L’immagine e il potere

Introduzione

Le relazioni sociali sono essenzialmente attraversate da rapporti di comunicazione.

Secondo Mcluhan il medium è il messaggio, nel senso che il mezzo di comunicazione (dunque anche l’immagine visiva) racchiude, nell’epoca moderna, il contenuto del messaggio.

La storia umana contiene molteplici esempi di immagini espresse con veicoli/medium diversi ( statue, monete, dipinti, affreschi, bassorilievi, et similia) che celebrano il potere, e quindi ne comunicano la presenza a una vasta platea sociale. Allo scopo, ovviamente, di consentire il suo riconoscimento, e dunque l’asservimento al suo cospetto da parte dei destinatari sociali della comunicazione.

Il presente lavoro cercherà di indagare le molte sfumature della relazione storica fra immagine e potere, nel passato ma soprattutto nel presente.

In gergo semiologico potremmo tradurre l’asserzione di Mcluhan nel seguente modo: il significante (il medium) e il significato (messaggio) sono ormai del tutto indistinguibili.

L’argomento merita un approfondimento considerando che: 1) le imprese capitalistiche investono nella comunicazione aziendale, aspetto preminente delle strategie di marketing finalizzate al business, 2) la platea di cuochi e sotto cuochi che cucinano il polpettone politico-economico nella nostra Italia, almeno nella loro frazione visibile (tralasciamo la frazione occulta per ovvi motivi), impiegano a piene mani strategie di immagine facilmente decodificabili (almeno agli occhi di un osservatore minimamente smaliziato), 3) l’argomento sostenuto al punto due vale anche per la platea di cuochi e sotto cuochi degli altri paesi.

Nella sua essenza l’indagine sul rapporto fra immagine e potere è già compiutamente svolta nell’opera di Machiavelli, il quale suggerisce al principe di mostrarsi ossequioso verso i principi morali e religiosi esistenti, un ossequio da intendere come semplice espediente dissimula-torio verso una pratica di governo invece guidata dalla regola ”il fine giustifica i mezzi”. In nome della ragion di stato il principe dissimula, avvolge nel segreto, la regola del ”fine giustifica i mezzi”, mostrando una immagine pubblica pienamente calibrata sul registro della morale comune.

Tuttavia questo gioco di dissimulazione può essere efficace nei tempi ordinari, mentre nei tempi fuori dall’ordinario lo stesso Machiavelli prescrive al principe una condotta diversa, all’occorrenza apertamente in contrasto con la morale comune. Tale prescrizione può essere meglio compresa se si studia il concetto di capo carismatico elaborato dal sociologo Max Weber agli inizi del 1900. In Weber  il potere carismatico agisce come metanoia sul proprio seguito, cioè sulle ‘masse’ dominate che seguono il leader ( un profeta, un capo politico, un riformatore religioso). Metanoia significa che il messaggio/comunicazione del leader carismatico trascende la morale comune, e quindi proietta i seguaci su un piano di rinnovamento dei valori fino ad allora rispettati. Metanoia è la rottura con il passato e l’ingresso su un nuovo piano di realtà. Proprio questa drastica rottura con una certa tradizione, va considerato, in definitiva, il fattore di forza del messaggio/immagine carismatica. Il fattore che rappresenta una adeguata risposta, del principe, alle situazioni fuori dagli schemi ordinari.

Quando Machiavelli scrive che la fortuna è donna, e quindi ama i giovani che sanno con più audacia e forza trattarla, in fondo suggerisce al principe il ricorso alle misure straordinarie, tipiche del potere carismatico.

Quando la virtù, e cioè l’arte del governo basata sul prudente e sapiente ossequio formale alla morale comune, sulla negoziazione con il corpo sociale dei sudditi, sul compromesso con le potenze statali straniere, risulta non adeguata alla continuità del potere regio, allora il principe deve esplorare altre strade: le strade del potere carismatico e della metanoia.

Non è forse confermata, tale teoria, dal moderno pullulare di leader ‘fatali’ ad ogni angolo dell’attuale amministrazione politica del sistema?

Almeno due recenti capi politici, in Italia, proponendosi come fautori di programmi di cambiamento epocale, hanno più o meno coscientemente fatto riferimento alla metanoia. Le parole chiave utilizzate sono state: rivoluzione liberale e rottamazione della vecchia politica. Esse sono state presentate come una radicale rottura con il passato.

 Ma nel mondo contemporaneo le figure carismatiche sono generalmente portatrici di politiche funzionali alle leggi dell’economia capitalistica (a conferma degli assunti presenti in ‘Superuomo ammosciati’ e ‘Il battilocchio nella storia’).

Infatti, l’immagine del presunto carisma (del leader di turno), serve solo a spostare l’attenzione, dalla dura realtà delle misure economiche, fiscali e normative peggiorative della condizione proletaria (misure a cui ogni amministrazione politica degli affari borghesi deve fare inevitabilmente ricorso per conservare il sistema), al turbinio di effetti speciali e di messaggi miracolistici contenuti nell’immagine carismatica. 

L’equazione che esprime la necessità di questo spostamento di attenzione, dalla dura realtà all’immagine carismatica, è così formulabile: l’incremento degli effetti speciali e dei messaggi miracolistici prodotti nella comunicazione politica è direttamente proporzionale al peggioramento della condizione proletaria contenuto nelle misure economiche, fiscali e normative di ogni amministrazione borghese. 

La coscienza del peggioramento, occultato dallo spostamento di attenzione dalla dura realtà all’immagine carismatica, ritorna prima o poi a galla in una parte dei destinatari delle misure peggiorative, soprattutto dopo l’ennesima stangata fiscale, oppure dopo l’aumento dell’età pensionabile e della precarietà lavorativa, cioè in definitiva dopo l’aumento della miseria. 

In ”Prometeo incatenato”  viene dimostrato che il proletariato è irretito dalla ideologia borghese, e dunque vittima del parassitismo del capitale, fino al punto di subire una metamorfosi del modo di pensare e di agire, oramai pienamente integrati nella conservazione dell’organismo parassita.

La violenza latente e cinetica dell’attrezzatura statale, combinata alla mascheratura democratica, con i suoi rituali finto-partecipativi, costituisce una importante causa attuale della anzidetta metamorfosi.

La genesi lontana di tale processo metamorfico è semplice.

L’azione diretta del proletariato (e del suo partito) per la conquista del potere, azione necessaria per superare il contrasto raggiunto fra i rapporti di produzione capitalistici e il grado di sviluppo delle forze produttive dell’economia, il cui esempio migliore è dato dalla rivoluzione di ottobre, è stato esorcizzato/neutralizzato dalla classe dominante con la doppia leva della violenza latente/cinetica statale e del controllo degli organismi politici e sindacali operai.

La metamorfosi è il risultato di questa doppia leva, che a sua volta dimostra la temporanea vittoria della controrivoluzione, innanzitutto dopo la vittoria dello stalinismo, in quanto maschera politica del travisamento della rivoluzione d’ottobre.

La seconda leva agisce sul piano della rappresentazione politica, un piano in cui si consuma l’integrazione delle organizzazioni operaie dentro le logiche di sistema.

In merito alla seconda leva, non può essere ignorata l’importanza della comunicazione di immagini illusorie, come quella degli uomini forti, carismatici, a cui le cosiddette masse dovrebbero rivolgersi, per risolvere i principali problemi socio-economici.

Anche l’attuale efflorescenza di uomini del destino, soli al comando (in apparenza) del paese, è spiegabile come un effetto derivato della metamorfosi di cui si parla in ‘Prometeo incatenato’.

Abbiamo detto poco sopra che i presunti leader carismatici della sfera politica, in realtà sono dei semplici funzionari del capitale, tuttavia questa realtà di fatto deve essere nascosta, e al suo posto deve apparire l’immagine sfavillante e titanica dell’uomo solo al comando, poiché in caso contrario verrebbe meno la coltre di fascino del finto carisma, e dunque un fattore di inganno necessario per carpire il consenso dei dominati. Le organizzazioni politico-sindacali operaie integrate, e i loro capi finto-carismatici, operano dunque in modo sinergico nell’opera di conservazione del sistema di parassitismo. In quest’opera gioca un ruolo importante l’utilizzazione di immagini che rinviano a simboli e archetipi sociali lontani, spesso legati in modo deformato a forme di socialità comunitaria. Tali immagini sono create allo scopo di diffondere illusioni, e un derivato effetto di maggiore consenso da parte dei fruitori dell’immagine. La deformazione di simboli e archetipi comunitari trasforma in populismo il richiamo (strumentale) alla socialità e alla comunità veicolato dalle immagini del potere., 

L’attuale lavoro si propone dunque di ripercorrere alcune tappe storiche del rapporto fra potere e immagine, tentando anche di rintracciare i momenti in cui tale rapporto è entrato in crisi sotto la spinta di fattori socio-economici o di circostanze contrarie all’illusionismo del potere.

Capitolo uno: segni sovrumani

«Ho appreso ciò che il saggio Adapa ha portato [agli uomini], il senso nascosto di tutta la conoscenza scritta. Sono iniziato nella scienza dei presagi del cielo e della terra. Sono in grado di partecipare a una discussione in un consesso di sapienti, di discutere la serie epatoscopica con gli indovini più esperti. So risolvere i “reciproci” e i “prodotti” che non hanno soluzione data. Sono esperto nella lettura dei testi eruditi, il cui sumerico è oscuro e il cui accadico è difficile da portare alla luce. Penetro il senso delle iscrizioni su pietra anteriori al Diluvio, che sono ermetiche, sorde e ingarbugliate.»

Da una iscrizione dedicata al sovrano ”Assurbanipal”. 650 ac, circa.

In questa iscrizione il sovrano assiro-babilonese auto-elogia i propri talenti di sapiente, erudito e traduttore.

Questi talenti rivelano la dimensione sovrumana del sovrano, una condizione superiore alle limitazioni che riguardano i comuni sudditi del regno.

In questo caso il potere sovrumano  è rappresentato come capacità di penetrazione dei misteri del mondo, visione veritiera della realtà.

D’altronde non sono infrequenti, nella storia umana, rappresentazioni simili,  su stemmi, arazzi, ritratti, statue, monete. Alcune immagini rimandano a realtà simboliche, e i simboli sono una stratificazione di contenuti condivisi in una certa cultura, nati dall’esperienza della vita.

Essi sono la sintesi di una sequenza di dati, la cognizione di un rapporto fra cause ed effetti, o meglio di processi tendenti ad un fine, che in molti casi coincidono con un insegnamento iniziatico. Un insegnamento che comunica una realtà nascosta, la cui conoscenza è importante per il passaggio ad uno stadio superiore dell’esperienza umana.

La civetta, l’albero e le sue radici, il sole e i suoi raggi illuminanti, il libro, sono alcuni dei simboli della conoscenza, alle volte presenti sulle immagini del potere rappresentate su  artefatti come sculture e monete, stemmi araldici e ritratti.

Bisogna tuttavia ricordare che le società classiste hanno spesso fatto uso di immagini e simboli provenienti dalle precedenti società di condivisione, alterandone il positivo senso originario, dunque quando studiamo determinate immagini/simbolo dovremmo cercare di scavare a fondo, per determinare il loro senso arcaico.

Sono state di recente riportate alla luce delle statuine risalenti al periodo neolitico, dunque databili intorno al 3000/4000 A.C.

Tali statuine raffigurano degli esseri dalla doppia natura, umana e animale, il cui scopo non è la celebrazione del potere di un capo o di una classe sociale, ma l’espressione di una esperienza di vita sociale, per noi moderni difficile da comprendere.

Queste statuine del periodo neolitico sono una immagine del modo di vivere di alcuni gruppi sociali, e se consideriamo che il termine immagine deriva dal greco ”eídolon”, cioè idolo, è legittimo concludere che le suddette statuine esprimano la gioia di una socialità organica e di una apertura/fusione con il tutto naturale (la doppia natura umana/animale delle statuine).

In questo caso l’idolo non è il potere di un capo assurto alla divinità, ma il modo di esistere della comunità umana, e a quanto sembra la sua proiezione sovrumana/oltreumana ( le statuine per metà umane e per metà animali).

Possiamo dunque solo ipotizzare, in queste comunità neolitiche, la presenza di un modo di vivere e di pensare lontanissimo dal nostro, cioè lontanissimo dalla separazione fra uomo e natura e fra individuo e società, tipica delle società classiste.

La figura femminile è ricorrente nelle statue e nelle sculture delle società di condivisione, essa è un simbolo di fertilità, e dunque di vita per gli artisti del neolitico. Le immagini contenute nelle creazioni di questi artisti hanno dunque anche uno scopo propiziatorio, e verosimilmente sono un elemento presente nei riti di passaggio stagionali, miranti a garantire il ritorno della primavera e dell’estate, e quindi dei raccolti indispensabili alla vita della comunità.

Il rito, a sua volta, può essere definito come una sequenza di azioni espresse da gesti, movimenti, parole, suoni, conformi ad un ordine tradizionale e quindi simbolico. Il rito attualizza un evento ancestrale, ne consente la ripetizione nel presente, in funzione della continuità del gruppo sociale. In questo caso il rito di passaggio garantisce, sul piano simbolico, il ritorno delle messi e dei raccolti. Il simbolo della fenice è sicuramente il più noto fra i simboli di morte e rinascita, la cui origine lontana risale, verosimilmente, ai riti agrari di fertilità.

L’antropologo russo Propp, nel testo ‘Feste agrarie russe‘, ha ben dimostrato l’importanza dei riti di fertilità nelle società rurali.

Anche l’etnologo Marcel Mauss con i suoi studi ha contribuito a chiarire alcuni importanti aspetti delle società di condivisione; scoprendo in esse una sorta di obbligazione sociale alla reciprocità nei rapporti sociali. Tale obbligazione concerne la gratuità del dono di un qualcosa, a cui non può non seguire un contro dono.

Il concetto impiegato da Mauss, per spiegare i rapporti sociali comunitari, coglie in ogni caso un aspetto importante dell’interazione fra i membri della comunità. Nel corso del tempo la reciprocità del dono e del contro dono è stata sublimata nell’immagine/simbolo della bilancia, la quale è generalmente impiegata per rappresentare il concetto di giustizia o il suo significato precursore: l’equilibrio.

Non possiamo ignorare, parlando di equilibrio, il simbolo del Tao, yin e yang, e la probabile connessione con i rapporti di reciprocità vigenti nelle società di condivisione.

Gli studi di Mauss sono importanti anche per chiarire qualche ulteriore elemento della cultura di queste antiche società di condivisione.

Ci riferiamo stavolta al concetto di ‘mana’, una sorta di energia/potenza magica presente in ogni aspetto della vita; ovviamente tale concetto è associabile all‘animismo e allo sciamanesimo. Ora sarebbe facile irridere queste visioni ‘primitive’ della vita, dimenticando che la moderna fisica quantistica sostiene proprio che ogni aspetto della realtà è interconnesso in un inestricabile reticolo energetico. I nostri ”primitivi’ antenati avevano dunque percepito l’essenziale, anche se lo esprimevano con un linguaggio ingenuo, e senza la possibilità di verifiche di laboratorio. Ma evidentemente gli bastava la verifica della vita quotidiana, cioè della funzionalità di quel tipo di conoscenza alla conservazione del gruppo sociale.

Riassumendo le linee guida del primo capitolo possiamo dire due cose: 1) in origine, nelle società di condivisione, vengono elaborate delle immagini simboliche che esprimono la realtà della vita; una vita vissuta in modo comunitario e in armonia con la natura, 2) le successive società divise in classi utilizzano una parte delle arcaiche immagini /simbolo, alterandone il significato in funzione del riconoscimento e della conservazione del potere della classe dominante.

Capitolo due: statue e monete

Le statue di epoca romana imperiale sono il paradigma più conosciuto di immagine del potere. Lo stesso materiale impiegato per la loro realizzazione, sia esso marmo o metallo, indica la volontà di sfidare il tempo, e quindi la caducità e la morte. Le pose austere del corpo degli imperatori sono associate in modo regolare ad espressioni del viso sorridenti, serene, come ad indicare una condizione di pace interiore. Questa condizione viene comunicata a colui che osserva la statua, che in origine è il popolo romano. Un messaggio di rassicurazione e di saldezza promana dalla statua, quasi a comunicare il solido e stabile fondamento del potere imperiale.

Il sorriso, accoppiato alla corona di alloro, segnala al popolo il trionfo del potere, è il segno della sua vittoria sulle forze avversarie, e dunque suggerisce al popolo di riconoscere ed adeguarsi ai suoi dettami. Inoltre, ma in via derivata e secondaria, comunica al fruitore dell’immagine la presunta benevolenza dell’imperatore nei suoi confronti.

Ricordiamo la proliferazione di statue di uomini della provvidenza/dittatori anche nei nostri tempi, soprattutto nei regimi totalitari del secolo scorso.

L’antica immagine del sorriso come doppio segnalatore di benevolenza e saldezza del potere, ha trovato una conferma nelle ripetitive espressioni facciali di alcuni politici a la page degli ultimi due decenni, di cui non ci interessa neppure fare il nome.

Possiamo ipotizzare una doppia reazione alla moderna strategia del sorriso: 1) i creduloni mostreranno di gradire il messaggio contenuto nel sorriso, 2) gli smaliziati potrebbero infastidirsi, considerando che in fondo il sorridente politico di turno è solo un funzionario del capitale, esecutore dei dettami derivati dalle sue leggi invarianti di funzionamento.

Il sorriso può ovviamente trasmettere altri messaggi, tuttavia la nostra ricerca si rivolge solo al senso che esso ha storicamente assunto nell’iconografia del potere.

Le statue del potere sono create per degli obiettivi antitetici alle statuine di cui parlavamo nel primo capitolo: mentre le statue degli imperatori, dei sovrani e dei moderni dittatori comunicano il doppio messaggio (rassicurante/benevolente) di una classe sociale dominante, le statuine arcaiche del neolitico esprimono il potere di una comunità e il suo bisogno di sopravvivere (statuine della grande madre utilizzate nei riti di fertilità) e il desiderio di conoscere la realtà e di sperimentare il superamento della condizione umana, proiettandosi nell’oltreumano (alludiamo alle statuine dalla doppia natura umana e animale, e ai viaggi sciamanici in cui si ritiene che lo sciamano si confonda con un animale totemico). 

Al di là dei contenuti culturali (sciamanico-animistici) rilevabili nelle statuine del neolitico, è interessante evidenziare la differente funzione sociale di queste statuine rispetto alle statue (e alle monete) create all’interno delle società divise in classi.

La moneta è un mezzo tipico delle società classiste, con una funzione non comparabile con artefatti equivalenti delle società del periodo neolitico.

Normalmente l’uomo è interessato alla moneta metallica (o alla banconota) in quanto mezzo di scambio con determinate merci e servizi, tuttavia il denaro, al di là della funzione di equivalente generale fra merci e prestazioni di lavoro differenti, è anche qualcos’altro.

Molto spesso esso può veicolare dei segni particolari come volti e parole, o anche delle immagini di altro tipo. Il volto degli imperatori romani adornava le monete che circolavano nell’impero, mentre il volto dell’imperatore Federico secondo di Svevia è stato impresso sulle monete in uso nei territori di suo dominio.

Il volto del rappresentante del potere, impresso sulle monete utilizzate come mezzo di pagamento, aveva e ha un doppio scopo: 1) far conoscere a una vasta platea sociale l’esistenza di un certo potere, 2) trasmettere, come per le statue dei re e degli imperatori, un messaggio di forza, giustizia e benevolenza a chi osserva l’immagine. 

L’importanza della statua o del busto, nella iconografia del potere, è confermata dai numerosi episodi – recenti e meno recenti – di abbattimento o distruzione ( di statue e busti)  in occasione di rivolgimenti politici o alla fine di una guerra ( da parte dei vincitori).

Gli esempi sono molti, pensiamo al destino riservato ai busti e alle statue di Hitler e Mussolini alla fine della seconda guerra mondiale, o alle statue di Ceausescu e Saddam Hussein in tempi più recenti, ma anche alla distruzione delle immagini di Stalin nel periodo successivo alla sua morte.

In tutti questi casi l’iconografia del vecchio potere viene distrutta dall’azione iconoclasta del nuovo potere.

Bisogna tuttavia non dimenticare la tendenza alla riproposizione/assimilazione dei simboli di poteri scomparsi, da parte dei nuovi ordini politici. È il caso degli imperi romano-germanici, che si proponevano come continuatori dell’eredità imperiale romana, e lo stesso dicasi del patriziato veneziano, ovvero le quaranta famiglie che hanno guidato per quasi mille anni la repubblica di Venezia. Anche il principato di Moscovia, intorno al 1400, con la fine dell’impero di Bisanzio, assume su di sé l’eredità imperiale, già nel nuovo nome del principe, che inizia a firmarsi nei documenti ufficiali con il termine ‘Czar’, ovvero  Cesare.

In tutti questi casi si verifica l’assimilazione di alcune forme esteriori (nomi e immagini) dei poteri scomparsi, allo scopo di rinforzare l’autorità e il prestigio dei poteri esistenti.

Nel prossimo capitolo cercheremo di fare luce sull’impiego, storicamente verificato, delle reliquie, un utilizzo finalizzato alla sovrapposizione del piano sacro sul piano profano. Tale utilizzo rientra nell’ambito più ampio dell’uso congiunto dei simboli dell’autorità spirituale e del potere temporale.

 

 

Capitolo tre: Reliquie

Il termine reliquia deriva dal latino, e significa ciò che resta, o meglio ciò che rimane dopo la fine di una vita, o semplicemente di una vicenda. Reliquia può essere considerato il corpus intero, o una parte del corpo. Nella interpretazione devozionale consolidata si ritiene che la singola parte contenga le qualità del corpo intero.

Le reliquie associabili alla sfera di azione politica sono essenzialmente quelle dei santi.

Tale circostanza è dovuta alla sovrapposizione della sfera politica e sacra, storicamente accertata, come fattore di forza di un certo ordine costituito.

Le reliquie, da un punto di vista genericamente religioso, rappresentano la traccia materiale del corpo del santo, successiva alla morte. Anche oggetti appartenuti in vita al santo, o in certi casi gli strumenti del suo martirio, possono valere come reliquie. Sembrerà banale scriverlo, ma la qualificazione di santo o di reliquia non è una proprietà autoevidente, ma la conseguenza di un riconoscimento sociale, una qualità che in un certo contesto storico-culturale viene attribuita a un particolare uomo oppure a un certo elemento del corpo di un santo.

Nel medio evo il culto delle reliquie dei santi ha trovato un ampia diffusione, anche se nello stesso ambiente religioso sono a volte sorte delle voci critiche sugli eccessi del fenomeno. In un ottica sociale generale il culto delle reliquie esprimeva, ed esprime, innanzitutto un bisogno di protezione rispetto ai pericoli e al male. Non è nostra intenzione scherzare su questo bisogno, la cui presenza in vasti strati popolari è in fondo il segnale di una esistenza difficile, piena di sofferenza e continuamente esposta ai colpi avversi della fortuna. Nella teologia cristiana il santo, e di conseguenza le sue reliquie dopo la morte, hanno il potere di intercedere presso Dio, per ottenere miracoli e guarigioni. In questo senso le reliquie sono il tramite con l’anima del santo che si trova in Paradiso, invocato da parte del credente per supplicare un aiuto dal padre celeste.

 

Nel corso della storia il potere politico e religioso ha utilizzato spesso le reliquie come mezzo (profano) di rafforzamento (dello status quo).

La logica contenuta in questo utilizzo è la seguente: il piano spirituale/sacro, attraverso la reliquia, serve a rafforzare il piano profano del potere politico – religioso.

I sovrani Merovingi e Carolingi si ritenevano custodi di un ampolla di olio portato sulla terra dagli angeli, con cui venivano unti al momento dell’incoronazione. Non si trattava esattamente di una reliquia sacra, tuttavia la sua funzione politica era uguale a quella di una reliquia sacra.

In un arco di tempo di oltre 100 anni, precisamente a cavallo fra il  1300 e il 1400, nella città di Bologna sono giunte le reliquie di alcuni santi, esse sono state riposte in reliquiari di pregiata fattura artistica, all’interno di chiese, basiliche e monasteri.

La devozione popolare ai santi e la venerazione delle loro reliquie, per quanto sentite e autentiche, anzi proprio in ragione di queste caratteristiche, sono state oggetto (a Bologna) di attenzione da parte di poteri politici in vista di un loro utilizzo in funzione di interessi e disegni strategici particolari.

La città di Bologna nel 1300 è una punta avanzata dei primi embrioni di capitalismo, e della correlata classe sociale borghese. Alcune importanti famiglie bolognesi incarnano la nascente borghesia mercantile, e l’esigenza di un governo politico autonomo della città (il libero comune).

Questa esigenza si scontra, sul confine meridionale, con le mire dello stato pontificio, che intende inglobare la città nel proprio dominio, e sul confine settentrionale con le mire annessionistiche del ducato d’Este, già comprendente le città di Ferrara, Mantova e Reggio Emilia.

Alla fine la contesa si risolverà a favore dello stato pontificio, e il libero comune di Bologna dovrà dare una frenata temporanea agli sviluppi di una sovrastruttura politica adeguata alla nascente struttura economica capitalistica.

Tuttavia, nel contesto dell’attuale ricerca, ci preme portare l’attenzione su un dettaglio interessante: nel periodo in cui Bologna è costretta a fronteggiare le mire del ducato estense, viene in certo qual modo favorita (da parte delle maggiori famiglie della città) la devozione popolare verso un santo guerriero.(e quindi verso le sue reliquie). Tale azione si manifesta sotto forma di creazioni artistiche come dipinti e affreschi, o di costruzioni votive dedicate al santo guerriero. E’ facile dedurre che la preoccupazione del potere politico che governa Bologna è quella di compattare i vari strati sociali della città contro il nemico estense, a tale scopo si cerca di favorire un sentimento di identità fra lo spirito guerriero richiesto ai cittadini e le qualità del santo guerriero le cui reliquie sono custodite a Bologna. Questa identità, una volta pienamente realizzata, avrebbe dovuto suscitare forza ed energia combattiva nei cittadini bolognesi. In fondo non fu Machiavelli, quasi un secolo dopo, a definire la religione ‘Instrumentum regni’ ?

Torniamo ora brevemente sulla tradizionale associazione medioevale fra potere politico e sfera del sacro. Abbiamo, all’inizio del capitolo, ricordato i sovrani franchi ”unti dal signore”, che al momento dell’incoronazione venivano unti sulla fronte con l’olio portato sulla terra dagli angeli. In questo modo diventava palese e inequivocabile, a tutti i sudditi del regno, la natura sacra, superiore al piano profano ordinario, dell’autorità regale. Moderni e meno moderni studi di antropologia culturale definiscono il concetto di sacro come la sintesi di una coppia di caratteri positivi e negativi; spieghiamo meglio: il sacro, nelle tradizioni culturali di molte popolazioni ‘primitive’, oggetto di studi antropologici,  è l’insondabile ‘tremendum’ da cui può  sgorgare sia il bene che il male. Se vogliamo, il concetto di sacro è anche associabile al ‘fatum’, alla sorte che può riservare buona fortuna o sventura al mortale, così come ben delineato nella tragedia greca di Eschilo e Sofocle. Da questo carattere dualistico del sacro nasce, nel corso della storia,  la preoccupazione di scongiurare il possibile evento nefasto con rituali scaramantici e propiziatori. Se si considera che anche il potere politico implica la possibilità di utilizzare la forza di un apparato statale, sia per curare e salvaguardare che per ferire e distruggere cose o persone, allora si può ben comprendere il legame fra la sfera del sacro e la regalità rivendicato dai sovrani merovingi ( e non solo da essi) nel corso della storia.

Un letterato e filosofo francese, Georges Bataille, negli anni 50 e 60 ha elaborato il concetto di ‘sovranità’, teorizzando l’azione sovrana come assoluta, fine a se stessa, aliena da ogni preoccupazione rispetto alle conseguenze (innanzitutto per il soggetto agente). Nella costruzione del concetto di azione sovrana hanno avuto un peso determinante la lettura dell’opera di Nietzsche e degli studi etnologici di ‘Marcel Mauss’ sul sacro. Al di là di ogni considerazione politica e morale, è innegabile che il comportamento di alcune frange contemporanee del ‘ribellismo anarcoide’, sono di fatto, anche senza avere mai letto Bataille, eredi del concetto di azione sovrana elaborato da Bataille.

 In definitiva la sfera della sacralità, ordinariamente associata al potere imperiale o monarchico, nelle  varie epoche storiche ha svolto la funzione di inviare un doppio messaggio ai sudditi, e ai poteri rivali: 1) il potere monarchico/imperiale può favorire la vita oppure dispensare la morte,  secondo le circostanze, proprio come farebbe un dio, 2) in quanto legittimato dal collegamento con la sfera del sacro, il potere monarchico/imperiale trascende il piano umano profano, e possiede la forza, ma anche il diritto di costruire o distruggere, secondo il proprio calcolo insindacabile, un calcolo tuttavia basato sulla ragione di stato, cioè sulla conservazione del potere.

Un monito tremendo, dunque, trasmesso  con le immagini ricorrenti, i segni, con cui il potere politico rivendica una parentela diretta con il sacro. In fondo, quando in ‘ Forza, violenza e dittatura nella lotta di classe’, viene descritta la violenza latente e cinetica dello stato, in quanto realtà inseparabile dal dominio di classe, si riconosce l’esistenza funzionale di questo monito tremendo, volto a terrorizzare ogni possibile nemico o ribelle.

Ovviamente lo stato è anche il mezzo con cui la classe dominante mette in atto le politiche benevole del Welfare e dell’assistenza, di inclusione e cura, a conferma della doppia valenza del concetto di ‘tremendum’, caratteristica del sacro e della regalità/ sovranità ad esso storicamente associata. 

Il dualismo del sacro, il doppio vaticinio degli oracoli, le antiche divinità di morte e resurrezione legate ai cicli agrari, si riverberano in modo deformato nella logica duale  di assistenza e repressione, carota e bastone degli apparati statali borghesi.

La deformazione deriva dal fatto che le forme di conoscenza raggiunte dalle originarie società di condivisione, vengono impiegate al servizio del potere di una classe sociale parassitaria.

 

 

Capitolo quarto

‘Governare è far credere’

”E perché le azioni di costui furono grandi in un Principe nuovo, io voglio mostrare brevemente quanto egli seppe bene usare la persona della volpe e del lione, le quali nature dico, come di sopra, esser necessario imitare ad un Principe.”

Machiavelli

 

In un articolo di un paio di anni fa, dal titolo ‘Ruina imperii’, abbiamo tentato di analizzare i processi di decadenza dell’apparato capitalistico USA riprendendo alcuni concetti contenuti nel ‘Principe, di Machiavelli. Riportiamo ora una lunga citazione dello stesso autore, allo scopo di introdurre l’analisi della immagine capovolta del potere.

”Ma perché circa le qualità, di che di sopra si fa menzione, io ho parlato delle più importanti, l’altre voglio discorrere brevemente sotto queste generalità, che il Principe pensi, come di sopra in parte è detto, di fuggire quelle cose che lo faccino odioso o vile; e qualunque volta fuggirà questo, arà adempiuto le parti sue, e non troverà nell’altre infamie pericolo alcuno. Odioso lo fa soprattutto, come io dissi, lo esser rapace, ed usurpatore della roba, e delle donne de’ sudditi; di che si deve astenere. Qualunque volta alle università degli uomini non si toglie né roba né onore, vivono contenti, e solo s’ha a combattere con l’ambizione di pochi, la quale in molti modi e con facilità si raffrena. Abietto lo fa l’esser tenuto vario, leggiero, effeminato, pusillanimo, irresoluto; di che un Principe si deve guardare come da uno scoglio, ed ingegnarsi che nelle azioni sue si riconosca grandezza, animosità, gravità, fortezza; e, circa i maneggi privati de’ sudditi, volere che la sua sentenzia sia irrevocabile, e si mantenga in tale opinione, che alcuno non pensi né ad ingannarlo, né ad aggirarlo. Quel Principe che dà di sé questa opinione, è riputato assai; e contro a chi è riputato assai con difficultà si congiura, e con difficultà è assaltato, purché si intenda che sia eccellente e reverito da’ suoi. Perché un Principe deve avere due paure: una dentro per conto de’ sudditi; l’altra di fuori per conto de’ potenti esterni.” Il Principe, Machiavelli.

 

Dunque il principe, cioè il soggetto del potere, deve mostrarsi sicuro, forte, serio, evitando come la peste la trasmissione di segnali di contenuto opposto. Come il sorriso sulle labbra delle statue di re e imperatori è scolpito per comunicare saldezza del potere e benevolenza, anche l’immagine personale del politico dovrebbe comunicare forza, stabilità e benevolenza. Machiavelli suggerisce al potere politico questa strategia di immagine, perché solo essa può fungere da deterrente verso le congiure e gli attacchi provenienti dai nemici interni (il popolo o altri potenti) e i nemici esterni (le potenze esterne): ‘Perché un Principe deve avere due paure: una dentro per conto de’ sudditi; l’altra di fuori per conto de’ potenti esterni.’

Le due paure di cui scrive Machiavelli producono come risposta la doppia minaccia che lo stato, in quanto strumento politico-militare di dominazione di una classe sociale, rivolge ai propri sudditi (la classe dominata) e alle potenze straniere (le altre classi dominanti e i loro apparati statali). Poiché il potere politico deve ingegnarsi che nelle azioni sue si riconosca grandezza, animosità, gravità, fortezza”.

Lungi dal rendersi autonomo dallo stato nazionale, il capitale di una determinata borghesia, semplicemente per sopravvivere nel confronto con altri capitali, non può prescindere dalla protezione dello scudo statale.

D’altronde sia nel ‘Manifesto’, sia 100 anni dopo in ‘Forza, violenza e dittatura nella lotta di classe’, si sostiene che la potenza di una sovrastruttura politica statale è inizialmente legata alla forza di una certa struttura economica, tuttavia, in base a una elementare legge dialettica, la potenza dello stato può in seguito notevolmente incidere sulla stessa struttura economica (pensiamo in primo luogo alle ricorrenti guerre commerciali fra economie capitalistiche e al ruolo giocato in esse dalla forza militare, ad esempio i blocchi navali, o la vecchia politica delle cannoniere, oppure pensiamo al ruolo dello stato nelle politiche economiche keynesiane volte a favorire la domanda, o viceversa al ruolo delle politiche di austerità, con tagli al welfare e inasprimenti fiscali, volti a reperire le somme per pagare gli interessi sul debito pubblico).

Ma torniamo al problema delle congiure che potrebbero minacciare il potere costituito, secondo Machiavelli, se il principe persegue ‘grandezza, animosità, gravità, fortezza’, in realtà o in apparenza poco conta, difficilmente le congiure potranno avere successo.Per esperienzia si vede molte essere state le congiure, e poche aver avuto buon fine; perché chi congiura non può esser solo, né può prendere compagnia, se non di quelli, che crede essere malcontenti; e subito che a uno malcontento tu hai scoperto l’animo tuo, gli dai materia a contentarsi, perché, manifestandolo, lui ne può sperare ogni comodità; talmentechè veggendo il guadagno fermo da questa parte, e dall’altra veggendolo dubbio e pieno di pericolo, convien bene o che sia raro amico, o che sia al tutto ostinato nimico del Principe ad osservarti la fede”. Il Principe, Machiavelli.

D’altronde le congiure non possono avere un grande seguito, se il principe ha saputo agire con astuzia e intelligenza, evitando di inimicarsi il popolo e i potenti del regno: ”Conchiudo adunque, che un Principe deve tenere delle congiure poco conto, quando il popolo gli sia benivolo; ma quando gli sia inimico, ed abbilo in odio, deve temere di ogni cosa e di ognuno. E gli stati bene ordinati, e li Principi savi hanno con ogni diligenza pensato di non far cadere in disperazione i grandi e di satisfare al popolo, e tenerlo contento, perché questa è una delle più importanti materie che abbia un Principe”. Il Principe, Machiavelli.

Nel percorso analitico contenuto nel ‘Principe’ è dunque presente la seguente equazione di conservazione del potere, questa equazione è composta da due condizioni e da un risultato conseguente:non far cadere in disperazione i grandi e ‘satisfare al popolo” … ”ingegnarsi che nelle azioni sue (del principe) si riconosca grandezza, animosità, gravità, fortezza” è uguale a non trovare ”nell’altre infamie pericolo alcuno”.

Tuttavia mentre è possibile pensare che il soggetto del potere possa mantenere in piedi, con un atto di pura volontà personale, la rappresentazione della propria grandezza, animosità, gravità, fortezza”, è molto arduo pensare che tale rappresentazione sia accettata come vera dai sudditi quando, invece, viene meno la seconda condizione su cui è basata l’equazione, cioè non far cadere in disperazione i grandi e ‘satisfare al popolo” .

Nel corso della storia, e su un piano generale di trapasso da un modo di produzione ad un altro, viene un momento in cui la contraddizione fra i rapporti di produzione esistenti e la possibilità di ulteriore sviluppo delle forze produttive diventa risolvibile solo con la forza, poiché non è più sussistente quella condizione di conservazione del potere descritta da Machiavelli: non far cadere in disperazione i grandi e ‘satisfare al popolo”  raggiungibile ”Qualunque volta alle università degli uomini non si toglie né roba né onore, (ed essi) vivono contenti ”.

Lo stesso Machiavelli è consapevole che l’equazione del potere può sussistere solo in presenza di determinate condizioni concrete:li Principi debbono le cose di carico fare sumministrare ad altri, e quelle di grazie a lor medesimi. Di nuovo conchiudo, che un Principe debbe stimare i grandi, ma non si far odiare dal popolo. Parrebbe forse a molti, che, considerata la vita e morte di molti Imperatori Romani, fussono esempi contrarii a questa mia opinione, trovando alcuno esser vissuto sempre egregiamente, e mostro grande virtù d’animo, nondimeno aver perso l’imperio, ovvero essere stato morto da’ suoi che gli hanno congiurato contro”. 

Allo scopo di spiegare la rovina di alcuni imperatori romani, Machiavelli inserisce una terza variabile nell’equazione del potere; i soldati. Tale variabile è molto attuale, soprattutto alla luce degli eventi contemporanei e del ruolo giocato in essi dal complesso militare-industriale.  

Ecco le considerazioni di Machiavelli: ”dove negli altri Principi si ha solo a contendere con l’ambizione de’ grandi e insolenza de’ popoli, gl’Imperatori Romani avevano una terza difficultà, d’avere a sopportare la crudeltà ed avarizia de’ soldati; la qual cosa era sì difficile, che la fu cagione della rovina di molti, sendo difficile satisfare a’ soldati ed a’ popoli; perchè i populi amano la quiete, e per questo amano i Principi modesti, e li soldati amano il Principe d’animo militare, e che sia insolente, e crudele, e rapace”.

I soldati, o meglio il complesso militare-industriale che è una componente decisiva della sovrastruttura statale di dominio di una classe sociale, può dunque assumere caratteri di autonomia rispetto al potere politico di riferimento (in determinati periodi storici di trapasso) , può oscillare fra una parte ed un altra, può addirittura agire in senso contrario alla classe sociale dominante (o ad una sua frazione). Esempi storici: la rivoluzione russa (con il passaggio di un parte dell’esercito zarista con i bolscevichi), la Siria (con il passaggio di un terzo dell’esercito dalla parte di una frazione borghese in lotta con altre frazioni di borghesia), il Venezuela (con il passaggio di buona parte dell’esercito dalla parte di una frazione borghese in lotta con altre frazioni di borghesia), e gli esempi continuerebbero.

Riassumiamo con terminologia e concetti marxisti, la triade di fattori dell‘equazione del potere di Machiavelli : 1) popolo (la classe dominata), 2) i potenti (le frazioni di classe dominante meno favorite dallo status quo), 3) i soldati (una componente dell’apparato statale della classe sociale dominante). Generalmente, cioè sulla base di pressioni materiali come la legge capitalistica della miseria crescente, è il primo fattore a muoversi contro lo status quo, e quindi a influenzare in vario modo gli altri due fattori, oppure semplicemente a fornire il pretesto per un rimescolamento della spartizione del potere ai potenti (le frazioni di classe dominante meno favorite), come accaduto durante le primavere arabe.

In questo rimescolamento delle carte del potere il fattore due (i potenti), utilizza una parte del fattore tre (i soldati) e addirittura parte del fattore uno (il popolo – che parteggia per l’una o l’altra frazione borghese) in una lotta per il predominio, definita da Marx lotta tra ‘fratelli coltelli’.

Ma scopriamo gli esempi storici in cui, secondo Machiavelli,  viene meno uno dei fattori che compongono l’equazione del potere: ”Ma vegniamo ad Alessandro, il quale fu di tanta bontà, che tra l’altre lodi che gli sono attribuite, è, che in quattordici anni, che tenne l’imperio, non fu mai morto da lui nessuno ingiudicato; nondimanco, essendo tenuto effeminato, e uomo che si lasciasse governare dalla madre, e per questo venuto in dispregio; conspirò contro di lui l’esercito, ed ammazzollo.”…”Discorrendo ora per opposito le qualità di Commodo, di Severo, di Antonino, di Caracalla, e di Massimino, gli troverete crudelissimi e rapacissimi, li quali, per satisfare a’ soldati, non perdonarono a nissuna qualità d’ingiuria che ne’ popoli si potesse commettere; e tutti, eccetto Severo, ebbero tristo fine”…Ma vegniamo a Commodo, al quale era facilità grande tenere l’Imperio, per averlo ereditario, essendo figliuolo di Marco; e solo gli bastava seguire le vestigia del padre, ed a’ populi e a’ soldati arebbe satisfatto; ma essendo di animo crudele e bestiale, per potere usare la sua rapacità ne’ populi, si volse ad intrattenere gli eserciti, e fargli licenziosi; dall’altra parte non tenendo la sua dignità, descendendo spesso nelli teatri a combattere con i gladiatori, e facendo altre cose vilissime, e poco degne della Maiestà Imperiale, diventò vile nel cospetto de’ soldati; ed essendo odiato da una parte, e dall’altra disprezzato, fu conspirato contro di lui e morto.”… ”Antonino … fu ancor lui uomo eccellentissimo, ed aveva in sé parti eccellentissime, che lo facevano ammirabile nel cospetto de’ popoli, e grato a’ soldati, perché era uomo militare, sopportantissimo di ogni fatica, disprezzatore di ogni cibo delicato, e di ogni altra mollizie; la qual cosa lo faceva amare da tutti gli eserciti. Nondimeno la sua ferocia e crudeltà fu tanta e sì inaudita, per avere dopo molte occisioni particulari morto gran parte del Popolo di Roma, e tutto quello d’Alessandria, che diventò odiosissimo a tutto il mondo, e cominciò ad esser temuto da quelli ancora che egli aveva intorno, in modo che fu ammazzato da un centurione in mezzo del suo esercito.”

Dunque il ventaglio di esempi storici contiene un elemento ricorrente, ed è il seguente: ad un certo punto della parabola politica, al soggetto del potere, o se vogliamo alla élite dirigente (e quindi alla frazione di classe dominante collegata), venendo meno l’appoggio o la sottomissione di uno dei tre fattori dell’equazione, viene sottratto il potere, e molto spesso anche la vita. Nella lettura politica di Machiavelli resta in ombra, tuttavia, l’elemento storico, cioè l’insieme di concause oggettive, che ordinariamente, e in modo  più intenso degli errori soggettivi, sono alla base del rovesciamento della rappresentazione del potere. 

Nelle pagine dedicate a Cesare Borgia (il duca Valentino), Machiavelli non riscontra nessun errore personale nell’agire del suddetto politico e condottiero, possessore indiscusso delle virtù della volpe e del lione. Eppure la sua caduta deve essere spiegata in qualche modo, ed ecco allora il ricorso alla metafora del conflitto fra virtù e fortuna, ma la fortuna che cosa significa, se non il riconoscimento di un piano storico oggettivo, solo parzialmente modificabile dalla virtù soggettiva del principe?

Ecco le vivide righe in cui Machiavelli narra la parabola dell’uomo di cui era stato consigliere e ambasciatore: Se adunque si considererà tutti i progressi del Duca, si vedrà quanto lui avesse fatto gran fondamenti alla futura potenzia, li quali non giudico superfluo discorrere, perché io non saprei quali precetti mi dare migliori ad un Principe nuovo, che lo esempio delle azioni sue; e se gli ordini suoi non gli giovarono, non fu sua colpa, perché nacque da una straordinaria ed estrema malignità di fortuna. […] Raccolte adunque tutte queste azioni del Duca, non saprei riprenderlo, anzi mi pare, come io ho fatto, di proporlo ad imitare a tutti coloro, che per fortuna e con l’armi d’altri sono saliti all’imperio. Perché egli avendo l’animo grande, e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimente; e solo si oppose alli suoi disegni la brevità della vita di Alessandro, e la sua infirmità.”

Ancora in queste righe sembra che Machiavelli voglia spostare l’attenzione sull’origine delle fortune politiche di Cesare Borgia, ovvero la protezione del papa (suo padre naturale), e quindi sul venire meno di questa protezione, alla morte del padre, come fattore di rovesciamento dell’immagine al potere. Tuttavia, in modo impercettibile, fra le righe del discorso machiavelliano, si presenta ora lo scenario di una forza oggettiva (per quanto associata alla fortuna avversa o benevola) che limita la virtù sovrana (volpe e lione) del principe.

 

 

Capitolo quinto: immagini riflesse (conclusioni)

Una linea di pensiero che trova il suo precursore maggiore in Michel Foucault, pone grande attenzione all’analisi del potere come generica capacità di vedere e di sapere. Se non separiamo queste due capacità dalla capacità fondamentale di controllare i processi materiali, economici, di produzione dei beni e dei servizi indispensabili alla riproduzione biologica, allora avremo un quadro realistico della simbiosi funzionale delle tre capacità, che potremmo pure definire capacità di dominazione. In se stessa questa simbiosi non è negativa, essa diventa negativa quando il controllo dell’economia e della sfera del sapere, si trasforma nella prerogativa di una classe sociale parassitaria, anacronisticamente legata alla conservazione di se stessa. Un cadavere che ancora cammina, eppure in grado di vedere, sapere, e controllare i processi economici, in grado di affrontare (per usare la terminologia di Machiavelli)  le ‘rivolte/ingiurie’ dei popoli, e le ‘sedizioni’ dei soldati e dei potenti.  Nel corso del presente lavoro abbiamo riassunto l’equazione del potere suggerita da Machiavelli: controllo dei fattori popolo, potenti e soldati uguale conservazione del potere esistente. Tale equazione è tipica delle società divise in classi, mentre la simbiosi funzionale fra capacità di vedere, sapere e controllare i processi economici pure entrando nel novero delle proprietà/dotazioni indispensabili di una classe dominante, non è un aspetto tipico del dominio di classe. Il controllo generico dei processi economici è presente anche nelle società di condivisione non ancora divise in classi, quello che caratterizza invece la società capitalistica è il controllo dei processi economici al fine di estrarre plus-lavoro/plusvalore dal lavoro umano, per valorizzare il capitale investito nel processo produttivo in un modo tendenzialmente illimitato (e al servizio del parassitismo di una minoranza di borghesi).

Abbiamo iniziato l’attuale ricerca, ricordando che nelle società di condivisione erano presenti manufatti artistici, statuine, medaglie, o anche reliquie, la cui funzione sociale era di natura antitetica a quella che questi stessi oggetti hanno rivestito nelle successive formazioni sociali. 

Nella parte finale del capitolo quarto abbiamo riportato le righe scritte da Machiavelli sugli imperatori deposti o uccisi da rivolte di popolo, congiure di potenti, o colpi di mano militari. Abbiamo poi sottolineato come nel discorso di Machiavelli sia presente la figura della fortuna, che per quanto assimilata dall’autore al caso o alla cieca potenza di un destino insondabile, in realtà è il riconoscimento (di fatto) di una dimensione storico-oggettiva da cui l’azione ”sovrana’ del principe, per quanto ispirata alla doppia virtù del lione e della volpe, non può prescindere, o meglio non può rendersi totalmente indipendente. In fondo, quando in ”Dialogato con i morti’ si ricorda che il partito è prodotto e al contempo fattore di storia, non si fa altro che riconoscere questa realtà di fatto.

Nella caduta di alcuni imperatori, ma generalmente nella caduta di un determinato assetto di potere, l’immagine del potere, la sua rappresentazione, viene capovolta, e al suo posto si afferma il riflesso contenuto nello sguardo dei soggetti che, fino ad allora, erano scrutati dallo sguardo del potere.

L’immagine riflessa del potere, contenuta negli occhi di chi era privo di potere, si afferma come rappresentazione sostitutiva della precedente rappresentazione.

Nella società contemporanea, il grado zero raggiunto dalla relazione fra lo sviluppo attuale delle forze produttive e i rapporti di produzione capitalistici, ovvero la insostenibilità di tali rapporti di produzione, causa di disoccupazione, miseria crescente e guerre, determina un perdurante movimento di svelamento delle maschere/immagini utilizzate dal potere, tuttavia da un altro lato, la residua energia di dominazione della classe borghese, impiegando lo strumento statale, e la sua capacità di violenza latente/cinetica, riesce a neutralizzare sia le ‘congiure’ dei popoli, sia (in parte) il movimento di svelamento delle maschere/immagini utilizzate dal potere. In questo processo gioca un ruolo fondamentale la metamorfosi del pensiero e dell’azione del proletariato, indotta dalla sconfitta dei vari tentativi storici di oltrepassare i rapporti di produzione capitalistici (comune di Parigi, rivoluzione di ottobre), e l’inglobamento conseguente delle organizzazioni operaie nella logica di conservazione/durata del sistema.

Quindi, come sempre, sono le sconfitte pratiche subite nel corso della lotta di classe dal proletariato, e dal suo organo energetico (il partito formale che si muove sulla dorsale del partito storico), a determinare il successivo esito degli eventi storici controrivoluzionari. Le vicende storiche non sono il risultato del cieco caso, per quanto un fattore di imponderabilità non possa mai essere escluso nella tessitura dell’ordito, che è l’antico nome dato dai greci al dipanarsi e intrecciarsi degli eventi, lo strumento del materialismo storico (a patto di saperlo maneggiare) ci consente un grado di approssimazione conoscitiva della realtà, adeguato alle esigenze della lotta di classe.

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