticamente le masse, più o meno popolari, per mettersi al servizio della volontà da esse manifestata, quale che essa sarà. La formula servire il proletariato, anzitutto nella pratica esperienza è stata usata da tutti i traditori storici della rivoluzione venduti e demagoghi; ed inoltre echeggia una sporca mentalità borghese. Servire (profitta di più chi meglio serve) è la divisa del Rotary Club internazionale, ossia della organizzazione mondiale dei predatori di plusvalore, interessati a mostrare che il loro fine è il solito bene universale.

La storia dei travagli del partito operaio di classe, lunga e sanguinosa, finirà quando il partito avrà superata la fase vergognosa dello stupido corteggiamento ai proletari, che ne vuol fare elettori o pagatori di quote sindacali, ma non li scuote rivoluzionariamente da quelle catene della loro servitù, meno visibili e contro le quali non basta nessun eroismo, che portano dentro sé stessi.

Non rifaremo dunque qui la storia dei trascorsi e dei pericoli delle forme apartitiche. È ad esempio un rimedio, come pare si illudano alcuni ideologi cinesi, il decentrare dallo Stato alle comuni locali, al pericolo dei capi prepotenti o delle temute cricche e gang di potere, dei colpi di palazzo, e simili letterarie ombre sinistre? A questa bambinata basta a rispondere un episodio che si racconta da secoli ai giovani. Giulio Cesare, il dittatore per antonomasia (al cui cospetto i moderni non sono che poveri pisciarelli pendenti) traversando un povero villaggio alpino virilmente esclamava: preferirei essere il primo in questo villaggio anziché il secondo in Roma!

Se la persona è un pericolo – in effetti essa non è che un vaneggiare millenario degli uomini nelle ombre che li dividono dalla loro storia di specie – la via che lo combatte sta solo nella unitarietà qualitativa universale del partito, in cui si attua la concentrazione rivoluzionaria, oltre i limiti della località, della nazionalità, della categoria di lavoro, della azienda-ergastolo di salariati; in cui vive anticipata la società futura senza classi e senza scambio.

Il partito “carismatico”

Spaccati borghesi e qualche sinistro andato a male vedono invece come rimedio alle forme recenti del degenerare borghese, alle oligarchie, cricche pretoriane, gangs criminali, bande di vampiri del potere, ed altre fumettistiche figure di cui è piena la stampa e la blaterazione contemporanea per la credulità dei minchioni, una “garanzia” non meno idiotamente presa a prestito negli arsenali borghesi, la “democrazia”, trasportata dalla universalità costituzionale nei campi più ristretti – dove maggiormente è vana illusione – della classe e dello stesso partito.

Entro limiti storici ben definiti il meccanismo elettivo e consultivo ha un certo gioco effettuale, in quanto non può mai uscire dal cerchio mercantile e costituzionale borghese, ma può servire a temperare – a fine nettamente controrivoluzionario – taluni sgarri estremi di disamministrazione e di sopraffazione, che giovano a singoli componenti della classe dominante ma non alla causa conservatrice della classe dominante stessa. Ma anche in questo campo concreto, vogliamo rilevare, la garanzia che l’abuso sia evitato o represso non sta nelle autonomie periferiche o di categoria ma nella estensione delle cerchie di organizzazione e di potere, che mano mano che si estendono e si elevano valgono di istanze superiori e di poteri correttivi a quelli inferiori e ristretti.

La organizzazione interna del partito ha potuto e potrà servirsi a fini puramente meccanici di un simile sistema che indubbiamente ha le forme di una gerarchia, ma non racchiude nella virtù del suo ingranaggio nessuna “assicurazione” contro le crisi storiche, la cui causa è altrove. Quindi da decenni e decenni la Sinistra nostra ha chiarito che il partito contingentemente neppure è infallibile, e risente dialetticamente nella sua struttura degli effetti delle sue azioni verso l’esterno; subisce malattie e crisi, e paga il fio, con scissioni risanatrici e lunghe attese storiche, dell’aver deviato dalla invariante dottrina classica, dell’avere intorbidata la sua organizzazione interna e la sua manovra strategica: di qui la nostra condanna di blocchi, fronti, fusioni, reti insinuate in altri partiti e così via. Non è questo il luogo di mostrare come tutti i crolli nell’opportunismo sono legati storicamente ad episodi di quella natura, e meglio lo mostrerà la “storia” della lotta della Sinistra, in preparazione.

Questo arduo problema della vita contemporanea è visto in modo banale dagli ideologi borghesi i quali trattano metafisicamente di una evoluzione nella struttura di tutti i partiti moderni, in generale, in tutti i paesi, e qualunque sia il loro programma, o come noi meglio diremmo la loro base di classe.

Nella rivoluzione liberale avrebbe giocato la forma sana e pura del partito politico, basato sulla democrazia interna e sulla libera adesione degli iscritti che avveniva per fatto di opinioni nutrite, di confessioni. Questo meccanismo viene presentato come una predominanza della “cultura” sulla “politica”. Esso non esclude che il partito generico abbia una gerarchia, ma la apologizza secondo uno schema ingenuo: il capo sarà il più dotto e sapiente, e la dirigenza politica, nel dolce Ottocento borghese liberale, sarebbe stata condotta da maestri sugli allievi sicché l’autorità nei partiti avrebbe avuto un contenuto intellettuale. Questo apparato politico sarebbe addirittura un correttivo della pesante burocrazia amministrativa!

È ovvio tuttavia che il toccasana era la democrazia, e che in questi partiti-scuole gli allievi si eleggevano i maestri. Nell’ultimo secolo una tale illusione è caduta, perché sono sorti i “partiti di massa”, in cui la base ha perduto i diritti democratici e i capi sono piovuti dall’alto, e misteriosamente accettati. Tutta la spiegazione che ci è data di questa palingenesi storica sta nel dire che il gregariame segue il capo e la stretta corte che lo spalleggia perché ravvisa in lui un “carisma”, ossia una grazia come divina, che egli solo possiede e può amministrare ad altri se vuole. La cultura sarebbe andata a farsi fregare, la politica avrebbe messa sotto i piedi la “cultura”, nella società del Novecento. Il Capo non diviene tale perché è il più sapiente, ma il suo verbo fa testo perché egli è il Capo; sia pure un cazzaccio, diviene il Migliore.

La forza o la ragione

Abbiamo notoriamente condotta la critica della concezione del partito di massa e della maniera di direzione dei partiti comunisti introdotta nella Terza Internazionale sotto il deforme nome di bolscevizzazione; ma non abbiamo mai voluta vedere confusa questa nostra critica con quella che può essere dettata da posizioni apologetiche della democrazia generica, che idealizza un tipo buono per i partiti di tutti i colori e sbocca dove sboccarono come da facile previsione nostra gli stalinisti: in un piatto pacifismo sociale.

Sono dunque due quistioni ben distinte quella della natura del partito comunista e quella della evoluzione in tempo borghese della forma partito, o del rapporto politica-cultura.

Questa formula odierna del capovolgimento di una simile relazione a vantaggio del termine politica e contro quello cultura la troviamo attribuita in articoli del Perticone al noto sociologo tedesco Max Weber, che quanto meno avrebbe al tempo dell’altra guerra teorizzato il partito “democulturale” restando poi travolto nella delusione hitlerista-stalinista. Sono dunque sempre ex-semimarxisti che vengono tra i piedi.

A noi interessa stabilire, prima di dire delle recentissime forme totalitarie e della spiegazione deplorazione “carismatica”, che mai il marxismo ha avuto nulla di comune con una teoria “dei partiti” in cui questi abbiano nella loro dinamica l’equilibrio ponderale delle opinioni degli aderenti. Nella nostra concezione del partito rivoluzionario questo ha la sua dottrina, e tutti i suoi componenti la accettano e condividono, ma non per questo hanno ad ogni stormir di fronda la facoltà di mutarla con consulte numeriche, perché essa nasce collettiva ma unitaria per forza della vicenda storica e non per un associarsi di cellule soggettive. Ma è la concezione di un solo partito.

Quanto agli altri partiti ci fa ridere la leggenda di una età dell’oro, democratica e di tipo scolastico e pupo-eruditivo. Nella rivoluzione borghese anche essi furono poggiati sulla dittatura e sul terrore; si dissero illuminati ma tale illusione la distrusse non Marx, ma perfino Babeuf quando teorizzò che nella lotta sociale la forza ha diritti maggiori della ragione; e quindi il partito razionale visto dal Weber non ha alcuna origine proletario-socialista. Siamo sempre lì; la scuola dei proletari sarà la vittoriosa rivoluzione, che per ora chiede ad essi le loro mani armate, ma non può chiedere loro una laurea politica; anche a quelli inscritti al partito non si chiede un “esame di cultura”. Fin dalle lotte della Seconda Internazionale, la Sinistra ha deriso la tesi del partito “culturista”. Fin dal loro sorgere i partiti della borghesia hanno espressi e difesi interessi di classe e non cristallizzazioni di opinioni professate: i molti partiti medio borghesi e piccolo borghesi hanno costituito meccanismi per la trasformazione delle richieste dell’alto capitale in superstizioni politiche delle classi medie e della imbelle piccola borghesia. Quelli di essi che maggiormente reclutavano i loro aderenti nei ceti “intellettuali” sono quelli che meno chiaro hanno visto nella storia e nella società, e hanno fornito eroi ingenui alle imprese e conquiste del capitalismo europeo lasciandosi inculcare come ideali i suoi loschi appetiti: in tutto il Risorgimento Italiano troviamo solo una grande eccezione a questa corbellata razionalità e “culturismo” della lotta politica, nel marxista che non ebbe tempo di leggere Marx, Carlo Pisacane, che tuttavia dette la vita alla causa nazionale, ucciso prima che dalla sbirraglia dal contadiname analfabeta e aclassista.

La ridicola epoca dei big

Alla contrapposizione fatta dal Perticone tra la fase dei partiti di democrazia volontaria e quelli di cieca disciplina ad un centro motore che la base riconosce in dati nomi o peggio in un solo Nome; ove si tolga ogni rimpianto, alla Weber, di quel primo tipo, ed ogni prospettiva di una sua riapparizione di domani in una nuova giostra liberale pluripartitica (che mai nel passato ha giocato realmente) può darsi una portata solo in quanto si svolga la critica della degenerazione contemporanea della società borghese, e si sappia non identificare metafisicamente la strada opposta per cui si giunse, ad esempio, al partito di Stalin, e a quelli di Hitler, Mussolini, o poniamo oggi De Gaulle.

La caratteristica di queste mostruose organizzazioni, la cui vera causa è la passività delle masse in una società in decomposizione, che non è difetto di “cultura” o mancanza di “maestri”, ma difetto di forza meccanica rivoluzionaria per note cause complesse e remote, sta nello strano assurdo che da tutte le parti il sistema moderno “carismatico” che fa ovunque e sotto tutti i cieli e climi del capo un idolo (quanto fragile e caduco!) si difende appunto apologizzando lo stupido toccasana democratico e vanta adesioni consultive e plebisciti di pretese “coscienze”. Gli stati totalitari come Germania, Italia e Giappone sono stati travolti dalla guerra e con essi i loro partiti di governo. Tra i vincitori, gli occidentali sono democrazie parlamentari permanenti e in questa forma giuridica si sono sempre più sforzati di organizzare i paesi del mondo su cui influiscono. La Russia e gli Stati con lei connessi internamente hanno conservato il sistema monopartitico e non hanno partiti concorrenti al potere; ma la politica che conducono all’estero i partiti comunisti di nome è tutta imperniata sulla apologia aperta della democrazia elettiva, che essi pretendono dai governi locali. Nella polemica tra i due blocchi di Stati e di partiti la rivendicazione democratica è sempre in prima linea, e l’accusa più frequente è di avere fatto oltraggio alla elettorale manifestazione della volontà popolare.

Ognuno dei contendenti adopera come verità evidente l’accusa che l’altro perpetra tale infamia. Malgrado questo sciupio di invocazioni alla sovranità popolare a base larghissima, tutte le volte che questi poteri mondiali si incontrano resta regola comune, ed accettata in contraddittorio gli uni verso gli altri, che i milioni di uomini, i cui interessi (non diremo nemmeno le cui opinioni) sono in ballo, sono lontani spettatori di una adunata di quattro o cinque personissime accampate al vertice in delega dei quattro o cinque governi degli Stati più mostruosi, e tutto si decide, in questo democratico e popolare mondo, da quei cinque al massimo “big”; ossia da cinque tipi su due miliardi di membri della specie umana, tutti “demosovrani”; da cinque altissime figure a cui votammo la apostrofe di un dimenticato poeta, citata ironicamente come il più bell’endecasillabo della letteratura italiana: “O big piramidal, che fai tu lì?“.

Potrebbe la democrazia essere più decaduta e bassamente svergognata di così?

Quali chances alla sociologia razionale delle opinioni delle élites, delle scelte di uomini coltivati, che dovrebbero condurre, nella illusione di Weber, la vita politica mondiale, scambiandosi ogni tanto il potere con elegante fair play, con tollerante cavalleria?

Fu detto contro la sinistra marxista, negatrice del partitone mostruoso e della adulazione delle masse, che noi tenevamo della teoria delle élites intellettuali. Ma noi siamo tanto contro la democrazia nella società nella classe e nel partito, cui invochiamo una centralità organica, quanto contro la funzione delle élites dirigenti, cattivo surrogato del Capopersona, marionetta collegiale messa al posto di quella isolata, il che in dati svolti è un passo indietro. La differenza sostanziale sta nel fatto che la nostra dottrina non considera una costellazione di partiti, ma la funzione di uno solo, il cui dialogo con tutti gli altri non è intellettuale né culturale, e giammai elettorale e parlamentare, ma è affidato alla violenza di classe, alla forza materiale che ha per suo traguardo la sottomissione e la distruzione di ogni altro.

Il partito che noi siamo sicuri di veder risorgere in un luminoso avvenire sarà costituito da una vigorosa minoranza di proletari e di rivoluzionari anonimi, che potranno avere differenti funzioni come gli organi di uno stesso essere vivente, ma tutti saranno legati, al centro o alla base, alla norma a tutti sovrastante ed inflessibile di rispetto alla teoria; di continuità e rigore nella organizzazione; di un metodo preciso di azione strategica la cui rosa di eventualità ammesse va, nei suoi veti da tutti inviolabili, tratta dalla terribile lezione storica delle devastazioni dell’opportunismo. In un simile partito finalmente impersonale nessuno potrà abusare del potere, proprio per la sua caratteristica non imitabile, che lo distingue nel filo ininterrotto che ha l’origine nel 1848.

Tale caratteristica è quella della nessuna esitazione del partito e dei suoi aderenti nella affermazione che è sua funzione esclusiva la conquista del potere politico e il suo maneggio centrale, senza mai nascondere in nessun momento questo scopo, e fino a quando tutti i partiti del Capitale, e del suo servidorame piccolo borghese, non saranno stati sterminati.

Da “Il programma comunista nn. 21 e 22 del 1958

APPUNTI SUI MANOSCRITTI DI MARX DEL 1844

Cardini del programma comunista

Nelle sedute conclusive delle riunioni tenute a Torino e a Parma (e si considerino anche gli sviluppi dati al resoconto della prima coi Corollarii pubblicati nei nostri nn. 16 e 17 del 1958) vennero trattate questioni fondamentali della dottrina del nostro partito. Esse si ricollegano alla negazione dell’individualismo e della personalità del singolo, di cui oggi si vede fare largo abuso non solo nella propaganda dei paesi capitalistici occidentali, ma anche in quella degli amici e seguitanti di Mosca. A questi argomenti di dottrina ci ha direttamente ricondotti ora la dimostrazione che tutte le innovazioni e pretese riforme presentate agli ultimi congressi russi sempre più procedono in direzione diametralmente opposta al comunismo marxista, tanto quando si tratti di affermazioni teoriche dirette a simulare scandalo per il “revisionismo” di jugoslavi ed altri (resoconti di Torino), tanto quando si tratti di concreti mutamenti di struttura avvenuti nella organizzazione economica russa. Sotto entrambi questi riflessi abbiamo svolto i richiami all’effettivo programma del comunismo scientifico di Marx e alla dottrina del materialismo storico, rivendicando le tesi vitali più spesso oltraggiate – anche dai non filorussi – e che culminano in quella del partito gerente della dittatura rivoluzionaria e della sua vera meccanica che si basa sulla invariante dottrina classica internazionale e ultrasecolare; e non sulle opinioni dei singoli e laloro imbecille statistica nelle forme elettive borghesi.

Tutto questo tesoro delle nostre originali e possenti dottrine e metodi si è visto ancora una volta infamato e calpestato al recente congresso, quando la serie capitolarda dei rinnegamenti è giunta fino a far posto nella meccanica della attuale economia sociale sovietica (e la constatazione contingente è esatta) dell’incentivo dell’interesse personale! Naturalmente la espressione più triviale di questa massima fra le tesi antimarxiste si trova nel rapporto sul XXI Congresso al C.C. del partito italiano (Unità 17-3-1959): “nell’agricoltura venne restaurato (lo stesso espressivo verbo è nel rapporto Krusciov, ed. it., pag. 13) il principio che l’interesse individuale deve continuare ad essere la molla prevalente dello sviluppo della organizzazione colcosiana”. Nelle “tesi” del Congresso è adombrata in modo un poco meno pacchiano la pretesa paradossale che nelle opere di Lenin e perfino dei fondatori del comunismo scientifico si faccia posto alla leva dell’interesse materiale. Ma il trucco è chiaro: altro è interesse materiale, che può essere fraternamente comune agli sfruttati che devono rovesciare la società privatista, altro è interesse individuale, la cui molla consiste nell’incentivo a fregare il compagno di classe.

Ma qui discutiamo dei caratteri di una società socialista, e (secondo le più recenti truffe) perfino comunista. Ed è in tale campo che la tesi dell’incentivo personale vale il capovolgimento del marxismo rivoluzionario. Ancora una volta occorre tornare alle origini. Che quella restaurazione si stia facendo in Russia lo concediamo; è una delle cento tappe della peggiore controrivoluzione.

La moderna filosofia critica

Un concetto centrale del marxismo è quello che la filosofia del tempo moderno che, anche sotto il nome di scuole diverse parte da Cartesio, Bacone e Kant, è una sovrastruttura storica propria del tempo e del modo di produzione capitalistico. Gli ideologi della classe borghese ovviamente considerano la vittoria di queste scuole moderne sulla tradizionale filosofia cristiana teologica e scolastica come una conquista “definitiva” del sapere umano, e quindi mostrano la pretesa che anche gli esponenti del socialismo proletario debbano fare omaggio ad essa e porsi sotto lo stesso ombrellone filosofico. In altri termini sipensa, e questo luogo comune è molto diffuso, che i socialisti facciano propria e vantino la vittoria ideologica del criticismo borghese contro il fideismo medioevale, e sia un loro punto vitale di partenza lo svolgimento della filosofia, e con essa delle teorie sulla società umana e la sua storia, dai sistemi di credenze religiose.

Questo è un pernicioso errore in quanto, anche nei casi (non generali) in cui gli ideologi della moderna borghesia hanno osato rompere apertamente con i principii della chiesa cristiana, noi marxisti non definiamo questa sovrastruttura di ateismo come una piattaforma comune alla borghesia e al proletariato, che rispetto ad essa è una protagonista della storia futura, ma spieghiamo quel conflitto di idee come una proiezione della lotta tra i nascenti ceti capitalisti da una parte, e dall’altra la antica nobiltà terriera e il suo ordinamento feudale. Quando sulla grande scena della storia una tale lotta di classe è scontata con la vittoria del capitalismo contro l’antico regime, e si determina una nuova lotta di classe, il nuovo protagonista che è il proletariato avrà una propria ideologia che non ha alcun fondo comune a quella che inquadrò la lotta borghese contro il medioevo, anche se nella reale lotta politica vi dovettero essere alleanze di fatto, e di armi.

Altro luogo comune in questa materia è che Marx ed Engels derivano la loro dottrina come un filone sorto dal corso della filosofia critica tedesca, che fu uno dei rami più importanti del movimento moderno e toccò il suo vertice nell’opera di Hegel. La verità storica è che Marx, Engels e il loro gruppo non trascurabile sia di studiosi che di aperti agitatori sociali si contrapposero subito ai discepoli di Hegel che a lui si richiamavano fedelmente, e li trattarono da ideologi borghesi e piccolo borghesi, deridendoli sì anche quando mostravano di non aver capito il maestro, ma svolgendo insieme una aperta e risoluta condanna del sistema di lui.

Marx narra nella prefazione alla Critica della Economia Politica, scritta nel 1859, che lui, Engels ed Hess avevano steso un imponente lavoro per definire la loro posizione negativa radicale rispetto ai seguaci di Hegel e ad Hegel stesso col suo grande sistema di cui erano stati conoscitori profondi, ma dice che trovarono inutile la divulgazione di una tale critica, in quanto il punto di arrivo era che si doveva spostare il campo della ricerca dalla filosofia tradizionale alla economia – ove era meglio criticare i classici borghesi inglesi; o meglio ancora dal campo della ricerca passare a quello della battaglia – ove era meglio continuare l’opera dei sia pur primitivi comunisti francesi.

Ma se nessun riguardo poteva suggerire di tenere private le feroci stroncature degli Stirner, Bauer, Strauss, ed anche Feuerbach, altre ragioni indussero Marx a non pubblicare mai le parti che smontavano del tutto il classico sistema hegeliano, da cui tuttavia in chiari passi di tutte le sue opere si eraallontanato. Egli lo dice nella sua prefazione al Primo Libro del Capitale, nel 1873. Nella “dotta Germania” troppi botoli intellettuali si erano dati a trattare Hegel come un “cane morto”, e Marx non poteva far coro a simile servidorame. Ma la ragione più che letteraria era storica. Solo in Germania era fallita, col 1848, la grande rivoluzione borghese che in Inghilterra e Francia aveva da tanto tempo vinto; per i tedeschi di Bismarck e degli Hohenzollern, Hegel era purtroppo ancora un rivoluzionario, e Marx si limitò a ricordare come il suo metodo dialettico era l’opposto di quello di Hegel, e di averne condannato il lato mistico, ossia idealistico, già trent’anni prima.

Il grande manoscritto sulla Ideologia Tedesca, e quelli che sono indicati come Manoscritti economicofilosofici del 1844 (Economia politica e filosofia) sono stati poi pubblicati, sebbene i topi avessero largamente ascoltato il consiglio degli autori di roderli, e i testi siano pieni di lacune e di dubbi.

Ne resta più che abbastanza per stabilire che Hegel fu un ideologo borghese e che il marxismo rivoluzionario ha definitivamente demolita ogni sua costruzione come ogni altra giustificazione teorica della forma capitalistica.

L’io e la coscienza, fantasmi borghesi

Marx nella sua critica a Feuerbach, che considera più serio di tutti gli altri “giovani hegeliani”, stabilisce che egli è il solo che ha ben maneggiato la dialettica del maestro e la negazione della negazione; ma condanna maestro ed allievo in quanto la loro esercitazione puramente astratta si riduce a partire dalla soppressione della religione ad opera della filosofia (speculativa) per ricadere alla soppressione della filosofia e al ristabilimento della religione e della teologia. In senso storico ciò vale dire che lo sforzo di ateismo della classe borghese nascente chiude la sua parabola con un nuovo successo della maniera religiosa: nel 1844 ci si dichiarava senza timore atei, oggi nessuno scrittore osa più farlo. Marx dichiara in questo Feuerbach buon seguace di Hegel ossia riporta ad Hegel la responsabilità della sterilità del metodo critico borghese. Egli dice a questo punto, in uno schema che purtroppo si è trovato presto interrotto: “Gettiamo uno sguardo sul sistema di Hegel. Bisogna cominciare dalla Fenomenologia perché è lì che nasce la filosofia di Hegel e che si trova tutto il mistero”. Lo schema dice: “Fenomenologia”. “A. La coscienza di sé” – “I. La coscienza… – II. La coscienza di sé. La verità della certezza di sé stesso… “. Non è necessario riportare tutto lo sviluppo schematico del testo, il quale reca parole di dubbia decifrazione. Quello che è chiaro è che per Marx l’errore di Hegel consiste nel poggiaretutto il suo colossale edifizio speculativo, col suo rigoroso formalismo, su di una base astratta, quale la “coscienza”. Come Marx dirà tante volte è dall’essere che bisogna partire, e non dalla coscienza che l’io ha di sé stesso. Hegel è chiuso alle sue prime mosse nell’eterno vano dialogo tra il soggetto e l’oggetto. Il suo soggetto è l’Io inteso in senso assoluto, e “il primo oggetto è per lui la sua stessa certezza”, come detto in vari altri passi. “Hegel commette qui un doppio errore che si manifesta nel modo più netto nella fenomenologia, questo luogo di nascita della sua Filosofia”.

Come dal senso di tutti i densi brani, l’errore di Hegel consiste nel partire dal soggetto pensante, dalla testa che pensa. Infatti Marx dirà nella citata prefazione che egli capovolge tutta la dialettica di Hegel la quale ha l’errore di camminare reggendosi sulla sua testa. A tale errore sono condannati tutti i pensatori del tempo borghese, e che esprimono la gesta storica della classe capitalista. Il loro Io, il loro Uomo, il loro Soggetto che si pretendono espressioni dello stesso Assoluto non sono che la transitoria peculiarità del Borghese.

Fin dal tempo delle elaborazioni giovanili di Marx e dei suoi compagni è chiaramente costruito quanto

dovrà opporsi al denunziato fondamentale errore di Hegel che si riassume nella superstizione individualista. Infatti fin da quel tempo era sorto il programma comunista, ossia la valutazione scientifica anticipata della società umana che al capitalismo deve succedere (…)

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