Nota redazionale: con il termine ‘scientismo’ si intende una profonda incomprensione, sia dei caratteri essenziali della scienza moderna, sia del marxismo inteso come conoscenza umana che ingloba anche i metodi e le scoperte della scienza (vedasi ‘Origine e funzione della forma partito’). Come si può evincere dal numero di pagine dell’almanacco anti-scientista, abbiamo molto scritto sull’argomento, ma lo scientismo è stato solo un pretesto per approfondire altri argomenti di più ampio respiro. E’ il caso del lavoro dal titolo ‘Storia e dialettica’ del giugno 2015, o di ‘Scienza, tecnologia e apparato militare-industriale’, novembre 2015. La polemica con gli scientisti-meccanicisti in se stessa non è di nessuna utilità particolare, può invece essere utile, in modo residuale, per ritornare a battere i vecchi chiodi marxisti, con il pretesto di confutare il coacervo di errori prodotti dai cenacoli culturali scientisti.
La vecchia guardia scientista crederà fino alla morte nell’errore, forse quei giovani, da poco attratti dalla erronea novella scientista, potrebbero invece accorgersi che questa novella racconta un mondo irreale, anche se seducente e poetico. In ogni caso ognuno oggi è libero di credere in quello che vuole, così come noi, nell’attuale situazione, ci riteniamo in dovere di criticare le posizioni erronee dei cenacoli culturali che deformano la nostra tradizione.
Sarà poi la lotta di classe a spingere nel dimenticatoio le posizioni sbagliate, e a valorizzare quelle corrette. Ma la lotta di classe si manifesta sempre come prassi, cioè simbiosi di pratica e teoria, sebbene sia l’esperienza pratica a fare da battistrada per la teoria (per il suo progresso). Dunque i testi riportati nel presente almanacco, sono già la confutazione teorica definitiva della deformazione scientista, sono già la lotta di classe, che sul piano della teoria marxista getta nel dimenticatoio le assurdità dello scientismo.
Come in Omero l’aurora dalle dita dorate fa svanire gli incubi notturni, così la critica dello scientismo distrugge la sua mistificazione dei fatti. La critica, anzi, fa ritornare sul piano visibile quei fatti che lo scientismo ha la funzione ‘oggettiva’ di occultare.
E saranno proprio i fatti, il divenire storico, a recitare il meritato ‘requiescant in pace’, alle posizioni sbagliate.
Ovviamente la nostra critica è rivolta alle proposizioni sbagliate, in quanto elemento regressivo della lotta di classe.
Il presente almanacco è utile per i lettori desiderosi di trovare in un unico articolo i testi collegati ad un certo argomento.
Buona lettura
Sull’indebolimento degli Stati: Miscellanea
Presentiamo una raccolta delle analisi pubblicate sul sito sull’argomento dell’indebolimento degli stati.
Esiste un discreto numero di testi, dichiarazioni, commenti originati da fonti diverse, che sostengono la realtà dell’indebolimento degli stati. Noi abbiamo iniziato a percepire la diffusione di questa innovativa problematica almeno da un paio di anni, tentando di comprendere le sue ragioni politiche, i suoi eventuali fondamenti teorici marxisti, e infine la posizione da assumere nei suoi confronti. Se fosse storicamente possibile bypassare le fasi del programma comunista, allora sarebbe bello entrare nel nuovo mondo tanto agognato senza sforzi di lotta e di azione rivoluzionaria. Tutti noi vorremmo che questa utopia si avverasse, ma le utopie sono spesso illusorie, e spesso nascono da una tendenza a spostare sul piano fantastico il faticoso lavoro per cambiare la realtà. Certo, sono anche il segnale di un disagio sociale e della capacità di alcuni gruppi umani di prefigurare mondi alternativi, ci direte, tuttavia raccontare che gli Stati si dissolvono da soli, e quindi il capitale uccide se stesso, può anche rassicurare la classe dominata che è meglio aspettare questi eventi ineluttabili, senza agitarsi troppo. Capitale autonomo, stati che si dissolvono, elementi di socialismo nell’economia sono i tre lati di un teorema fatalista che abbiamo analizzato e de-costruito in vari momenti, tentando di ragionare sul senso di posizioni lontane (a nostro parere) dal marxismo. Il senso politico di queste posizioni innovative è la rivalutazione del gradualismo (lo stato si dissolve lentamente), e al contempo del catastrofismo (il sistema collasserà bruscamente). Sono due posizioni reciprocamente antitetiche, ma non tocca a noi spiegare come possano coesistere nello stesso modello teorico. Noi riteniamo che il vizio ‘filosofico’ originario risieda nel pensiero apodittico, un pensiero che considera come già presupposte delle proposizioni che invece dovrebbero essere prima dimostrate sul piano storico e sociale. Un sofisma apodittico contenente idee astratte dalla verifica storica, non è sottoposto neppure all’obbligo di una interiore coerenza logica, può dunque sostenere (a) e il contrario di (a) senza problemi. La proposizione apodittica potrebbe anche essere formalmente logica, o illogica, perché l’essenziale non è questo aspetto, ma la persuasione che i suoi contenuti siano degli assiomi auto evidenti, già dimostrati in se stessi. Su queste basi di s/ragionamento si può costruire un castello di carte, precario e privo di verifica storica. I testi della miscellanea dimostrano i nessi determinati dell’errore teorico contenuto nella posizione sul dissolvimento degli stati, criticando punto per punto i suoi risvolti non materialisti.
Tratto dalla nota redazionale a ‘Inflazione dello stato’ del 30 agosto 2016.
Quando da qualche parte viene posta come vera l’autonomizzazione del capitale (dai precedenti rapporti di interdipendenza con l’apparato statale), o viene prefigurato un processo di indebolimento degli stati borghesi, si compiono degli errori teorici madornali. Errori che non derivano, chiaramente, dal fatto che un testo del 1949 sostenga delle tesi nettamente e indiscutibilmente opposte alla presunta autonomia del capitale o all’indebolimento degli stati. Quello che conta sono le argomentazioni che, in quel testo, stanno dietro la tesi dell’inflazione (ergo rafforzamento) dello stato. Essendo tesi fondate su una valutazione ‘materialistica’ della funzione dello stato, esse non sono confutabili sul piano della realtà storica. «Lo Stato è un prodotto della Società in una certa fase del suo sviluppo» (Engels). Lo Stato compare quando la società si divide in classi economicamente antagoniste, quando appare la lotta di classe. Lo Stato «è la macchina per l’oppressione di una classe su di un’altra»(Marx).
Dunque, senza abbagli e concessioni alla comune vulgata democratica,‘Inflazione dello stato’ definisce il significato della funzione storica dello statocitando a supporto Engels, Marx e infine Lenin:‘Il mondo capitalistico offre, invece, la decisa ininterrotta concentrazione su estensioni immense delle unità statali, e la dominazione sempre più totale delle grandi sulle piccole. Questo processo è del tutto parallelo all’aumento di ingerenza della macchina statale in tutte le fasi della vita delle popolazioni cui sovrasta, al diffondersi di tale influenza dal campo politico, di polizia, giuridico, sempre più esplicitamente e soffocatamente a quello sociale, economico e fisico. Già in Stato e Rivoluzione (Cap. II Par. 2) Lenin dà di tale processo interno una decisiva analisi riferita a tutti i paesi d’Europa e di America, e soprattutto ai più parlamentari e repubblicani.
«In particolare l’imperialismo, epoca del capitale bancario, epoca dei giganteschi monopoli capitalistici, mostra lo straordinario rafforzarsi della ‘macchina dello Stato’ e la inaudita crescenza del suo apparato amministrativo e militare, in seguito al rafforzarsi della repressione contro il proletariato, tanto nei paesi monarchici che nei più liberi paesi repubblicani». Parole scritte nel 1917′.
La citazione tratta da ‘Stato e Rivoluzione’ collega senza ombra di dubbio ‘lo straordinario rafforzarsi della ‘macchina dello Stato’, al ‘rafforzarsi della repressione contro il proletariato’. Il collegamento è decisivo, infatti il testo del 56 parla di analisi decisiva, perché illustra l’interdipendenza fra due fenomeni reali, dove la mostruosa inflazione dello stato non avrebbe senso se non fosse finalizzata a uno scopo pratico, ovvero al maggiore livello di repressione contro il proletariato. Basterebbe solo questa circostanza per smontare la tesi di opposto contenuto.
Tuttavia i teorici dell’indebolimento degli stati borghesi potrebbero ancora opporre una obiezione di merito, proviamo a riassumerla: perché dovrebbe verificarsi (nel mondo reale) il ‘rafforzamento della repressione contro il proletariato’ e non , invece, una sua integrazione ‘pacifica’ nel welfare semi corporativo delle società borghesi contemporanee?
Inoltre, mettendo accanto a tale obiezione la solita teoria dell’immanenza inesorabile del comunismo, inteso come movimento che abolisce fatalisticamente l’ordine di cose esistente (senza nessun rapporto con le sequenze storiche sperimentate, date da fasi successive e concrete come lotta di classe, partito, rivoluzione, dittatura), allora avremo il quadro più o meno completo del retroterra teorico (almeno di una parte) dei critici dell’inflazione dello stato. Se il movimento opera come una forza naturale, o meglio fatale, nell’abolizione della struttura e sovrastruttura capitalistica, allora queste ultime saranno necessariamente erose dal movimento. Da queste premesse infondate potremo poi dedurre, continuando il cammino della astrazione dai dati empirici , che la struttura economica non può che essere già di fatto comunista, e anche la sovrastruttura statale borghese non si sente poi troppo bene e si indebolisce a ogni piè pari. Spieghiamo il sofisma: la sovrastruttura borghese si indebolirebbe in quanto condizionata da una struttura economica sostanzialmente ‘socialista’. Queste ardite argomentazioni, dei veri e propri sofismi astratti, separati da ogni contatto con la vita vera, nascondono un contenuto politico di marca gradualista, oseremmo dire transizionista, nel senso di essere rivolte esclusivamente verso le secolari fasi di passaggio da una formazione economico-sociale (modo di produzione) ad un altra. Ma il marxismo e la storia reale ci insegnano che un movimento tende verso uno scopo, e questo non è generalmente raggiungibile attraverso l’inerzia di un attesa di fatali eventi catastrofici. Proprio in ‘Dialogato con i morti’ si ricorda, a titolo di smentita di ogni fatalismo finalista, che anche tenendo conto dei fattori socio-economici che condizionano e tendenzialmente vanificano la cosiddetta libertà della volontà individuale, è pur vero, di converso, che il partito, in determinate situazioni storiche, non solo è soggetto detentore di scienza (teoria invariante), ma anche di volontà e libertà ( nel senso della possibilità di fare, scegliere, concentrare la libera volontà nella scelta di strade differenti, e quindi di esercitare un influenza diretta sul corso degli eventi storici ). Dunque, in termini schematici e generali, possiamo sostenere che un movimento tende a uno scopo, di cui, molto spesso, solo una frazione dei partecipanti è consapevole. Sul piano storico-sociale, gli ostacoli materiali che fanno da freno alla realizzazione dello scopo, vengono superati da una sequenza di azioni coscienti e libere (da parte di pochi) e non libere e non consapevoli da parte di molti (vedasi ‘Dialogato coi morti’). Il momento della realizzazione dello scopo del movimento storico è brusco, violento, può essere confuso con una catastrofe naturale, ma non lo è. Esso è invece l’acme di un processo di lotta in cui è sintetizzata la necessità e la libertà, il cieco impulso e la scienza, il piano oggettivo dei condizionamenti economici e quello soggettivo della libertà della volontà nella forma partito. Dialettica storica fra coppie di contrari, polemos (eraclitea) al posto dei gradualismi in cui il movimento è tutto (Bernstein) e il fine conta niente. Polemos prima di tutto, quindi lotta di classe, conflitto, guerra madre di tutte le cose, soprattutto nel divenire delle fasi storiche di transizione. Torniamo all’obiezione di partenza, perché allora non ha senso veritativo l’astratto sofisma sull’indebolimento degli Stati?
La proposizione sull’indebolimento degli stati borghesi è confutata dall’esperienza storica reale, ovvero dai processi socio-economici capitalistici studiati ed esposti principalmente nell’opera di Marx. Ci riferiamo, in questo caso, alle chiare previsioni di Marx in merito all’aumento del dispotismo capitalistico di fabbrica. L’aumento della repressione contro il proletariato (e la conseguente inflazione dello stato) è collegata all’aumento dello sfruttamento della forza-lavoro, cioè all’esigenza economico-aziendale di incrementare l’estrazione/appropriazione di plus-lavoro/plus-valore assoluto e relativo (in conseguenza di una ‘storica’ tendenza alla caduta del saggio medio di profitto). Non bisogna dimenticare che anche l’impoverimento crescente, legato all’aumento dell’esercito industriale di riserva (e dunque al maggiore impiego di capitale costante nel processo produttivo aziendale) gioca un ruolo, insieme alla spaventosa concentrazione di masse umane diseredate nelle metropoli urbane, nell’aumento della repressione.
Dunque possiamo ipotizzare una interdipendenza dialettica fra l’azione capitalistica di aumento dello sfruttamento, l’incremento dell’esercito industriale di riserva, la spaventosa concentrazione di masse umane diseredate nelle metropoli urbane e la conseguente tendenza della classe borghese al rafforzamento dell’attrezzatura di oppressione statale. Infine questo rafforzamento, finalizzato a una maggiore ‘repressione contro il proletariato’ è allora da intendersi come un mezzo per contrastare il maggior grado di antagonismo – potenziale o attuale – del proletariato, posto in essere dal progressivo peggioramento della propria condizione di vita oppressa, sfruttata e impoverita. Inoltre non è da trascurare la circostanza della lotta basica, permanente, fra aggregati di potenza capitalistici: ‘La inflazione dello Stato ha nel mondo modernissimo due direzioni, quella sociale e quella geografica, territoriale. Sono intimamente connesse. La seconda è fondamentale. Stato e territorio sono nati insieme. Engels nell’Origine della famiglia della proprietà e dello Stato dice infatti: Lo Stato in primo luogo si distingue dinanzi all’antica organizzazione della gens della tribù o del clan, per la ripartizione della popolazione secondo il territorio’….Quanto alla estensione del territorio, il mondo antico ci presenta piccole unità statali ridotte alla città e grandi Imperi derivati da conquiste militari, il Medio Evo ci mostra piccoli autonomi Comuni e grandi complessi statali. Il mondo capitalistico offre, invece, la decisa ininterrotta concentrazione su estensioni immense delle unità statali, e la dominazione sempre più totale delle grandi sulle piccole’….Alla vigilia della seconda guerra generale era già chiaro, sia per l’ulteriore evoluzione monopolistica del grande capitalismo, sia per quella della tecnica militare che sempre più richiedeva masse di mezzi economici formidabili, che ogni Stato avente pochi milioni di abitanti non poteva esercitare alcuna autonomia economica diplomatica o militare e doveva porsi nell’orbita e nella soggezione di uno più grande.Fu così evidente che nel nuovo gioco diplomatico e militare avrebbero contato solo i grossi bestioni statali, i quali solo potevano far conto su forze apprezzabili nella guerra soprattutto dei mari e dell’aria, lunga, ingombrante, costosa a preparare, richiedente oltre che immensi capitali grandi distanze geografiche tra le basi e i confini politici’.
Non è dunque il caso di aggiungere altre riflessioni, l’inflazione dello stato emerge come una caratteristica inconfutabile, dall’intero testo del 1949, perché la ‘macchina dello Stato’ e la inaudita crescenza del suo apparato amministrativo e militare, (deve) rafforzarsi (a causa) della (maggiore)repressione contro il proletariato, e poi perché ‘nel nuovo gioco diplomatico e militare avrebbero contato solo i grossi bestioni statali’.
Tratto da ‘Complessità e metodo dialettico’ luglio 2016
Nell’ultimo anno abbiamo dedicato un certo spazio allo studio di talune posizioni, a nostro modesto avviso minate da gravi errori teorici. Proviamo ora a riepilogare il contenuto di una parte di queste posizioni, sfocianti regolarmente in letture deformate della realtà socio-economica. Il fatto che gli autori di queste letture presuppongono di utilizzare una metodologia marxista, è un dettaglio che non deve meravigliare, o trarre in inganno. Nel marasma caotico della decadenza sociale borghese vale la stessa critica che la scuola eleatica riservava agli uomini dalla doppia testa, cioè a coloro che dicono tutto e il contrario di tutto, nello stesso istante, contemporaneamente. Fare ossequio formale al metodo e alla teoria marxista, e poi sostenere delle letture della realtà lontane dal contenuto scientifico di questa teoria è un segno dei tempi (oltre che espressione di una incallita ars funamboli degna di miglior causa). Dunque entriamo nel dettaglio delle posizioni, a nostro giudizio, distanti dal realismo marxista. Una delle prime ‘stranezze’ che abbiamo letto e criticato, è quella sugli stati borghesi che si starebbero indebolendo/devitalizzando. Bene, abbiamo in passato esposto alcune evidenze storiche in obiezione a tale lettura, e mai abbiamo ricevuto risposte o contro argomenti da chicchessia. L’evidenza principale è questa: il marxismo sostiene il rafforzamento degli apparati burocratici e polizieschi statali, in ragione del fatto che aumentando nel corso dello sviluppo capitalistico i proletari senza occupazione e reddito, e il grado di sfruttamento dei proletari occupati, dovrà aumentare anche il potenziale di scontro sociale di classe, e dialetticamente lo stato borghese dovrà rafforzarsi per fare fronte al pericolo della bomba a orologeria sociale innescata dalle dinamiche stesse del capitalismo. Allora, chi sostiene il contrario, quali argomenti può opporre? Non abbiamo ricevuto nessuna risposta alle evidenze storiche elencate, infatti la tesi che sostiene l’indebolimento degli stati è una tesi apodittica, non dimostrabile, basata su sofismi astratti dalla realtà storica. In garbata polemica qualcuno ci ricorda che il pensiero e la metodologia di indagine marxista sono imperniati su processi logico dialettici induttivi e deduttivi, che fanno impiego di schemi astratti. Lo sappiamo anche noi. Gli schemi e le astrazioni (nate da precedenti verifiche esperienziali) sono delle fasi di un processo conoscitivo che si conclude, però, con il ritorno al concreto, attraverso la verifica scientifica storico/fattuale. E questo non è empirismo o concretismo, ma corretta metodologia di ricerca basata sull’uso di schemi astratti, leggi tendenziali socio-economiche, storicamente invarianti, tasselli non di metafisiche verità assolute (il presunto determinismo assoluto), ma parti necessarie di un processo conoscitivo composto da approssimazioni successive al vero, al complesso, al non ancora svelato. Ora ci chiediamo da dove nasce la strana idea degli stati borghesi in via di indebolimento. In primo luogo da un altro errore, quello del comunismo inteso come movimento meccanico, fatalista, di abolizione della società capitalistica (movimento in cui la lotta di classe e il partito, stranamente, sono assenti o quasi ). Questo è un errore a sua volta originato dall’adesione a una concezione materialistica volgare, pre-marxista, basata sull’idea di scienza (borghese) come sostituito della teologia, e quindi come corollario della verità vera e assoluta (il presunto determinismo assoluto). Le chiare lettere di Marx, Engels e Lenin sulla conoscenza materialistico-dialettica, da intendere come processo di approssimazione al vero, evidentemente, per i moderni scientisti non significa nulla. Dunque, se nella storia umana viene erroneamente postulato un processo meccanico finalistico (alias movimento reale) verso il comunismo, allora è inevitabile che gli stati borghesi vengano erosi e indeboliti da questo movimento. Tale sillogismo è formalmente corretto, anche se infondato dal punto di vista della realtà economico sociale svelata dalle scoperte scientifiche del marxismo. Dunque il sillogismo è corretto, ma solo a patto di accettare come vera l’idea di un movimento che erode gradualmente gli assetti di potere della società esistente, e quindi anche gli stati. Chiunque può notare la vicinanza al riformismo gradualista, come esito finale di questa concezione. Sul piano sociale effettuale il movimento reale è la lotta di classe, lotta che determina (in un certo momento di acuto scontro e quindi di massima percezione dei processi reali ) una teoria invariante (storicamente), e un partito (storico e formale) che si richiama a quella teoria, e ne fa programma politico. Il fatto che il cambiamento storico (e quindi il movimento reale) , nel marxismo, avvenga sulla base di bruschi salti dialettici (risultanti dell’interazione di oggettivo e soggettivo) , non ha importanza per gli assertori delle transizioni naturalistiche, graduali e meccaniche. In questa visione (meccanico/scientista) gli stati si indeboliscono perché la società capitalistica è vecchia, e poiché i vecchi sono notoriamente deboli, anche lo stato borghese deve essere debole. La controprova negativa presente nella storia reale, controprova data dal fatto che gli stati borghesi non si spengono da soli, non si suicidano, ma vengono soppressi/distrutti dal conflitto sociale proletario (comune di Parigi, Russia), o temporaneamente disgregati dall’azione di altri stati borghesi, non ha nessun rilievo. Nel caso iniziale, la soppressione violenta produce una nuova impalcatura statale proletaria, i cui scopi e funzioni sono antitetici alla precedente attrezzatura borghese. Nel secondo caso, la disgregazione è il momento di partenza di una successiva ricostruzione, funzionale agli interessi capitalistici endogeni ed esogeni che hanno favorito la disgregazione del preesistente apparato statale. Ricordare questi dati ci espone all’accusa di empirismo e concretismo dai cultori delle proposizioni apodittiche, ignari degli esiti storici e concettuali aporetici di queste proposizioni, in definitiva prive di uscite sul piano della storia reale, e dunque chiuse in una prigione di astratti sofismi e rudimentali tautologie.
Brexit …7 luglio 2016
Alcuni moderni e raffinati divulgatori del concetto di società liquida, sostengono senza ripensamenti la preponderanza delle grandi imprese trans e multinazionali sulla forma stato. Costoro sostengono che gli Stati hanno ormai perso delle prerogative che in passato erano di loro competenza esclusiva, in quanto sarebbero i grossi gruppi aziendali a dettare la politica economica, fiscale e anche estera delle nazioni.
Dunque vivremmo in una società liquida, una società basata sull’effimero quotidiano, dove le relazioni umane perdono ogni aggancio con le precedenti (discutibili) certezze, a tutto vantaggio del soggetto liquido, consumatore frenetico di merci superflue, come una parte della moderna sociologia sostiene. Questa condizione generalizzata comporterebbe anche un indebolimento degli stati, o meglio la loro esautorazione da parte del capitale transnazionale, autonomo e libero di vagare nei circuiti di valorizzazione sia finanziaria che industriale, senza obblighi e vincoli di legge e di stato che tengano. Potremmo anche non considerare del tutto peregrine le considerazioni sul fatto che al moderno membro della società capitalistica venga chiesto di consumare (e soprattutto di farsi sfruttare nel processo produttivo). Le due attività (in fondo estremamente coercitive) sono complementari, ed entrambe funzionali al dominio della minoranza sociale borghese. Tuttavia non ci sembra neanche verosimile la proposizione che afferma l’indebolimento dello strumento statale, a tutto vantaggio di un capitale autonomo (bancario, finanziario o industriale che sia).
Questo nostro scetticismo deriva da una considerazione di tipo storico: come si può sostenere una proposizione dal contenuto simile a quella appena esposta, quando l’apparato statale è notoriamente una espressione del potere di una classe sociale dominante, e quindi la sua funzione è quella di permettere a determinati rapporti di produzione, cioè interessi, attività economiche, capitali autonomi di questa classe sociale di continuare ad esistere ?
Quale esautoramento può esserci se i due termini del rapporto, cioè economia capitalistica e apparato statale borghese sono interconnessi, e l’uno implica l’altro?
Chi sostiene che la moderna economia transnazionale sta depotenziando gli stati capitalistici nazionali non si rende conto che gli stati sono depotenziati, nella realtà storica contemporanea, solo da strategie, azioni, rivolgimenti, messi in opera da stati capitalistici più potenti, evidentemente interessati ad ottenere vantaggi particolari dalla rovina di determinate aree o nazioni.
La storia recente di Libia, Siria, Iraq, e Ucraina dovrebbe spingere a riflettere sui motivi geopolitici ed economici che si nascondono dietro la disgregazione di determinati stati, evitando di parlare di processi di auto-produzione, quando la genealogia dei fenomeni in oggetto è essenzialmente di origine esogena, e rientra a pieno titolo nella tipologia del confronto/scontro fra potenze capitalistiche concorrenti. L’abbiamo detto e ridetto, alla luce di evidenze storiche inconfutabili, anche se la semplice demistificazione teorica delle illusioni borghesi non basta a convincere coloro che hanno fede in queste madornali sciocchezze. Certe pseudo verità sono di tipo apodittico, dei puri sofismi, accettati dal seguito del capo carismatico di turno in modo fideistico, mentre ogni obbligo di dimostrazione scientifica degli assunti assiomatici viene gettata alle ortiche.
Nella realtà gli stati non si indeboliscono, ma invece si rafforzano (nella loro capacità di dominio e controllo). Questa non è una affermazione apodittica o assiomatica, infatti essa non deriva da un puro ragionamento sofistico, ma poggia le sue basi su due leggi tendenziali, scientifiche, del modo di produzione capitalistico (storicamente verificate): l’incremento del grado di sfruttamento sui luoghi di lavoro (sia nei termini del plus-valore assoluto che di quello relativo), e l’aumento della popolazione inoccupata, povera, pauperizzata. Questi due fattori, sulle cui cause non ci dilungheremo, costituiscono la base materiale per un incremento potenziale della conflittualità sociale (un incremento del conflitto sociale proletario, a cui la borghesia deve opporre, dialetticamente, un rafforzamento del proprio apparato di oppressione statale). Se i due fattori elencati sono reali, come sostiene il marxismo, allora non si comprende perché anche l’incremento del dispotismo aziendale e statale (già indicati da Marx) debbano essere sostituiti dalle bislacche idee sull’indebolimento degli stati.
Tratto da ‘L’assalto del dubbio revisionista…nota redazionale 2 giugno 2016
Nota redazionale: Pubblicato sul numero 5 della rivista Prometeo del 1947, il testo si pone retoricamente la domanda se è ‘ sempre valida la impostazione critica formulata dal marxismo’. La domanda è posta come pretesto, all’interno di un percorso argomentativo in cui si utilizza l’ars retorica nella sua accezione positiva: cioè quella di uno strumento per conseguire la dimostrazione di un contenuto opposto al senso della domanda iniziale. Le verifiche storiche precedenti al 1947 contengono già la risposta al quesito retorico: non ci sono possibilità di trasformazione sociale alternative al percorso autenticamente marxista-rivoluzionario.
Quindi cosa rispondere a coloro che si chiedono ‘suggestivamente se non era (è) possibile, evitando il sanguinoso epilogo della guerra di classe, inserire in un placido graduale tramonto della società borghese il generarsi delle nuove forze della società del lavoro’.
Il testo del 1947 affronta tali dubbi, chiarendo che ‘Dinanzi a questi recenti e vecchi dubbi critici, va riproposta nei suoi termini essenziali la posizione critica propria del partito di classe del proletariato al confronto dei dati dei nuovi tempi’.
Il marxismo, inteso come teoria storicamente invariante, ha svelato la correlazione delle varie formazioni sociali con determinati modi di produzione, ha descritto il loro sorgere e il loro trapasso sulla base di condizioni oggettive e soggettive interdipendenti di tipo economico-sociale e politico. Questa teoria è dunque l’arma teorica più efficace di critica e lotta alla società capitalistica (da parte del proletariato e dei transfughi della classe dominante). Le linee guida di questa teoria sono state fissate nella fase di un acuto scontro di classe, intorno alla metà del 1800, quando più nitida è apparsa la scena reale del conflitto sociale fra forze opposte, portatrici di opposte visioni dell’esistenza e di antitetiche missioni storiche.
I sostenitori della variabilità del contenuto qualitativo del programma comunista, nei suoi aspetti sia di tattica che di strategia, fanno continuo appello alla evidente mutevolezza dell’esistenza, per giustificare l’esigenza di innovare il corpus teorico marxista. Tuttavia se qualcosa muta, è anche vero che prima del mutamento c’era qualcosa che non mutava, qualcosa che per un certo tempo ha mostrato dei caratteri fondamentalmente (storicamente) costanti, caratteri su cui è in seguito intervenuto il mutamento. Fintanto che l’organismo socio-economico capitalistico esiste, le sue caratteristiche fondamentali sono quelle descritte dal marxismo, e quindi resta valida per la classe proletaria l’indicazione programmatica marxista che ‘è quella della organizzazione di essa (la classe) in un partito politico, depositario della teoria critica rivoluzionaria, che inquadra le forze avverse alla classe dominante, e le conduce nella lotta contro di questa (…) che realizzerà la trasformazione del vecchio meccanismo economico.’
Il testo del 1947 fornisce lumi, almeno a nostro avviso, anche su un altro errore ricorrente fra le file dei ‘modificatori/innovatori’ della teoria marxista: questo errore presenta generalmente una articolazione triadica nella lettura della realtà sociale, ovvero; meccanicismo, economicismo, scientismo. Vediamo di cosa si tratta, provando a riassumere brevemente le note distintive di tale errore, un errore che si sostanzia prima di tutto nella ingenua formulazione di un rapporto assoluto (uni-lineare) fra causa ed effetto (meccanicismo): in modo particolare le cause puramente economiche (aumento del capitale costante, centralizzazione aziendale, crisi economica) sarebbero le determinanti univoche del mutamento sociale (al di là di ogni aspetto politico/sociale collegato ai rapporti reali di forza fra le classi). Quindi, ritagliando sulla realtà sociale l’abito della propria concezione deformata del mutamento sociale, l’economicismo meccanicista sfocia infine nello scientismo, cioè nella lettura dei fatti umani alla luce della scienza borghese. Il socialismo scientifico diventa semplice utilizzazione dei parametri della scienza che c’è in questa società, in nome dei presunti cedimenti teorici dell’apparato scientifico contemporaneo al marxismo. Il concetto di ideologia si applicherebbe, per i nostri scientisti, al diritto, all’economia politica, a certe produzioni filosofiche e letterarie, mentre l’attuale scienza ne sarebbe in parte immune, in modo da consentirci poi di teorizzare/prevedere anche sulla scorta dei suoi progressi, collassi e catastrofi naturali del sistema borghese. Vediamo cosa dice invece il testo del 1947:(il modo di produzione capitalistico) ad un certo stadio dello sviluppo, non può più contenere nei suoi schemi di organizzazione sociale, statale e giuridica queste enormi forze (che ha contribuito a sviluppare), e cade in una crisi finale per il rivoluzionario prorompere della principale forza di produzione, la classe dei lavoratori, che attuerà un nuovo ordine sociale…La via attraverso la quale questa classe raggiunge il suo posto di nuova protagonista della storia è quella della organizzazione di essa in un partito politico, depositario della teoria critica rivoluzionaria, che inquadrale forze avverse alla classe dominante, e le conduce nella lotta contro di questa‘.
I fattori principali della crisi finale del regime borghese sono dunque di tipo economico e socio-politico,ovvero ‘il rivoluzionario prorompere della principale forza di produzione, la classe dei lavoratori’. Dunque è una forza umana, sociale, che apre la via, verso un nuovo ordine sociale, organizzandosi in un partito politico, partito funzionale all’inquadramento (di questa stessa forza sociale) in efficace energia di lotta contro la classe dominante.
Dunque è il conflitto di classe, tendente, è vero, ad acutizzarsi a causa del periodico, sistemico, incremento del grado di sfruttamento e oppressione messo in atto dal regime socio economico borghese, a costituire il motore del mutamento. In definitiva è la principale forza di produzione, la classe dei lavoratori, con le sue lotte coscientemente indirizzate dal programma comunista del partito, depositario della teoria critica rivoluzionaria, ‘che attuerà un nuovo ordine sociale‘.
L’errore meccanicista/scientista converge infine nel gradualismo, anzi potremmo sostenere, a ragion veduta, che esso è solo l’altra faccia della medaglia gradualista. Infatti, se si sostiene che il mutamento sociale trova origine su un piano semplicemente uni-lineare di causa ed effetto, come per il riflesso condizionato studiato in da Pavlov negli anni venti, allora il progetto cosciente umano, il programma politico del ‘partito politico,depositario della teoria critica rivoluzionaria, che inquadra le forze avverse alla classe dominante, e le conduce nella lotta contro di questa’( quindi la rete di interdipendenza dialettica della totalità dell’essere reale, sul piano storico e sociale), perde il senso e il ruolo decisivo nei processi di cambiamento, ruolo che invece il testo del 1947 continua ad attribuirgli, è il caso di dirlo, senza nessuna ombra di ‘dubbio revisionista’.
6 giugno 2015. Sul cosiddetto indebolimento degli stati borghesi.
Proviamo ora, con tanta pazienza, a considerare la seguente proposizione ‘Il de-potenziamento del potere degli apparati statali nel governo della società è un dato reale, e i borghesi ne sono coscienti ’.
Il corsivo è nostro, e ha lo scopo di ricordare l’aspetto cruciale del passaggio ai fini del significato complessivo del periodo. Quali dati a noi ancora sconosciuti consentono di fare affermazioni siffatte?
Sarebbe interessante saperlo, perché così potremmo anche noi archiviare finalmente le valutazioni contenute nel testo ormai vetusto degli anni 50: ‘Imprese economiche di Pantalone ’.
Cosa diceva quel testo ‘Poiché nella situazione storica del XVII, XVIII, XIX secolo la rivoluzione capitalista doveva avere forme liberali, nel XX ha forme totalitarie e burocratiche. La differenza dipende non da fondamentali variazioni qualitative del capitalismo, ma da enorme divario di sviluppo quantitativo, come intensità in ogni metropoli, e diffusione sul pianeta. E che il capitalismo alla sua conservazione come al suo sviluppo e ingrandimento adoperi sempre meno ciancia liberale, e sempre più mezzi di polizia e soffocamento burocratico, vista bene la linea storica, non induce ad esitare menomamente che questi stessi mezzi dovranno servire alla rivoluzione proletaria. Maneggerà questa violenza, potere, stato, e burocrazia: dispotismo, dice col termine peggiore il manifesto di 103 anni addietro; poi saprà disfarsi di tutto‘.Imprese economiche di pantalone p.63.
Abbiamo scritto, a proposito di tali considerazioni, in un lavoro pubblicato sul nostro sito:
‘Se abbiamo ben compreso, il capitalismo, nella fase di massima intensità in ogni metropoli, e diffusione sul pianeta, proprio a causa del suo enorme sviluppo quantitativo, e quindi delle tensioni e dei conflitti che si innescano per la contraddizione esistente fra accumulazione capitalistica e crescita della sovrappopolazione, ha il vitale bisogno sistemico di operare in forme totalitarie e burocratiche, cioè di manifestarsi con sempre più mezzi di polizia e soffocamento burocratico ’. ‘Dalla guerra come difesa e offesa….’
Potremmo citare altri passi del lavoro teorico della corrente convergenti verso le stesse posizioni, ma ci sembra inopportuno, perché, a questo punto, vorremmo solo chiedere ai sostenitori del de-potenziamento degli apparati statali di renderci edotti sulle loro fonti, sulla documentazione, sicuramente attendibile, che li conduce a esprimere valutazioni così diverse dalle considerazioni contenute nei testi degli anni 50 e oltre. Sarebbe importante per noi avere queste informazioni, così potremmo lietamente condividere il giubilo di questi compagni quando affermano che il potere degli stati sta venendo meno, e i borghesi se ne stanno rendendo conto (Come sappiamo che i borghesi se ne stanno rendendo conto ? E’ stato fatto un sondaggio in rete, porta a porta, oppure è stato consultato un astrologo?). In fondo è proprio vero, l’esistenza del filone di pensiero meccanicista-collassista lo dimostra, l’essere umano può venire imprigionato nella cella più buia e angusta, ma il pensiero resterà comunque libero di volare in alto, nelle dimensioni della fantasia e dell’immaginazione dove nessuna gabbia può imprigionarlo. Nella realtà sociale (al di fuori del regno beato della fantasia e dell’immaginazione ) il moderno Moloch statale si rinforza ogni istante di più, proprio perché, in un processo di risposta dialetticamente determinista, deve fronteggiare il disordine sociale e le minacce politiche causate dalle leggi immanenti della economia capitalistica. Se si indebolisse, se non fosse così dispoticamente onnipervasivo, vorrebbe significare che la società classista ha smesso di esistere. Vorrebbe significare che il sistema è giunto al collasso meccanico, senza neppure il fastidioso bisogno di azioni pratiche, politiche, soggettive, accessorie e complementari all’implosione oggettiva, meccanica, della formazione economico-sociale capitalistica. Il conflitto di classe, la sua valenza di motore della storia, in quanto urto colossale di processi sociali incarnati da esseri umani reali (senzienti e volitivi), nelle interpretazioni meccanicistiche del marxismo, viene completamente azzerato e assorbito dalle meccaniche celesti della dimensione economico-strutturale. Siamo al riflesso condizionato pavloviano: dal momento che i fondamentali economici non ci sono più, ergo il sistema collassa, deve collassare, non può non collassare. (Ma già negli anni 50 era un cadavere, eppure ancora camminava…)
Marx scrive, in varie occasioni, che il capitale è il nemico di se stesso, cioè che il suo sviluppo pone le condizioni per il suo superamento, e una di queste condizioni basiche è l’esistenza del proletariato: la classe sociale storicamente destinata a chiudere i conti con il modo di produzione borghese. Quindi si parla di attori sociali umani, che operano all’interno di circostanze storiche determinate, relative a una certa struttura economica e a una certa sovrastruttura politico-ideologica. Classi sociali che entrano in conflitto e innescano giganteschi processi di mutamento sociale sulla scorta della contraddizione esistente fra il grado di sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione capitalistici: rivoluzione e controrivoluzione si contendono il campo storico dei nostri tempi, ma la controrivoluzione è solo la risposta dialettica alla potenza della minaccia rivoluzionaria determinata dalle stessi leggi immanenti dell’economia capitalistica. Alcune volte può sembrare che le vicende sociali che vediamo scorrere sul rullino del tempo storico siano assolutamente inevitabili, essendo innegabile la forza dei fattori condizionanti, gli attrattori sistemici economico-sociali, svelati dall’analisi marxista. Tuttavia questa considerazione può fuorviare e allontanare dalla corretta valutazione del rapporto esistente fra dimensione oggettiva e soggettiva nella genealogia dei fenomeni storico-sociali, cioè del rapporto esistente fra volontà politica soggettiva e determinanti di causa oggettivi. A tal proposito i nostri amici meccanicisti scrivono, il comunismo diviene, non viene realizzato… è vero, a patto di ricordare che il divenire non è un semplice terremoto naturale, una semplice meccanica indipendente dalla volontà cosciente dell’uomo ( materialismo volgare con annesso finalismo), ma il movimento reale degli esseri umani (azione, volontà, pensiero), inserito in un orizzonte di circostanze storiche condizionanti (attrattori sistemici, leggi immanenti della produzione capitalistica).
Ma queste circostanze storiche condizionanti, dipendono in gran parte dall’uomo, è l’uomo stesso ad averle poste in essere, e quindi è l’uomo che crea il Moloch capitalista, ed è l’uomo che supera questo Moloch attraverso la lotta di classe che consente il rovesciamento della prassi (vedi traiettoria e catastrofe, nella parte in cui si parla del lavoro morto, cristallizzato in capitale costante, che da elemento di asservimento dell’umanità -nella forma sociale capitalistica- si trasforma in condizione materiale di emancipazione dal tempo di lavoro -nella forma sociale senza classi, in cui la legge del valore ha smesso di essere nella forma capitalistica)
La macchina statale è controllata dal complesso finanziario … una ossatura di controllo invadente ed anonima …ultima configurazione del tragitto attestabile del Capitale.
Un anonimo comitato di affari, sovranazionale , che opera con disposizioni sempre più inefficaci… Una sovrastruttura politico-economica, che sostituisce e assorbe le precedenti funzioni di governi e Stati.
Miscellanea sul capitale autonomo
Abbiamo sopra sintetizzato alcune idee sulla autonomizzazione/centralizzazione del capitale (o dei capitali) che a nostro avviso non inquadrano in modo teoricamente corretto la questione, peraltro già affrontata negli anni 50 dalla corrente. Possiamo essere convinti anche noi che la macchina statale borghese sia al servizio della classe sociale borghese, e quindi soprattutto (ma non esclusivamente) della frazione più parassitaria del parassitismo borghese (il capitale finanziario), tuttavia il termine sovrastruttura politico-economica (inteso nella sua accezione non marxista), snatura il processo dialettico di distinzione-compenetrazione (duale) fra struttura economica e sovrastruttura politico-statale postulata dal marxismo.
Ci sovviene la vecchia formula che denunciava nello stato il comitato di affari della borghesia. Il testo ‘Stato e rivoluzione’ potrebbe contenere qualche piccola traccia di questa formula. Nella presente miscellanea riprenderemo parti tratte da ‘Chaos imperium’, integrando le sue analisi con delle riflessioni sull’argomento contenute in altri articoli successivi. Circola dai tempi di kautskyuna idea ricorrente, questa idea sostiene che il capitalismo monopolista e centralizzatore conduce il corso degli eventi verso la negazione di se stesso, cioè verso la creazione ‘meccanica’ di una economia socializzata. In ‘Chaos Imperium‘ abbiamo argomentato contro questa azzardata previsione, eccovi dunque alcuni passaggi di quel testo, e a seguire di altri due testi (Complessità e metodo dialettico, e Tre letture deformanti dei processi socio-economici capitalistici).
Si ricorda inoltre il contenuto del testo pubblicato il giorno 11 settembre 2016‘Appunti sulla questione dell’interdipendenza fra struttura economica e sovrastruttura politico-statale’.
Chaos Imperium parte sesta
Prometeo, ottobre 1946.
‘…alla situazione di guerra è succeduta, per ora, una situazione di dittatura mondiale della classe capitalistica, assicurata da un organismo di collegamento dei grandissimi stati che hanno privato di ogni autonomia e di ogni sovranità gli stati minori ed anche molti di quelli che venivano prima annoverati fra le grandi potenze. Questa grande forza politica mondiale esprime il tentativo di organizzare in un piano unitario l’inesorabile dittatura della borghesia…’ (Prometeo)L’organismo di collegamento a cui si allude nel testo è, almeno a livello di incontri e consultazioni formali, la risorgente organizzazione delle nazioni unite.
Nel testo contenuto in Prometeo c’è una valutazione in termini di tendenze, e infatti viene usata non a caso la parola ‘tentativo’ in riferimento al piano unitario della inesorabile dittatura della borghesia. Non ritroviamo dunque nessuna adesione al cosiddetto teorema del super-imperialismo. Andando avanti nella lettura, emerge pienamente il contesto storico-economico in cui trova sostanza e giustificazione l’ipotesi relativa alla possibile manifestazione di determinate tendenze di sviluppo capitalistico sul piano politico-sovrastrutturale.
‘La possibilità di questa prospettiva più o meno lunga di governo internazionale totalitario del capitale è in relazione alle opportunità economiche che si presentano alle impalcature pressoché intatte dei vincitori – primissima quella americana – di attuare per lunghi anni proficui investimenti nell’accumulazione capitalista follemente progressiva nei deserti creati dalla guerra e nei paesi che le distruzioni di essa hanno ripiombato dai più alti gradi dello sviluppo capitalistico ad un livello coloniale’.(Prometeo) Dunque il testo in questione si limita a sostenere che la ricostruzione post-guerra, ovvero le opportunità economiche di ‘attuare per lunghi anni proficui investimenti nell’accumulazione capitalista’, sono, in modo materialistico, in relazione con ‘La possibilità di questa prospettiva’.
Dunque ancora una volta si esprime solo una cauta lettura delle potenzialità (possibilità)di sviluppo del divenire storico della società capitalistica, evitando ogni affermazione slegata dai dati oggettivi del contesto di riferimento socio-economico.
Riportiamo ora un passo di Prometeo in cui si dirada anticipatamente ogni eventuale dubbio sul piano unitario di organizzazione borghese, quindi sul super-imperialismo ( d’altronde già liquidato da Lenin), e sul reale significato delle enunciazioni circa ‘La possibilità di questa prospettiva’(di vita di un piano unitario, o di governo internazionale totalitario del capitale). ‘La prospettiva fondamentale dei marxisti rivoluzionari è che questo piano unitario di organizzazione borghese non può riuscire ad avere vita definitiva, perché lo stesso ritmo vertiginoso che esso imprimerà alla amministrazione delle risorse e delle attività umane, con lo spietato asservimento delle masse produttrici, ricondurrà a nuovi contrasti e a nuove crisi, agli urti fra le opposte classi sociali e, nel seno della sfera dittatoriale borghese, a nuovi urti interimperialistici tra i grandi colossi statali’. (Prometeo)
Quindi è lo stesso ritmo vertiginoso di amministrazione delle risorse e delle attività umane, cioè è la stessa dinamica economica immanente al modo di produzione capitalistico che, nel testo appena riportato, inficia in partenza la vita di ‘questo piano unitario di organizzazione borghese’, togliendogli ogni carattere di definitività. Ribadiamo ulteriormente questi concetti per chiarire che la lettura del confronto/scontro fra i blocchi capitalistici concorrenti si innesta proprio sulla constatazione del carattere conflittuale della società borghese (conflitto fra classi diverse, intese come sfruttati e sfruttatori, e conflitto all’interno delle stesse classi). Conflitto di classe e ‘urti interimperialistici tra i grandi colossi statali’ vanno dunque riconosciuti come un dato immanente, cioè come una caratteristica ineliminabile della società borghese. La nostra lettura delle vicende belliche in corso in Ucraina e in Siria ha tentato e tenta proprio di analizzare le forme concrete che assumono gli urti (interimperialistici) fra i grandi colossi statali contemporanei, mostrandone le sottostanti determinazioni socio-economiche, e anche gli attuali limiti (gli arsenali nucleari posseduti da Russi e Americani) verso una possibile conflagrazione bellica totale. Tuttavia abbiamo anche mostrato come l’esigenza comune (ai vari fratelli coltelli borghesi) di una distruzione di capitale costante e variabile in eccesso, cioè di mezzi di produzione tecnici e forza lavoro umana, ottenibile anche con una guerra totale, trovi comunque una sua realizzazione attraverso gli effetti derivati della stessa economia capitalistica (non ci dilunghiamo su questi effetti, abbondantemente decritti nel lavoro dal titolo ‘Dalla guerra come difesa e offesa alla guerra come sterminio di forza-lavoro in eccesso’)’.
‘Lo schema classico del marxismo contiene la previsione del tentativo di direzione dell’economia da parte dello stato borghese e della classe borghese secondo ‘piani’, e contiene la previsione del ‘totalitarismo fascista’, che è appunto il metodo di stretta organizzazione di classe della borghesia, che al tempo stesso dirompe il movimento operaio ed impone date autolimitazioni, con cui, a fini appunto di classe, tenta di frenare entro dati limiti l’impulso di ogni singolo capitalista e di ogni singola azienda verso il suo isolato vantaggio’. Imprese economiche di pantalone. Pag.51.
Anche queste righe accennano alle previsioni marxiste in merito al tentativo di direzione dell’economia da parte dello stato. Riepiloghiamo: le leggi tendenziali di sviluppo dell’economia capitalistica dimostrano la predominanza della riproduzione allargata del capitale su quella semplice (che caratterizza invece anche altri modi di produzione). Concentrazione e centralizzazione dei processi di produzione e distribuzione di merci eservizi vanno di pari passo con l’aumento di peso del ruolo delle banche e della finanza, che sono intermediari fondamentali dei movimenti del capitale monetario fra le varie SPA, movimenti intesi come acquisto e vendita di azioni da parte di privati o addirittura come partecipazioni azionarie da parte della SPA (XX Tizio), nei confronti del capitale sociale azionario della SPA (YY Caio). Questi intrecci di capitale avvengono con l’intermediazione delle banche e sono uno dei segni della centralizzazione verso cui tende l’economia capitalistica (le imprese sono costrette ad aumentare le dimensioni aziendali per contrastare la caduta percentuale del saggio di profitto medio, determinata dall’incremento della parte costante del capitale a detrimento di quella variabile). Ora i suddetti processi economico-aziendali confluiscono verso un quadro generale di interdipendenza e connessione della gestione delle varie imprese, che configura gli sviluppi monopolistici che sono descritti da Lenin e infine anche ‘la previsione del tentativo di direzione dell’economia da parte dello stato borghese e della classe borghese secondo ‘piani’, ma il tentativo di direzione è per l’appunto un tentativo ( e si scontra con gli involucri definiti da Lenin ‘rapporti di economia privata e di proprietà privata’ che fanno da contraltare alla socializzazione della produzione e al tentativo di direzione dell’economia secondo piani). In altre parole il grado di sviluppo delle forze produttive (inteso come interdipendenza e connessione delle attività economiche e quindi come conseguente aumento della potenza produttiva) si scontra con i rapporti sociali di produzione esistenti( ‘rapporti di economia privata e di proprietà privata’ ). La storia reale dimostra che l’involucro putrescente di questi rapporti (di dominazione di classe) non è stato ancora rimosso ( e sulle cause di questa circostanza si rinvia, fra l’altro, alle analisi di Lenin sull’aristocrazia operaia, i sopraprofitti e l’opportunismo).
‘Non è il ritorno alla barbarie, ma l’avvio alla super-civiltà che ci sta fregando in tutti i territori, cui sovrastano i mostri delle super-organizzazioni statali contemporanee’.
Imprese economiche di pantalone’. Pag.62.
‘Le grandi imprese controllano la produzione mondiale e gli stati del mondo. La classe proletaria deve assaltare le grandi imprese: non perché ‘gruppi monopolistici’ ma proprio perché grandi imprese. Che non saranno battute se non sono battuti i grandi stati politici.‘ Imprese economiche di pantalone’.Pag.108.
Il complesso di significati contenuto nelle citazioni riportate, a nostro avviso, richiama in modo inequivocabile due concetti: in primo luogo la fase di sviluppo del capitalismo contemporaneo dimostra il rafforzamento totalitario degli apparati di oppressione statali (in quanto necessario e inevitabile aspetto funzionale alla conservazione del dominio di classe borghese), e in secondo luogo la considerazione che le imprese multinazionali e la società capitalistica ‘non saranno battute se non sono battuti i grandi stati politici ‘.
Parte nona: Rinascita del teorema kautskiano in forme differenti ( ipostasi del lato economico-strutturale e postulazione di un imperialismo globale)
Sotto il termine imperialismo globale, reperibile in varie e recenti pubblicazioni, si nasconde il vecchio teorema kautskiano del super-imperialismo. Sfogliando alcune di queste pubblicazioni si può leggere che fra le cinque condizioni basiche postulate da Lenin per inquadrare l’imperialismo, le prime tre si sono rivelate storicamente vere, mentre le ultime due non sono al momento confermate (in parte o del tutto) dal divenire storico empiricamente verificabile. Per inciso le due condizioni suddette sono le seguenti: ‘4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo; 5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche. L’imperialismo è dunque il capitalismo giunto a quella fase di’ sviluppo, in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di capitale ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici’.Lenin, Imperialismo…
La critica si fonda sui seguenti ragionamenti; il capitale monopolistico multinazionale ha ormai raggiunto una tale ‘possanza’ e concentrazione economico-aziendale che riesce a utilizzare gli stati, secondo le contingenze e le opportunità, come semplici terminali dei propri input di comando, svuotando quindi i suddetti stati della loro residua apparenza di sovranità e autonomia rispetto alla struttura economica capitalistica. Inoltre anche le attuali diatribe geo-politiche fra gli attori statali imperiali e nazionali, per l’accaparramento di risorse e plus-valore, sarebbero in effetti una pura forma di auto-inganno e di auto-rappresentazione delle direzioni politiche, in realtà tutte eterodirette dal capitale mondiale unificato, che proprio per questo motivo è definito ‘imperialismo globale’. Lo stesso concetto di grandi potenze capitaliste, declinato da Lenin al plurale, viene soppresso dalla potenza unica e accentrata dell’imperialismo globale. Quindi anche le lotte reali fra apparati militari-industriali capitalistici, gli scontri fra fratelli coltelli borghesi, il quotidiano sterminio di capitale vivo in eccesso ad essi sotteso, diventano un orpello accessorio, o meglio una pura apparenza che nasconde la gloria eterna dell’impero globale del capitale unificato. Ritroviamo potenti echi teologici in questa concezione, infatti il capitale globale che si appropria di volta in volta degli stati borghesi per farne l’uso che vuole, ricorda da vicino l’anima (atma) eterna che si incarna di volta in volta nei corpi mortali attraverso il ciclo delle morti e delle rinascite. Nel Mahabaratta il principe Arjuna si duole per la morte e la sofferenza che ha inferto a tanti nobili guerrieri, e allora sorge il dio Krisna per rassicurarlo, svelandogli che egli ha colpito solo dei corpi, che sono il temporaneo veicolo dell’anima, mentre quest’anima è sempre salva e non può essere raggiunta da nessun colpo sferrato dalla mano dell’uomo. Anche il presunto imperialismo globale, in queste recenti letture (ma anche in Kautsky), è assimilabile analogicamente alla super-dimensione animica, in questo caso ad una illusoria e mistificatrice sfera estranea al divenire storico dialettico reale, in cui al posto del rapporto dialettico (e concretamente determinato) fra struttura economica capitalistica e sovrastruttura statale borghese, si postula una ipostasi antistorica del solo lato economico-strutturale del rapporto. Tentando di utilizzare in modo parziale talune citazioni di Marx, queste letture mirano di fatto a negare il carattere contraddittorio e conflittuale del modo di produzione capitalistico, presentando come lotte di facciata le lotte reali e feroci fra fratelli coltelli borghesi. Immaginando un imperialismo globale, e quindi una presunta cessazione delle lotte fra capitali e borghesie concorrenti, viene inoltre svalutato, di conseguenza, il ruolo specifico delle sovrastrutture statali nazionali nella difesa degli interessi delle proprie borghesie di riferimento. Inoltre, non si comprende il rapporto di azione e reazione fra struttura e sovrastruttura, sottovalutando la circostanza che la forza di un apparato statale, pur dipendendo dalla potenza della base economica, è a sua volta, in quanto forza, un fattore in grado di condizionare la stessa base economica. Si comprende, tuttavia, il sottinteso politico di questa lettura della realtà, lo scopo consiste nel fornire, in certi casi, a una certa ‘sinistra’, le motivazioni teoriche per continuare ad invocare la nascita di un vero super-stato europeo, in grado di esorcizzare quest’anima vagante dell’imperialismo globale, ristabilendo welfare per i ceti ‘sfortunati’ e sovranità statale sui mercati finanziari e sulle banche; in altri casi, lo scopo è quello di immaginare, sulla scorta di Kautsky, un età dell’oro imminente, semplicemente sull’onda della socializzazione della produzione realizzata dall’imperialismo globale. Considerazioni finali: il capitalismo produce a ciclo continuo merci inutili, lontane dai bisogni reali umani, esercitando in questo campo notevoli doti di fantasia, ma anche nel campo della sua produzione ‘scientifica’ non sono rari gli esempi di racconti veramente notevoli per la intrinseca potenza fantastica.
Complessità e metodo dialettico
Torniamo a presentare ed analizzare qualche altra ‘perla’ concettuale partorita dalla vulcanica attività di travisamento tipica dei tempi. È ora il turno del capitale autonomo, un incauto neologismo basato sempre sul teorema assurdo degli stati in via di indebolimento. La variazione sul tema consiste, in questo caso, nel postulare la non dipendenza dei capitali in cerca di investimenti redditizi da un apparato statale di riferimento. Non è il caso di dilungarsi troppo nella confutazione di tale concetto, nato forse anche da una incomprensione del significato economico-aziendale delle imprese multinazionali e transnazionali, dei loro bilanci, della differenza fra sedi legali e filiali estere, basterà ricordare che come la produzione capitalistica avviene su base concorrenziale-aziendale, anche il capitalismo globale si sviluppa su una base concorrenziale ineliminabile (in caso contrario non sarebbe capitalismo, come ben esposto da Lenin e da noi ripreso in Chaos imperium ), e quindi si sviluppa per aree economiche ed economie nazionali concorrenti (e gli intrecci di capitali non smentiscono tutto questo, non pongono in essere nessun superamento delle rivalità fra stati, cioè fra aziende, aree economiche ed economie nazionali, ma anzi le accentuano, come ricorda Lenin in ‘Imperialismo fase suprema del capitalismo’). Gli stati borghesi sono strettamente correlati a queste realtà capitalistiche intese in senso ascendente, ripetiamolo, come aziende, aree economiche e infine economie nazionali. Esiste un rapporto di dipendenza funzionale fra Stato ed economia, verificato storicamente, e dunque non si comprende il senso del teorema sul cosiddetto ‘capitale autonomo’. Non è da pappagalli ricordare che, senza una attrezzatura statale, una classe sociale non potrebbe dominare, e inoltre il capitale prima di essere una quantità economica è un rapporto sociale di dominazione, reso possibile, in ultima istanza, da un apposito apparato statale. Quindi non può esistere una autonomia del capitale dagli Stati, essendo, stato e capitale, l’espressione comune della violenza storica di una classe sociale ai danni di un altra classe sociale. Se il ribadire queste deduzioni marxiste, vuol dire essere assimilabili ai pappagalli, allora ci dicano i critici quali sono le nuove fonti di ispirazione a cui essi si abbeverano. Altra variazione sul tema è l’idea di una struttura statale europea espressione del capitale finanziario, cioè espressione della volontà di regolare l’anarchia dei mercati e di controllare i fenomeni più distruttivi e indisciplinati del capitalismo. Una volontà incrinata da recenti tendenze disgreganti.
Non si comprende perché il capitale europeo abbia in passato deciso di regolare l’anarchia dei mercati con uno strumento super-statale, e ora invece che emergono delle forti divergenze di interessi fra Inghilterra, Francia e Germania, tenda a regredire agli stati nazione di partenza . Non è credibile affermare che le varie economie nazionali abbiano prima tentato di regolare l’anarchia e ora, sotto la spinta della crisi del 2008, tornino alla giungla del si salvi chi può. In realtà l’unica regolazione, alla base della stessa unione europea, come ben chiarito nell’articolo ripubblicato da noi a marzo, e risalente agli anni 60, avente come oggetto l’Europa unita, sono sempre gli equilibri di potere fra opposte aree economiche ed economie nazionali. L’anarchia capitalistica trova regolazione solo nella legge del più forte, sempre vigente, sempre attiva. Taluni, invece, mostrano di credere che il comitato di affari abbia l’intenzione di regolare l’anarchia del mercato, questa è la tesi socialdemocratica. Invece lo stesso comitato /governo /stato è espressione di un rapporto di forza, un equilibrio fra potenze e interessi. È la forza, regolata solo dalla vittoria o dalla sconfitta ottenuta nello scontro pratico con altre forze, che determina i temporanei equilibri di potere vigenti in tutti i governi e comitati di affari della borghesia. La regolazione degli interessi capitalistici, come scopo apparente del comitato d’affari, altrimenti detto superstato europeo, è una impostura, in quanto sono gli interessi predominanti stessi che dettano legge dentro i comitati/superstati, e dettano legge sulla base degli esiti di scontri precedenti che hanno decretato la vittoria di certi interessi e la sconfitta di altri interessi. Il testo degli anni sessanta parla infatti di accordi leonini in merito ai patti europei dell’epoca, cioè di accordi miranti a stabilizzare la posizione di privilegio di certe forze capitalistiche a svantaggio di altre.
Tre letture deformanti dei processi socio-economici capitalistici
Secondo qualcuno il capitale globale è ormai autonomo dai condizionamenti politico-economici nazionali, vaga quindi libero per i circuiti economico-finanziari del globo alla ricerca del miglior rendimento, etereo, senza essere esposto a minacce e attacchi da parte di capitali concorrenti o di masse di sfruttati. La concorrenza è scomparsa, siamo al super-imperialismo kautskiano. Questa insostenibile leggerezza dell’essere del capitale pone le condizioni (nella concezione di chi sostiene questa tesi) per l’ininfluenza del ruolo degli stati. Lo stato borghese, espressione primaria del dominio di una classe sociale detentrice del monopolio dei mezzi di produzione, e quindi padrona del processo di creazione del plus-valore economico determinato dal plus-lavoro estorto ai proletari, non è più decisivo per la perpetuazione dei rapporti di produzione capitalistici. Il capitale è puro spirito, disincarnato dal corpo-corazza della sovrastruttura statale. La dialettica struttura sovrastruttura, a cui ci aveva abituato una deprecabile passione per l’invarianza storica del marxismo, è da buttare nel deposito dei ferri vecchi. Non avevamo capito nulla, il capitale si è autonomizzato, e la dimostrazione di questo è nelle ultime notizie sulle ‘fughe’ di capitali dalla Cina. Perbacco, qualcuno ha scoperto che ci sono dei capitali alla ricerca di verdi pascoli di valorizzazione, in lidi lontani dalla patria natia. Leggiamo invece Marx, terzo libro del capitale, SEZIONE III LEGGE DELLA CADUTA TENDENZIALE DEL SAGGIO DEL PROFITTO CAPITOLO 14, CAUSE ANTAGONISTICHE. ”Un’altra questione — che per il suo specifico carattere esula veramente dal campo della nostra indagine — è la seguente: il saggio generale del profitto risulterà accresciuto in conseguenza del più elevato saggio del profitto prodotto da un capitale che sia investito nel commercio estero e soprattutto coloniale?
I capitali investiti nel commercio estero possono offrire un saggio del profitto più elevato soprattutto perché in tal caso fanno concorrenza a merci che vengono prodotte da altri paesi a condizioni meno favorevoli; il paese più progredito vende allora i suoi prodotti ad un prezzo maggiore del loro valore, quantunque inferiore a quello dei paesi concorrenti’. Proviamo a ragionare su questo passaggio, i costi di produzione definiti in ‘Programma Comunista’ 1954, sono: ‘Capitale costante più capitale variabile più profitto al saggio medio sociale uguale valore del prodotto’. Tuttavia, a causa del differente impiego di capitale costante esistente fra diverse economie capitalistiche, o anche fra aree economiche incluse nella stessa economia nazionale, accade che ‘il paese più progredito vende allora i suoi prodotti ad un prezzo maggiore del loro valore, quantunque inferiore a quello dei paesi concorrenti’. Riprendiamo ad analizzare il concetto: le merci prodotte in un ‘paese più progredito’ dal punto di vista tecnico-economico, comportano alle imprese capitalistiche dei costi di produzione inferiori (a causa del maggiore utilizzo di capitale costante), rispetto alle merci prodotte nei ‘paesi concorrenti’, quindi meno progrediti dal punto di vista tecnico-economico (in cui il costo di produzione è maggiore a causa del prevalente impiego di capitale variabile, cioè lavoro salariato). Il vantaggio competitivo determinato dalla riduzione dei costi di produzione per unità di prodotto, è proprio determinato dalla possibilità di ottenere (con il commercio estero) ‘un saggio del profitto più elevato soprattutto perché in tal caso… (I capitali investiti nel commercio estero)…fanno concorrenza a merci che vengono prodotte da altri paesi a condizioni meno favorevoli’. Ragioniamo su uno schema contabile astratto; ipotizziamo una merce ‘xwz’ il cui costo di produzione è così determinato: quota capitale costante € 10, quota capitale variabile/salario € 1, profitto al saggio medio sociale (nazionale) € 2. il costo di produzione unitario è quindi 13 €. Lo stesso tipo di merce xwz’ viene prodotta ‘da altri paesi a condizioni meno favorevoli’, cioè quota capitale costante € 3, quota capitale variabile/salario € 11, profitto al saggio medio sociale (nazionale) € 3,5. il costo di produzione unitario è quindi 17,5 €. Si comprende così perché ‘il paese più progredito vende allora i suoi prodotti ad un prezzo maggiore del loro valore quantunque inferiore a quello dei paesi concorrenti’ (in questo esempio basterebbe anche vendere la merce ‘xwz’ sul mercato estero al prezzo unitario di 14,5 €, per ottenere un profitto medio unitario superiore di € 1,5 rispetto ai 2 € offertici dal mercato interno della ‘nostra’ economia nazionale). Inoltre è evidente che il prezzo di vendita più basso rispetto a quello dei concorrenti esteri, ci assicurerebbe il successo competitivo insito nel mantra liberista della riduzione dei costi di produzione per unità di prodotto. Tuttavia la concorrenza fra imprese produttrici di merci dello stesso tipo, realizzate a costi di produzione più bassi o più elevati, nel medio-lungo periodo non può che spingere le imprese dell’area economica meno avanzata a ridurre il divario tecnologico-produttivo con i concorrenti più progrediti. Fino a quando il divario tecnologico non è colmato, valgono come stratagemmi concorrenziali alternativi l’intensificazione della produttività del lavoro (plus-valore relativo) o l’allungamento vero e proprio della giornata lavorativa (plus-valore assoluto). Queste due strade classiche della concorrenza economico-aziendale potrebbero ora spiegare la ‘fuga’ dei capitali cinesi (magari in Vietnam o in Africa), e riportare con i piedi per terra la lettura del fenomeno empiricamente verificato della ‘fuga’ di capitali, separandolo dalle giustapposizioni aprioristiche, cioè dalle forzature interpretative miranti a cercare nella realtà, ad ogni costo, la verifica di un teorema precostituito. Invece, sulla base della invariante conoscenza marxista delle leggi economiche capitalistiche, semplicemente contenute nel terzo libro del Capitale, è possibile navigare senza troppi scossoni fra i procellosi fenomeni del divenire socio-economico contemporaneo.Staccandoci da questa conoscenza invariante la nostra piccola barca rischia di smarrirsi, perché la percezione e il sapere del timoniere, cioè la sua bussola, diventa una bussola impazzita. Riprendiamo il testo di Marx , ‘Fino a che il lavoro del paese più progredito viene in tali circostanze utilizzato come lavoro di un peso specifico superiore, il saggio del profitto aumenta in quanto il lavoro che non è pagato come lavoro di qualità superiore, viene venduto come tale. La stessa situazione si può presentare rispetto ad un paese con il quale si stabiliscono rapporti di importazione e di esportazione: esso fornisce in natura una quantità di lavoro oggettivato superiore a quello che riceve e tuttavia ottiene la merce più a buon mercato di quanto non potrebbe esso stesso produrre….Per quanto riguarda i capitali investiti nelle colonie ecc., essi possono offrire un saggio del profitto superiore sia perché di regola il saggio del profitto è più elevato in questi paesi a causa dell’insufficiente sviluppo della produzione, sia perché con l’impiego degli schiavi e dei coolies ecc. il lavoro viene sfruttato più intensa mente’.
Libro terzo del Capitale, le righe appena riportate sono state dunque scritte negli ultimi decenni del 1800, eppure ancora oggi, anno domini 2016, qualcuno scopre che il capitale cinese rincorre ‘un saggio del profitto superiore’, cercando occasioni di investimento in poli di valorizzazione situati al di fuori dei confini nazionali. Dunque il capitale sarebbe ormai autonomo dai condizionamenti degli apparati statali nazionali, e starebbe volando gioioso come una pura espressione metafisica, libera da fastidiose interazioni prosaiche con i fattori geo-storici, politici, militari. Un capitale che opera in uno spazio socio-economico scevro dalla maledizione degli equilibri di potere e dei rapporti di forza fra potenze concorrenti. Non solo Marx ed Engels, ma anche secoli di pensiero e di opere improntate ad un sano sforzo di realismo politico (Hobbes, Machiavelli, Guicciardini, Vico) vengono rivoluzionate da queste ardite speculazioni sul capitale autonomo. La dialettica complessità delle relazioni sociali reali e quindi dei rapporti di forza fra agenti e fattori economici, finanziari, politici, militari, tecnico-scientifici, giuridici e culturali in senso ampio, vengono ridotte monisticamente ad uno (l’autonomia del capitale). La complessità del reale viene idealisticamente azzerata, ma in cambio otteniamo una bussola impazzita, e così ancora una volta il piccolo legno che doveva portarci verso l’isola sicura del comunismo ci trascina verso l’ignoto.
La ricchezza delle nazioni, ovvero la massa di lavoratori salariati da impiegare nei processi produttivi di nuovo valore e quindi plus-valore, poiché ‘Scopo determinante del processo capitalistico di produzione è la maggior possibile auto-valorizzazione del capitale, la produzione di plusvalore più grande possibile, e quindi il maggiore sfruttamento possibile della forza-lavoro’. Marx. In Cina abbiamo osservato e osserviamo da vari anni delle tendenze e sperimentazioni (su larga scala) di forme di organizzazione del lavoro estremamente dispotiche, parliamo di quel fenomeno economico-aziendale definito come ‘fabbrica totale’. Le lotte proletarie cinesi contro le condizioni di vita e di lavoro in queste ‘fabbriche totali’ sono state già analizzate in un articolo pubblicato nel giugno 2015, inoltre nel gennaio 2016 abbiamo pubblicato un altro articolo sul plus-valore assoluto e relativo in Cina. La ‘fabbrica totale’, i suoi modelli organizzativi e produttivi vengono esportati e impiantati in altre aree economiche del globo, insieme ai famosi capitali ‘autonomi’: pensiamo solo alla repubblica Ceca e al Messico. Nell’area economica di provenienza e nelle aree economiche di destinazione, questi modelli produttivi e organizzativi di azienda capitalistica possono continuare ad essere un luogo dispotico di sfruttamento della forza-lavoro solo perché, oltre a fornire il minimo dei mezzi di sussistenza al lavoratore attraverso un salario, sono anche difesi dai pericoli del conflitto sociale (innescato dalle periodiche rivendicazioni economiche e legali immediate della classe salariata) dalla funzionale attrezzatura statale di oppressione (attrezzatura che lungi dall’indebolirsi, come anche in questo caso sostiene qualche sognatore, si rafforza invece di pari passo con il rafforzarsi dello sfruttamento e del dispotismo aziendale). L’incremento del dispotismo di fabbrica, che noi ravvisiamo nel modello aziendale cinese, è stato già facilmente preconizzato da Marx, insieme al correlato aumento dello sfruttamento necessario a limitare gli effetti della caduta del saggio di profitto. Aumento dello sfruttamento, aumento della povertà in senso assoluto e relativo, e quindi rafforzamento degli strumenti di oppressione statali e del dispotismo di fabbrica. Ecco un lineare esempio di conoscenza invariante di alcuni non secondari aspetti del modo di produzione capitalistico.
Concludiamo con alcune riflessioni.
L’apparato statutale capitalista rappresenta il deposito di energia della classe sociale borghese; energia che può mostrarsi in forma latente-potenziale (quando il conflitto sociale ristagna), oppure in forma cinetica-attualizzata quando il conflitto sociale esplode minaccioso. Nessun capitale aziendale potrebbe sopravvivere in un certo territorio, in un certo distretto industriale, in una certa area economica, senza una legislazione amica, composta da norme la cui efficacia venga garantita dalla forza repressiva/dissuasiva di apposite attrezzature statali. Infatti, in termini di dottrina generale del diritto (ad esempio Kelsen), si riconosce che l’efficacia della norma, cioè il suo rispetto da parte della maggioranza dei cittadini, è condizionato da due fattori principali: in primo luogo un certo grado di consenso sociale verso il contenuto della norma, e in secondo luogo l’esistenza di adeguate sanzioni miranti a colpire le sue violazioni da parte di eventuali trasgressori.
L’apparato poliziesco-giudiziario rappresenta dunque il braccio esecutivo del potere politico-legislativo (ambito volitivo) che noi definiamo come sovrastruttura di dominio borghese, funzionale alla vita della struttura economico-produttiva capitalistica. L’organismo socio-economico capitalistico può esistere solo nell’ambito di una interazione funzionale fra struttura e sovrastruttura, quindi la postulazione di scenari di autonomia del capitale (cioè della struttura economica, rispetto alla sovrastruttura politico-statale) è anti-materialistica e senza nessun fondamento storico, oltre che assurda dal punto di vista della logica dialettica. L’apparato statale svolge un ruolo fondamentale anche nel confronto/scontro fra i fratelli coltelli borghesi, intendendo con questa espressione le opposte frazioni di borghesia che si contendono periodicamente le risorse energetiche, le vie di trasferimento, e il bottino di plus-valore ottenibile dal plus-lavoro della classe proletaria. Rifiutare questi dati di fatto significa rifiutare la realtà storica per quello che è, condannandosi alla totale incomprensione della società capitalistica.
La seconda sirena è quella delle proteste del ceto medio. Questa sirena intona un canto struggente che attira molti ingenui a ripetute e dolorose delusioni, sempre negate e nascoste a quelli che, come noi, li avevano avvisati del pericolo.
Lo ripetiamo da molto tempo, a tutti gli allocchi che si lasciano ricorrentemente ammaliare da questa sirena, che bisogna stare attenti e in campana.
Il capitalismo, in base alle sue leggi economiche, cerca di compensare la caduta del saggio di profitto con l’aumento dello sfruttamento, e con l’ulteriore riduzione dei costi aziendali del lavoro attraverso un maggiore impiego di capitale costante ( oltretutto alla base della ulteriore caduta del saggio di profitto, in quanto fattore di riduzione del lavoro vivo nella produzione, e quindi riduzione del lavoro umano che è la fonte del pluslavoro/ plusvalore/ profitto).
La miseria crescente, la disoccupazione, i tagli al Welfare, gli aumenti fiscali, l’esproprio di fatto di riserve patrimoniali a una parte del ceto medio e all’aristocrazia operaia, innescano delle proteste ( da parte del ceto medio) contro la incipiente proletarizzazione.
Storicamente, tali proteste sono sempre andate a sostegno di un cambiamento politico autoritario del regime borghese, che imponesse con metodi ultracoercitivi ai proletari il peso di un maggiore grado di sfruttamento, in modo da salvare il ceto medio dalla proletarizzazione.
Quindi il significato ultimo delle proteste del ceto medio è il puro scaricabarile sulle spalle del proletariato dei costi che il sistema aveva riservato a questo ceto.
Allora, se le cose stanno così, cosa risponderemo, nel 2019, ai soliti ingenui che ci accuseranno di essere indifferenti alle proteste del ceto medio?
Diciamo che ogni risposta sarebbe inutile, data la componente di presunzione e di sicumera che caratterizza il tipo standard di soggetto attivistico.
In qualche articolo recente e meno recente (ad esempio quello che precede il presente) abbiamo stigmatizzato la pessima abitudine di forzare oltre i limiti consentiti dal contesto storico-culturale l’interpretazione dei testi. Nel luglio del 2015 scrivevamo in ‘Aristocrazia operaia e caso Grecia‘, prendendo spunto dalle obiezioni poste da un lettore, che ‘ I testi recentemente riproposti sul sito, pubblicati prevalentemente negli anni sessanta da ‘il programma comunista’, rimarcano e chiariscono senza alcun bisogno di ulteriori interpretazioni esegetiche, l’origine e la funzione del partito comunista, e in modo particolare il suo ruolo insostituibile nei processi di mutamento sociale.Sulla base di considerazioni dedotte dalle variegate esperienze storiche, vengono in quei testi formalizzate delle inequivocabili linee in ordine al problema politico del partito. In assenza di una modificazione della natura socio-economica del regime capitalista, non si comprende la preoccupazione di chi ritiene importante ulteriormente dissertare sul centralismo organico, o sul vero significato di una parola o di un presunto pensiero recondito dei compagni che negli anni passati hanno elaborato una coerente concezione del partito. Ferma restando la possibilità di scolpire e mostrare in tutti i suoi lati una determinata conoscenza, storicamente invariante, appare comunque superflua o addirittura fuorviante la pretesa di possedere, al di là delle inequivocabili pagine prodotte dalla corrente in tempi diversi, la giusta chiave di lettura per comprendere, oggigiorno, cosa pensava e cosa voleva davvero dire un certo compagno, quando ha contribuito alla stesura di determinati documenti politici. Documenti che, oltretutto, avevano anche lo scopo di mettere fine al balletto delle interpretazioni, degli aggiornamenti e delle revisioni innovative. Di fronte a questi sofismi, e ai sottintesi intenti di rottamazione pratico-teorica della funzione e del ruolo della forma partito, anche a costo di apparire schematici e dogmatici, si ritiene, valido il motto latino ‘la carta canta’. Di conseguenza si ritiene che vada nettamente criticata la ulteriore interpretazione di concetti, presenti in documenti, chiari e inequivocabili, al fine di sostenere una certa linea politica nettamente dissonante con il contenuto di quegli stessi documenti. Non vogliamo qui addentrarci nel campo della semiotica, e della polemica sulla semiosi illimitata, cioè sulla possibilità di attribuire significati illimitati a un certo significante (testo, opera d’arte, oggetto, azione e via dicendo). Infine proprio uno dei fondatori della semiologia, Peirce, oltre un secolo fa, sosteneva realisticamente che il processo di semiosi si inserisce in un contesto storico – culturale che orienta e limita le possibilità di lettura, e quindi di attribuzione di significati, rispetto a un certo ente significante. La semiosi illimitata è quindi valutata da Peirce come una pratica possibile, talvolta in ambiti ed esperienze particolari (arte, follia…..), tuttavia da ritenersi impraticabile nella vita sociale reale. I limiti dell’interpretazione sono dunque dati dal contesto materiale, storico e socio-culturale, in cui si attualizza l’attività di semiosi. In altre parole una variazione del tema: l’essere sociale determina la coscienza. Centralismo organico e partito possono dunque essere letti con sfumature di significati lievemente diversi, accentuando il peso di un aspetto più di un altro, e tuttavia non è semiologicamente e politicamente ammissibile negare il complesso degli aspetti strutturali dei due concetti (centralismo organico e partito), o addirittura proporre interpretazioni in contraddizione con il senso attribuito a questi due concetti (che si implicano reciprocamente), rispetto alle letture prevalenti (politicamente e culturalmente) su base storico-sociale. Questa base storico-sociale (determinata dal livello raggiunto dal conflitto sociale di classe, e dagli insegnamenti passati e presenti ad esso collegati ) ci fornisce il dizionario e l’enciclopedia per comprendere il significato storicamente plausibile e accettato dei due concetti. Chi insiste pervicacemente in letture eccentriche rispetto al senso ben centrato sulla base reale dell’interpretazione politica prevalente, deve assumere su di sé i rischi di ricadere nel caos della semiosi illimitata, e quindi nella fuga da quella realtà determinatamente suscettibile di possedere certi significati (e non altri) all’interno di un certo contesto socio-culturale‘.
Anche in un altra nota redazionale scrivevamo:‘Nonostante le smentite dei testi, i sostenitori del neo-spontaneismo fatalista, si aggrappano lo stesso a espressioni (crollo, catastrofe…) rinvenute in qualche testo della corrente, senza avvedersi che tali espressioni hanno (in quelle pagine) un significato antitetico’.
Ora leggiamo le parole di questo testo del 1948, non per mera passione antiquaria, ma perché nonostante siano passati quasi settant’anni, ancora ci capita di osservare i soliti giochetti di trasformazione del significato complessivo di un testo, e quindi è interessante verificare la concordanza di vedute rispetto al fenomeno in oggetto: ‘trovare frasi staccate che sembrino giustificare le deformazioni dei revisionisti … Ma citazioni simili sono possibili soltanto a patto di valorizzare l’accessorio ed eliminare l’essenziale…Cosi, l’accessorio di una frase superata o citata a metà serve a camuffare l’essenziale del tradimento, che consiste nel non essere più dialettici’…Così, la frase rubata a Marx dai riformisti, dagli staliniani e dai trotzkisti, è agitata da questi per mascherare l’appoggio dato alla reazione…rubare l’accessorio della frase di Marx per tradirlo nell’essenziale’.
Accessorio ed essenziale, l’aspetto accessorio rifulge quando si scorpora una riga, una parola, dal contesto discorsivo in cui essa è inserita (e in cui è autenticamente pregna del significato che gli spetta). La deformazione è quindi una azione prevaricatrice (violenta) sulla forma (significante), cioè sulla parola o sulla riga, che staccate e deviate dal contesto iniziale, vengono quindi de-formate, in un certo senso violentate, allo scopo di alterarne il significato originario (essenziale). Uno dei nostri compiti è dunque la restaurazione del senso (cioè dello spirito essenziale) dei testi violentati dalle sempre ricorrenti deformazioni: una restaurazione che serve a tenere affilata la lama della teoria e della critica marxista, in quanto insostituibile arma di lotta per il comunismo.
Nota 2 : Cosa distingue una lettura attendibile da una inattendibile? E quale segnale ci fa accorgere che una interpretazione è sbagliata?
Sono domande a cui non è semplice rispondere, domande che oltretutto implicano un allargamento del discorso al problema dell’ideologia, dunque al confronto con il pensiero dominante in un certo tipo di società. Tuttavia la domanda iniziale implica l’idea che esista una verità e una non verità (nell’interpretazione di un testo). Il concetto di verità ci porterebbe sul piano delle ultra-millenarie dispute filosofiche, sicuramente avvincenti, ma fuori dal nostro modestissimo problema contingente.
Sospendiamo per un momento il tema della verità o della non verità, intese come entità assolute, e viceversa tentiamo di comprendere quali criteri ci consentono di non prendere lucciole per lanterne nel corso della vita reale (vita di cui fa parte anche la corretta, verosimile, lettura dei testi).
Dunque limitiamoci a parlare, pragmaticamente, solo di verosimiglianza, e quindi di felice approssimazione conoscitiva ad un dato fenomeno.
Un testo è composto da un insieme di segni, il cui compito è quello di veicolare dei significati. I significati attribuibili a un certo segno, o meglio ancora a un certo segno/significante, possono essere molteplici, e anche dare adito a letture/interpretazioni discordanti o addirittura antitetiche.
Uno dei padri della semiologia, Charles Sanders Peirce, matematico, filosofo, semiologo, logico, scienziato e accademico (Cambridge, 10 settembre 1839 – Milford, 19 aprile 1914) riteneva che un segno può essere interpretato in molti modi, ma non illimitatamente (vedasi i testi di Umberto Eco, ‘Lector in fabula’ e ‘I limiti dell’interpretazione’).
L’interpretazione senza limiti viene definita semiosi illimitata, cioè, in parole povere, attribuzione di significati infiniti allo stesso testo, segno/significante, fenomeno. Ma questa semiosi illimitata, nella storia umana, non si manifesta che come esperienza limitata all’arte o alla follia.
L’interpretazione sensata, la semiosi regolare, invece, incontrano sempre dei limiti nella realtà dell’esperienza della specie, e dei suoi bisogni concreti.
La vita ha bisogno di regolarità, il divenire del mondo va inquadrato in schemi e modelli, le parole, i testi che le contengono, ma ogni tipo di segno/significante esistenti, dunque i fenomeni che formano la manifestazione dell’essere non possono avere significati infiniti, ma solo un certo numero limitato di significati.
Nelle tradizioni religiose più varie, nei miti di fondazione, infatti, è sempre ricorrente l’idea di una forza trascendente che, all’origine, conferisce un nome alle cose, una identità e un significato, rendendo stabile e ordinato il precedente universo caotico.
Allora, tornando al nostro piccolo problema con i testi marxisti, quali sono i fattori, o meglio le colonne di Ercole che è saggio non oltrepassare nell’interpretazione del testo? E’ molto semplice: i testi di Marx vanno letti seguendo i codici culturali esistenti in quella società, che era allora come oggi una società divisa in classi, dunque con almeno due possibilità di lettura socialmente condizionate. Dunque, secondo il pensiero dominante, e poi di seguito secondo ciò che risultava alieno a quel pensiero, al testo di Marx sono stati attribuiti alcuni significati (diversi e opposti secondo lo schieramento politico-sociale del lettore/interprete). I limiti dell’interpretazione del senso di quei capitoli sono infatti di tipo storico e sociale.
Ogni lettura eccentrica rispetto all’originario contesto di enunciazione storico-sociale, contesto in cui viene attualizzato e limitato il potenziale di senso di un certo segno/testo, è sbagliata. Il testo di Marx, ma tutti i testi, e tutti i segni, non possono essere travisati e deformati oltre un certo limite, perché il limite esiste e ritorna imponendo il suo senso. I testi, alla fin fine, sono interpretati in base ai codici culturali esistenti (nel caso delle società classiste, codici di sistema e di anti-sistema), per questo motivo è la stessa vita reale a distruggere le interpretazioni aberranti rispetto ai codici culturali/contesti di enunciazione storico-sociali esistenti, indispensabili per l’attualizzazione interpretativa regolare del potenziale di senso dei testi. Oltre questa attualizzazione regolare si apre il territorio dell’arte (nichilista) e della fantasia al galoppo.
Il marxismo, essendo l’espressione di una classe sociale (il proletariato) che porta nel suo DNA la missione storica di abolire tutte le classi sociali, per aprire la strada alla comunità umana, non è una ideologia al servizio di una classe di sfruttatori, ma una vera conoscenza/scienza umana al servizio della specie, dunque almeno in relazione a questo aspetto sociale generale, la visione anti-sistema ha maggiore verità della visione di sistema, particolare di una classe (la borghesia) che nel suo DNA porta solo la missione di conservare se stessa, in quanto minoranza sociale.
Dialettica della storia
‘A tutto ciò si collega la sciocca concezione degli ideologi, secondo cui, poiché neghiamo alle diverse sfere ideologiche che recitano una parte nella storia uno sviluppo storico indipendente, negheremmo loro anche ogni efficacia storica. Alla base di ciò è la volgare concezione anti-dialettica di causa e di effetto come poli rigidamente contrapposti, l’assoluta dimenticanza dell’azione e reazione reciproca. Che un fattore storico, una volta dato alla luce da altre cause, in definitiva economiche, possa a sua volta reagire sul mondo circostante perfino sulle sue stesse cause, quei signori lo dimenticano, spesso, quasi di proposito’. LETTERA DI ENGELS A FRANZ MEHRING, 14 luglio 1893
‘Primo, i fenomeni sociali sono sempre sia realizzati che potenziali e cioè essi contengono in se stessi un ambito di potenzialità la cui realizzazione spiega il loro cambiamento. L’aspetto realizzato e quello potenziale possono essere contraddittori. Secondo, i fenomeni sociali sono sempre sia determinanti che determinati. Cioè essi sono connessi da una relazione di determinazione reciproca. Per semplicità espositiva, chiamiamo i primi A e i secondi B. A è determinante di B perché A è la condizione di esistenza di B in quanto B è contenuto potenzialmente in A e A causa l’emergere di B dal suo stato potenziale cosicché B diventa una istanza realizzata. B è determinato da A. B, dal canto suo, realizzandosi, diventa la condizione realizzata della riproduzione o del superamento di A, cioè del cambiamento di A. Questa nozione di reciproca determinazione presuppone una dimensione temporale. Solo ciò che si è già realizzato può causare la realizzazione di ciò che non si è ancora realizzato ma esiste solo potenzialmente (in ciò che si è realizzato). Terzo, da questi due principi segue che i fenomeni sociali sono soggetti a un movimento e cambiamento continui e cioè essi cambiano da uno stato realizzato a quello potenziale e vice versa e da uno stato determinante ad uno determinato. Ne consegue che la realtà sociale, vista dal punto di vista dialettico, è un flusso temporale di fenomeni contraddittori determinanti e determinati che emergono continuamente da uno stato potenziale per diventare fenomeni realizzati e che poi ritornano ad uno stato potenziale. La società tende a riprodursi o a superare se stessa attraverso questo movimento. Né l’equilibrio né il disequilibrio giocano un ruolo nella riproduzione della società. Essi sono semplicemente dei concetti ideologici con nessun contenuto scientifico. Alla luce del fatto che “le leggi principali che governano le crisi” sono, come tutte le leggi sociali, tendenziali e contraddittorie, è impossibile “determinare matematicamente” tali leggi. Primo, la matematica è un ramo della logica formale e nella logica formale le premesse non possono essere contraddittorie. Tuttavia, per spiegare le leggi del movimento della società è necessario iniziare da premesse contraddittorie (nel senso di contraddizioni dialettiche) ed è per questo che le leggi del movimento sono tendenziali. Secondo, anche se si conoscessero “tutti i fattori che giocano un ruolo”, sarebbe praticamente impossibile prendere tutti in considerazione. Questo è il motivo per cui i modelli econometrici, anche quelli composti di migliaia di equazioni, hanno risultati tanto disastrosi come strumenti di predizione’. 12 gennaio 2008. G.Carchedi. Università di Amsterdam
Potenza e atto, potenzialità e realizzazione, determinante e determinato: l’autore della lunga citazione è un economista e un matematico, egli scrive che è impossibile “determinare matematicamente” tali leggi (ovvero le leggi principali che governano le crisi” (che) sono, come tutte le leggi sociali, tendenziali e contraddittorie), non è niente affatto paradossale che proprio da un addetto ai lavori provenga una tale chiarezza sulla non trasmissibilità lineare dei paradigmi di indagine matematici, cioè del linguaggio matematico, al campo delle leggi sociali. Un altro conto è addentrarsi nel campo della teoria del caos, come abbiamo fatto noi in un recente lavoro, in quanto questo ambito di studi e di ricerche mostra degli involontari riconoscimenti alla dialettica marxista. Togliamo quindi dal campo della discussione ancora una volta l’illusione scientista, che vorrebbe vedere realizzata la metafisica ‘reductio ad unum’ dei piani molteplici dell’essere, ottenendo solo di produrre gravi distorsioni conoscitive dei processi presenti in potenza e in atto sul piano storico-sociale. Marx, ricorda bene Carchedi, ha studiato la matematica e il calcolo differenziale, tuttavia ha compreso che ‘per spiegare le leggi del movimento della società è necessario iniziare da premesse contraddittorie (nel senso di contraddizioni dialettiche) ed è per questo che le leggi del movimento sono tendenziali’. Mentre ‘la matematica è un ramo della logica formale e nella logica formale le premesse non possono essere contraddittorie’. Quando parliamo, d’altronde, di dottrina storicamente invariante, alludiamo fra l’altro al riconoscimento di questa natura tendenziale delle ‘leggi’ economico-sociali, postulando certamente un ambito di manifestazione dei fenomeni, cioè di passaggio dallo stato potenziale a quello realizzato, altamente probabile, che tuttavia non ci azzardiamo a definire deterministicamente calcolabile con esattezza matematica assoluta. Noi abbiamo chiuso con gli assoluti, e proprio per questo non ci copriamo gli occhi con l’illusione di “determinare matematicamente” tali leggi’ (del divenire sociale). Dialettica e storia al centro di tutto, nessuna tentazione di sostenere una matematica sociale, poiché essa sarebbe solo l’ennesimo strumento nascosto di previsione, calcolo e ingabbiamento della soggettività e della storica missione della classe subordinata (incarnata nel partito formale-storico). Se vogliamo scambiare la dialettica storica con l’assicurazione infantile e semplicistica che le cose dovranno necessariamente andare in un verso e non in un altro, liberissimi di farlo, tuttavia non ci sembra che la conoscenza rivoluzionaria del carattere tendenziale e contraddittorio del mutamento sociale possa regredire a forme religiose (in senso deteriore, non nel senso riportato da Bordiga più sopra), senza delle gravi ricadute sul piano della linea politica e delle scelte operative susseguenti. Portiamo ad esempio di tali possibilità il caso ipotetico, astratto, di chi vorrebbe sostenere che l’attuale società capitalistica contiene, non solo in potenza, ma quasi in atto, il suo contrario dialettico: il comunismo. Nel corso della lettura critica di questa proposizione astratta, cercheremo di evidenziarne le aporie e le incoerenze iniziali e finali, mostrando che il maggiore punto di forza di questa proposizione consiste nella capacità di assorbire (nella propria irrealtà) le stesse critiche rivoltegli a causa dell’assurda negazione della dialettica potenziale/attuale (infatti è solo partendo dalla negazione di questo modo di essere dei fenomeni sociali che si può poi erroneamente sostenere che il comunismo è una realtà attualizzata da tempo nella struttura economica, mentre nella sovrastruttura politica permarrebbero elementi statali borghesi, in via di progressivo indebolimento).
Orbene, ammettiamo che si sostenga che il comunismo, inteso come struttura economica, sia già contenuto (in modo non semplicemente embrionale-potenziale ma attuale) nella realtà storica contemporanea. Se per assurdo accettassimo questa tesi, dovremmo concludere che proprio per questo motivo la sovrastruttura politico-statale si sta indebolendo, essendo essa dipendente in ultima istanza dal rapporto con la struttura. In sostegno a questa tesi potremmo portare le vicende relative alla transizione dal feudalesimo al capitalismo, sostenendo la relativa e temporanea compresenza di una struttura economica capitalistica con una sovrastruttura politico-statale feudale. Ammesso e non concesso che questa ricostruzione storica fosse vera, o verosimile ( e su questo abbiamo dei seri dubbi), perché non estendere allora una possibilità analoga anche al presente? Il problema, da un punto di vista semplicemente logico-dialettico (lasciamo perdere il piano storico reale), è che non si possono assimilare delle coppie di ‘enti’ di natura economico sociale antitetica (la struttura economica capitalistica compresente con la sovrastruttura feudale, e la struttura economica comunista compresente con la sovrastruttura statale borghese), per proporre delle successive analogie storiche, così come non si possono assimilare semplicisticamente i diversi regni della realtà (minerale, animale, umano, vegetale…) in un unico e indistinto calderone monista. Si continua a dire che il comunismo è il movimento che abolisce lo stato di cose presente: intendiamoci sul significato delle parole, per noi questa formula non significa affatto che questo stato di cose (capitalistico) risulti già abolito, ma più modestamente che il capitale crea il suo nemico sociale proletario (il quale può riuscire ad affossarlo, oppure può non riuscirci,e in questo caso si mostrerà lo scenario della mineralizzazione). Noi siamo coerenti con una concezione non finalistica della storia, e già nel vecchio lavoro sulla mineralizzazione, infatti, riprendendo il ‘Manifesto del partito comunista’, abbiamo riconosciuto le possibilità storiche alternative che si aprono a partire dai dati socioeconomici di fatto (1). Considerando che la diacronica compresenza di struttura capitalistica – sovrastruttura feudale descritta farebbe comunque riferimento a società in ugual modo divise in classi, accomunate, quindi, al di là della diversità dei rispettivi referenti sociali (borghese o feudale), dalla presenza di rapporti sociali di dominazione e subordinazione, allora come si può postulare una compresenza diacronica analoga anche per il presente storico ‘cripto e proto comunista’? Quello che storicamente potrebbe essere vero per la transizione dal feudalesimo al capitalismo (se la ricostruzione storica fosse attendibile), sarebbe di sicuro meno vero per la transizione al comunismo completo, poiché mentre la sovrastruttura statale feudale e la struttura economica capitalistica avrebbero in comune l’essere espressione di un dominio di classe, la struttura economica comunista, non essendo espressione di nessun dominio di classe, anzi essendo il termine storico di ogni dominio di classe, non avrebbe nessuna coerenza sociale e ragione di essere con la sopravvivenza temporanea di una sovrastruttura statale borghese.
La postulazione dell’esistenza in atto di due termini storico-sociali incompatibili (struttura comunista/sovrastruttura borghese),di cui uno è la negazione dell’altro, inficia e toglie già in partenza ogni fondamento storico-dialettico alla ipotesi di analogia storico-diacronica fra stato feudale/economia capitalista e stato borghese/economia comunista. Inoltre, essendo la struttura fattore condizionante rispetto alla sovrastruttura, diventa problematico postulare quello che viene postulato in merito a una sovrastruttura borghese compresente con una struttura comunista.
Portando fino alle estreme conseguenze le premesse sbagliate, perché escludere, allora, che la sovrastruttura politico-statale che si sta indebolendo-estinguendo non possa essere, addirittura, lo stato proletario?(Se escludiamo come impossibile, a rigore di logica marxista dialettica, la compresenza realizzata e in atto di due elementi antitetici come lastruttura economica comunista ‘aclassista’ condizionante e la sovrastruttura borghese ‘classista’ condizionata,allora potremmo perfino giungere a concepire tali esiti paradossali, o in mancanza di tali arditezze, limitarci a sostenere che lo stato borghese si sta indebolendo). Nell’esperienza della vita, i livelli dialettici in cui si differenzia la materia, smentiscono, di fatto, l’unità monistica ingenuamente assimilatrice degli opposti, oppure la negazione del piano reale e potenziale dell’essere sociale. Nel divenire dialettico, che è il vero minimo comune denominatore dell’essere, cioè il vero e unico paradossale ‘monos’ esistente, la materia si scinde in coppie di opposti, negazioni e sintesi successive: in quanto tale, storicamente, è questo il movimento reale, intessuto di coppie di opposti complesse e dinamiche, potenziali e attuali, determinanti e determinate ( B è determinato da A. B, dal canto suo, realizzandosi, diventa la condizione realizzata della riproduzione o del superamento di A, cioè del cambiamento di A. Questa nozione di reciproca determinazione presuppone una dimensione temporale. Solo ciò che si è già realizzato può causare la realizzazione di ciò che non si è ancora realizzato ma esiste solo potenzialmente (in ciò che si è realizzato).Terzo, da questi due principi segue che i fenomeni sociali sono soggetti a un movimento e cambiamento continui e cioè essi cambiano da uno stato realizzato a quello potenziale e vice versa e da uno stato determinante ad uno determinato). Allora è questo lo spazio degli eventi in cui si confrontano, in una lotta per la vita e per la morte, tragicamente, quindi senza garanzie di vittoria a prescindere, le forze sociali reali. Invece il monismo scientista si dispiega come l’idea assoluta hegeliana, o se vogliamo come una riedizione della divina provvidenza, in altre parole un revival del piano di dio nella storia. Una teleologia finalistica, in cui il corso della corrente storica è già da sempre e per sempre predeterminato in modo immutabile (determinismo assoluto). Nell’operaismo la classe assurgeva a questo ruolo di sostituto dell’assoluto, nel fatalismo meccanicista, con annesso apparato conoscitivo assolutamente (infallibilmente) determinista, l’esigenza di credere in una verità stabile e consolatoria diventa la base di successive curvature ellittiche di allontanamento dal tracciato concettuale del marxismo rivoluzionario.
Vedere l’universo in un granello di sabbia, e tutto il tempo dell’Eternità nel battito di ali di una farfalla.
Queste sono le perle residuali di una saggezza orientale che declina direttamente dall’apparato conoscitivo del comunismo delle origini. Il partito storico-formale è il granello comunista infinitesimale posto dentro il meccanismo sociale mastodontico della borghesia. Solo in esso è già in atto il rovesciamento dialettico della prassi: ‘Ma la società comunista per noi esiste fin da ora, essa è anticipata nel partito storico che ne possiede la dottrina’. Bordiga.
Ci accingiamo, dopo molto tempo, a riflettere e scrivere apertamente su alcuni errori ricorrenti nella lettura dei fenomeni sociali, errori presenti anche in ambiti che affermano di richiamarsi al marxismo rivoluzionario. Tale riflessione non ha lo scopo di esprimere scomuniche o tanto meno di incidere sul percorso seguito dagli erranti di turno, ma solo di chiarire a noi stessi e poi ai nostri lettori e compagni le caratteristiche incoerenti e oscure di certe elaborazioni politiche, i loro conseguenti esiti pratici riformisti, e quindi la potenza dei condizionamenti della società borghese perfino sul pensiero delle forze che si proclamano marxiste. Si tratta di tematiche spesso affrontate e discusse in passato dalla nostra corrente, poiché in effetti certe posizioni si manifestano nei momenti di riflusso della lotta di classe, ed esprimono sul piano teorico lo smarrimento e la confusione derivate dalle sconfitte pratiche del proletariato. Un esercito sconfitto in battaglia cerca una via di fuga e di salvezza, alle volte per riorganizzarsi e continuare la guerra, altre volte solo per tentare compromessi e patteggiamenti in vista della capitolazione definitiva. Non si tratta di giudicare tali scelte politiche con il metro della morale borghese (basata sul falso binomio fedeltà/tradimento, bene/male), ma solo di analizzare le incoerenze teoriche determinate dal secondo tipo di scelta (rispetto alla storicamente invariante dottrina rivoluzionaria), valutandone infine anche le conseguenze politiche. Non faremo nomi, non additeremo nessuno alla gogna, poiché non è nostra abitudine allestire processi politici come hanno fatto invece con noi i borghesi (nella veste liberale, fascista e stalinista), tenteremo invece di studiare le tendenze espresse in testi pubblici (di cui ci limiteremo a sintetizzare il contenuto, senza peraltro indicarne la paternità).
Partiamo dalla valutazione delle teorie del collasso, ribadite anche ultimamente in alcune importanti riviste ‘marxiste’. Si trovano in rete, infatti, dei testi contenenti – in modo più o meno completo – tali teorie ‘collassiste’. In uno di questi testi si descrive addirittura la politica economica del governo Renzi come riformista e ultra keynesiana. Nei pensieri e nelle parole contenuti nel testo, che definiremo per semplicità ‘collassista’, accade che certi provvedimenti (unanimemente riconosciuti come anti-proletari dalla maggioranza dei commentatori di orientamento marxista), siano considerati invece una sincera espressione di politiche ispirate in senso socialdemocratico (ma sappiamo bene, noi e i compagni ‘collassisti’, che la socialdemocrazia è solo una veste politica contingente, indossata in certe fasi dall’organismo capitalista) . Ci chiediamo, a questo punto, se l’incremento della tassazione reale sui redditi bassi, finalizzata a pagare l’interesse sul debito pubblico nelle mani del capitale usurario nazionale e internazionale, sia qualificabile come politica di Welfare a favore dei ceti sociali disagiati. Tuttavia, tralasciando questo piccolo aspetto, il testo in oggetto si concentra sull’ipotetico reddito di cittadinanza, sull’estensione dei contratti a tempo indeterminato e sulla distribuzione di denaro ai lavoratori dipendenti/consumatori (i famosi 80 euro).
Il governo Renzi, a detta di questa linea di pensiero, sarebbe addirittura più avanti dei sindacati nella politica keynesiana di intervento pubblico per rilanciare la crescita, e quindi risulterebbe incomprensibile la resistenza della CGIL o di altri critici sinistri. Certo, continua l’articolo, si tratta di aria fritta, poiché non ci sono le risorse, eppure queste proposte legislative dimostrano che la situazione economica italiana è veramente drammatica (per inciso, il contorto percorso di pensiero che porta alla conclusione che la crisi italiana è grave, ha veramente dell’incredibile). Dunque, provando a riassumere, la crisi da sovrapproduzione appare insormontabile, e il governo, pur tentando l’impossibile per rilanciare i consumi e di conseguenza la produzione economica, è bloccato nel suo impeto keynesiano dalla mancanza di risorse. Ora, il discorso – apparentemente – non fa una grinza, e quindi assumendo per buone le premesse, dovremmo concludere che è stata scritta e pensata una cosa intelligente e fuori dal coro delle abituali critiche di sinistra alle politiche del governo. La politica renziana avrebbe quindi uno spiccato taglio socialdemocratico (se pure fosse così, comunque funzionale agli interessi sistemici), e proprio perché le condizioni dell’economia italiana sono peggiori di quelle degli altri paesi europei, sarebbero quindi maggiori gli interventi pubblici richiesti per il risanamento. Rilanciare la crescita economica e l’occupazione, stabilizzando i precari e concedendo aumenti diretti in busta paga (80 euro) sarebbero le strade principali seguite dal governo in questa direzione, strade considerate comunque illusorie dall’articolista, poiché la crisi è cronica, irreversibile e via dicendo. Tuttavia la lettura delle politiche governative è nondimeno fallace, poiché la coloritura socialdemocratica (re-distributiva) di superficie, nasconde interventi reali come il jobs act, la riforma della scuola e altro ancora, concretamente e innegabilmente finalizzati a incrementare il grado di sfruttamento della forza-lavoro, la sua subordinazione al comando aziendale e infine alla fornitura di lavoro forzato gratuito giovanile – attraverso l’alternanza scuola/lavoro – alle imprese). Potremmo suggerire ai compagni che teorizzano una valenza socialdemocratica delle misure governative, pur essendo consapevoli che il ciclo economico vanifica già in partenza ogni tentazione redistributiva, che forse si tratta solo di espedienti politici, cioè di pura propaganda mistificatrice mirante a controllare e blandire le prevedibili turbolenze sociali sorgenti dal rifiuto del jobs act, della riforma della scuola e porcherie varie. Molto interessante risulta uno dei passaggi finali di questo articolo, che adesso proveremo a sintetizzare, cambiando la forma e lasciando intatto il senso: ‘ Quando siamo arrivati a questo punto, ogni cosa converge verso la necessità di una soluzione efficace. Tuttavia nessuno sa quale possa essere, poiché una guerra planetaria non è concepibile entro i tempi adatti a evitare il collasso. Non rimane quindi che il collasso. In definitiva, e lo abbiamo visto da diverse prospettive, la situazione per il capitalismo non è felice perché i segni di rovina sono in una fase avanzata. Il de-potenziamento del potere degli apparati statali nel governo della società è un dato reale, e i borghesi ne sono coscienti ’.Questo è lo stato dell’arte, lasciamo perdere per un momento il de-potenziamento degli stati sostenuto nelle righe appena riportate, e concentriamoci sulla soluzione drastica: ma cosa significa ‘soluzione drastica’ se viene affermato ‘una guerra planetaria non è concepibile entro i tempi adatti a evitare il collasso. Non rimane quindi che il collasso’.Quindi una guerra planetaria non è pensabile, e nemmeno la sua alternativa rivoluzionaria, come hanno insegnato le esperienze storiche passate e la dottrina marxista, invece si prevede, dobbiamo dedurre, un puro collassodel complesso sistema sociale contemporaneo. Queste improbabili letture della realtà sociale prevedono una morte per collasso automatico del sistema capitalistico (un suicidio in cui non si pone più l’alternativa guerra o rivoluzione, storicamente posta dalla nostra corrente). Un collasso, un crollo sistemico, una uscita di scena naturale, oggettiva, meccanica, come quella di un attore da tempo incamminato sul viale del tramonto. Circola da tempo sul web la storiella del nonno pestifero e insopportabile, a cui i parenti cercano di fare la pelle, eppure non ci riescono mai perché il vecchietto è assistito da una fortuna spaventosa. La parabola del collasso capitalistico, non vorremmo augurarcelo, rischia di fare la stessa fine dei tentativi infruttuosi dei parenti del nonnino indistruttibile, soprattutto se si trascura, come al solito, la dialettica oggettivo/soggettivo, economia e politica, classe e partito, subordinazione/ribellione e le molteplici relazioni storiche, documentate e presenti come attrattori (tendenze, processi) nello spazio degli eventi storici reali. I sintomi di sfacelo di cui parla il testo, li vedeva benissimo la nostra corrente negli anni 50, descrivendo il capitalismo come cadavere che ancora cammina: un cadavere tenuto in vita dalle giovani labbra dei proletari (un morto – il capitale costante- riportato in vita oscuramente, quasi magicamente, dal quotidiano sacrificio del lavoro vivo proletario). Noi siamo quindi un pochino meno ottimisti delle menti che sostengono Non rimane quindi che il collasso, infatti riteniamo che nessun collasso meccanico possa chiudere i conti con un sistema sociale con queste caratteristiche, diciamo negromantiche, se prima non si impedisce praticamente alla borghesia di continuare a sfruttare il lavoro e la vita dei proletari (ce lo ripete con molta efficacia e chiarezza un vecchio testo della nostra corrente: ’Forza, violenza, dittatura’). Per questo motivo, il lavoro politico del partito rivoluzionario, lungi dal coltivare fughe nell’immediato e nell’attivismo, è fondamentale nella complessa trama del trapasso da una formazione sociale ad un’altra, poiché la sua presenza dimostra l’esistenza di un elemento cosciente della specie umana, l’esistenza di una intelligenza e di una volontà pronte ad orientare i processi sociali in senso comunistico. Il partito rappresenta il grado di maturità raggiunto dal conflitto di classe reale, la volontà politica cosciente e la speranza di emancipazione, la memoria del passato comunista della specie, la memoria delle lezioni tratte dalle sconfitte, e la prospettiva di una società futura migliore. Infine il partito è anche l’anticipazione stessa di questo futuro già nella prassi del presente (centralismo organico). Esso è l’organo energetico della classe, nel senso che solo quando la sua forza organizzativa -formale lievita e diventa guida delle energie sociali di lotta verso la violenza rivoluzionaria (1) , è realizzabile il passaggio dalla classe in se alla classe per se, e quindi il proletariato può adempiere la sua missione storica.
(1) ‘Quando dalla invariante dottrina facciamo sorgere la conclusione che la vittoria rivoluzionaria della classe lavoratrice non può ottenersi che con il partito di classe e la dittatura di esso, e sulla scorta di parole di Marx affermiamo che prima del partito rivoluzionario e comunista il proletariato è una classe, forse per la scienza borghese, ma non per Marx e per noi; la conclusione da dedurne è che per la vittoria sarà necessario avere un partito che meriti al tempo stesso la qualifica di partito storico e di partito formale, ossia che si sia risolta nella realtà dell’azione e della storia la contraddizione apparente – e che ha dominato un lungo e difficile passato – tra partito storico, dunque quanto al contenuto (programma storico, invariante), e partito contingente, dunque quanto alla forma, che agisce come forza e prassi fisica di una parte decisiva del proletariato in lotta. Questa sintetica messa a punto della questione dottrinale va riferita anche rapidamente ai trapassi storici che sono dietro di noi’. Tesi supplementari a quelle di Napoli sul compito storico, l’azione e la struttura del partito comunista mondiale.1966.
Sul cosiddetto indebolimento degli stati borghesi.
Proviamo ora, con tanta pazienza, a considerare la seguente proposizione ‘Il de-potenziamento del potere degli apparati statali nel governo della società è un dato reale, e i borghesi ne sono coscienti ’.
Il corsivo è nostro, e ha lo scopo di ricordare l’aspetto cruciale del passaggio ai fini del significato complessivo del periodo. Quali dati a noi ancora sconosciuti consentono di fare affermazioni siffatte?
Sarebbe interessante saperlo, perché così potremmo anche noi archiviare finalmente le valutazioni contenute nel testo ormai vetusto degli anni 50: ‘Imprese economiche di Pantalone ’.
Cosa diceva quel testo ‘Poiché nella situazione storica del XVII, XVIII, XIX secolo la rivoluzione capitalista doveva avere forme liberali, nel XX ha forme totalitarie e burocratiche. La differenza dipende non da fondamentali variazioni qualitative del capitalismo, ma da enorme divario di sviluppo quantitativo, come intensità in ogni metropoli, e diffusione sul pianeta. E che il capitalismo alla sua conservazione come al suo sviluppo e ingrandimento adoperi sempre meno ciancia liberale, e sempre più mezzi di polizia e soffocamento burocratico, vista bene la linea storica, non induce ad esitare menomamente che questi stessi mezzi dovranno servire alla rivoluzione proletaria. Maneggerà questa violenza, potere, stato, e burocrazia: dispotismo, dice col termine peggiore il manifesto di 103 anni addietro; poi saprà disfarsi di tutto‘.Imprese economiche di pantalone p.63.
Abbiamo scritto, a proposito di tali considerazioni, in un lavoro pubblicato sul nostro sito:
‘Se abbiamo ben compreso, il capitalismo, nella fase di massima intensità in ogni metropoli, e diffusione sul pianeta, proprio a causa del suo enorme sviluppo quantitativo, e quindi delle tensioni e dei conflitti che si innescano per la contraddizione esistente fra accumulazione capitalistica e crescita della sovrappopolazione, ha il vitale bisogno sistemico di operare in forme totalitarie e burocratiche, cioè di manifestarsi con sempre più mezzi di polizia e soffocamento burocratico ’. ‘Dalla guerra come difesa e offesa….’
Potremmo citare altri passi del lavoro teorico della corrente convergenti verso le stesse posizioni, ma ci sembra inopportuno, perché, a questo punto, vorremmo solo chiedere ai sostenitori del de-potenziamento degli apparati statali di renderci edotti sulle loro fonti, sulla documentazione, sicuramente attendibile, che li conduce a esprimere valutazioni così diverse dalle considerazioni contenute nei testi degli anni 50 e oltre. Sarebbe importante per noi avere queste informazioni, così potremmo lietamente condividere il giubilo di questi compagni quando affermano che il potere degli stati sta venendo meno, e i borghesi se ne stanno rendendo conto (Come sappiamo che i borghesi se ne stanno rendendo conto ? E’ stato fatto un sondaggio in rete, porta a porta, oppure è stato consultato un astrologo?). In fondo è proprio vero, l’esistenza del filone di pensiero meccanicista-collassista lo dimostra, l’essere umano può venire imprigionato nella cella più buia e angusta, ma il pensiero resterà comunque libero di volare in alto, nelle dimensioni della fantasia e dell’immaginazione dove nessuna gabbia può imprigionarlo. Nella realtà sociale (al di fuori del regno beato della fantasia e dell’immaginazione ) il moderno Moloch statale si rinforza ogni istante di più, proprio perché, in un processo di risposta dialetticamente determinista, deve fronteggiare il disordine sociale e le minacce politiche causate dalle leggi immanenti della economia capitalistica. Se si indebolisse, se non fosse così dispoticamente onnipervasivo,vorrebbe significare che la società classista ha smesso di esistere. Vorrebbe significare che il sistema è giunto al collasso meccanico, senza neppure il fastidioso bisogno di azioni pratiche, politiche, soggettive, accessorie e complementari all’implosione oggettiva, meccanica, della formazione economico-sociale capitalistica. Il conflitto di classe, la sua valenza di motore della storia, in quanto urto colossale di processi sociali incarnati da esseri umani reali (senzienti e volitivi), nelle interpretazioni meccanicistiche del marxismo, viene completamente azzerato e assorbito dalle meccaniche celesti della dimensione economico-strutturale. Siamo al riflesso condizionato pavloviano: dal momento che i fondamentali economici non ci sono più, ergo il sistema collassa, deve collassare, non può non collassare. (Ma già negli anni 50 era un cadavere, eppure ancora camminava…)
Marx scrive, in varie occasioni, che il capitale è il nemico di se stesso, cioè che il suo sviluppo pone le condizioni per il suo superamento, e una di queste condizioni basiche è l’esistenza del proletariato: la classe sociale storicamente destinata a chiudere i conti con il modo di produzione borghese. Quindi si parla di attori sociali umani, che operano all’interno di circostanze storiche determinate, relative a una certa struttura economica e a una certa sovrastruttura politico-ideologica. Classi sociali che entrano in conflitto e innescano giganteschi processi di mutamento sociale sulla scorta della contraddizione esistente fra il grado di sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione capitalistici: rivoluzione e controrivoluzione si contendono il campo storico dei nostri tempi, ma la controrivoluzione è solo la risposta dialettica alla potenza della minaccia rivoluzionaria determinata dalle stessi leggi immanenti dell’economia capitalistica. Alcune volte può sembrare che le vicende sociali che vediamo scorrere sul rullino del tempo storico siano assolutamente inevitabili, essendo innegabile la forza dei fattori condizionanti, gli attrattori sistemici economico-sociali, svelati dall’analisi marxista. Tuttavia questa considerazione può fuorviare e allontanare dalla corretta valutazione del rapporto esistente fradimensione oggettiva e soggettiva nella genealogia dei fenomeni storico-sociali, cioè del rapporto esistente fra volontà politica soggettiva e determinanti di causa oggettivi. A tal proposito i nostri amici meccanicisti scrivono, il comunismo diviene, non viene realizzato… è vero, a patto di ricordare che il divenire non è un semplice terremoto naturale, una semplice meccanica indipendente dalla volontà cosciente dell’uomo ( materialismo volgare con annesso finalismo), ma il movimento reale degli esseri umani (azione, volontà, pensiero), inserito in un orizzonte di circostanze storiche condizionanti (attrattori sistemici, leggi immanenti della produzione capitalistica).
Ma queste circostanze storiche condizionanti, dipendono in gran parte dall’uomo, è l’uomo stesso ad averle poste in essere, e quindi è l’uomo che crea il Moloch capitalista, ed è l’uomo che supera questo Moloch attraverso la lotta di classe che consente il rovesciamento della prassi (vedi traiettoria e catastrofe, nella parte in cui si parla del lavoro morto, cristallizzato in capitale costante, che da elemento di asservimento dell’umanità -nella forma sociale capitalistica- si trasforma in condizione materiale di emancipazione dal tempo di lavoro -nella forma sociale senza classi, in cui la legge del valore ha smesso di essere nella forma capitalistica). Una volta tutto questo si chiamava materialismo dialettico.
Consideriamo il concetto di insieme e il correlato concetto di sistema. Molto spesso abbiamo anche noi utilizzato questi concetti nel corso delle nostre analisi di fenomeni economico-sociali. Conosciamo dunque la loro utilità metodologica e cognitiva, proprio in quanto ne facciamo regolarmente uso come parte di schemi interpretativi e descrittivi della complessità sociale. Tuttavia, quando parliamo di Marco, Gianni e Flavio come elementi di un insieme, in quanto tutti e tre sono alti un metro e settanta, non facciamo altro che astrarre e separare tre caratteristiche comuni dal resto dei tratti molteplici che caratterizzano la realtà di quei tre individui. Nel campo delle scienze sociali questo significa che tenteremo di astrarre (dalla concretezza storica) e di separare (dalla complessità sociale) una o più parti, allo scopo di ottenere un modello ideal-tipico (Weber) con cui svolgere una certa ricerca. Un ideal-tipo, cioè un modello euristico, che può aiutarci ad indagare la concretezza e la complessità storico – sociale, e che tuttavia nasce pur sempre da una separazione – astrazione di una o più parti dal tutto, e quindi è in questo senso determinato una finzione utile per conseguire una approssimazione conoscitiva del reale. Queste considerazioni trovano puntuale riscontro nel dibattito matematico in merito alla teoria degli insiemi. Questo dibattito, risalente almeno agli inizi del secolo scorso, ha infine evidenziato la natura convenzionale dello stesso concetto di insieme. Il dibattito nel campo degli addetti ai lavori, ha dunque messo in luce il carattere convenzionale della teoria assiomatica degli insiemi. Un modello di esplorazione e razionalizzazione della complessità del reale, vagamente somigliante alla logica dialettica e tuttavia diverso. Il materialismo storico-dialettico è infatti una concezione ontologica con corrispondenti implicazioni euristiche, nata dal movimento reale della lotta di classe proletaria, sintesi immediata di esperienza /percezione e pensiero /astrazione del divenire storico reale. I modelli matematici, invece, rivelano già in origine un debito teorico con l’astrattezza del numero, ovvero con la natura convenzionale dei simboli che costituiscono il suo linguaggio ( dando comunque per assodata l’utilità strumentale della matematica nel cammino evolutivo della specie umana). Come si può ben arguire, l’oggetto di questo capitolo non riguarda l’analisi o la critica delle teorie matematiche degli insiemi o delle catastrofi, compito che non ci compete e di cui non si vedrebbe neppure l’utilità politica. Ci stiamo invece limitando a segnalare, sulla scorta di una semplice analisi critica, i rischi di fraintendimento a cui vanno incontro i tentativi maldestri di adoperare alcuni modelli matematici, transitori e storicamente determinati, in modo indipendente da queste caratteristiche. Stiamo quindi cercando di criticare delle improprie modalità di impiego di determinate teorie matematiche, in vece e in sostituzione del tradizionale e opportuno piano di analisi politica e sociale. Se qualche non secondario rappresentante accademico, parla, con cognizione di causa, di convenzionalismo della teoria degli insiemi, ricordando anche il famoso esempio del paradosso logico del barbiere di Bertrand Russel, allora perché trasformare in dogma una forma di conoscenza quantomeno precaria e soggetta a continue rettifiche? Una idea e una pratica di utilizzo acritica (del sapere scientifico), è in fondo destinata ad ignorare proprio il suo aspetto più rilevante: cioè il fatto che questo sapere è un percorso in progresso, storicamente condizionato dalla struttura socio-economica esistente, e dai rapporti sociali ad essa corrispondenti. L’assurdità dello scientismo si nasconde proprio nella trasformazione di ciò che è ricerca e processo di accostamento al vero, in verità ‘deterministica assoluta’, e infine, ben più gravemente, nella trasformazione di ciò che nasce già condizionato dagli interessi e dagli scopi di un determinato apparato militare – industriale, in una autonoma e neutrale teoria scientifica ‘pura’.
Terzo capitolo: Modelli ‘scientifici’ e conoscenza umana
Convenzionalismo, insiemi, modelli matematici. Cerchiamo di rimettere con i piedi per terra la questione dell’utilizzo di queste cosiddette capitolazioni della ‘scienza borghese’ verso il pensiero marxista. Se uno degli esiti di questo utilizzo è la drastica sottovalutazione del fattore della lotta di classe e del partito (che da essa trae linfa) nei processi di mutamento sociale, allora non ci siamo affatto. Se invece l’utilizzo di modelli e terminologie corrispondenti mira solo a integrare l’analisi condotta sulla base del materialismo storico-dialettico, allora ‘nulla quaestio’ . Ma la base dev’essere il materialismo storico-dialettico, non un qualsiasi artefatto cognitivo – euristico prodotto dalla ‘scienza’ di questa società. Pensiamo agli ambiti di applicazione dei modelli previsionali matematici, implicati nella teoria del caos, degli insiemi e delle catastrofi. Pur nella loro differenza, queste tre branche di ricerca hanno fornito ottimi modelli predittivi e decisionali al management :aziendale più rampante e agguerrito. Troviamo interi trattati di organizzazione aziendale, scienza dell’amministrazione e studi di strategia militare, imperniati su questi campi della nuova matematica, a dimostrazione della utilizzazione sistematica del sapere ‘scientifico’ da parte della borghesia. Quindi una cosa è certa, questi modelli matematici sono usati con profitto da esponenti imprenditoriali, amministrativi e militari borghesi, e corrispondono, anche se in maniera contraddittoria e parziale, alla loro concezione della realtà, deve quindi ritenersi problematica e complicata anche la possibilità di un loro impiego da parte dei marxisti. Bisogna applicare a queste moderne teorie la stessa critica de-mistificatrice che Marx riservava alle teorie scientifiche del suo tempo. Il nostro impegno dovrebbe risiedere nel criticare l’apparenza di neutralità della scienza attuale, valutando con sobrietà e scetticismo anche i suoi rari cedimenti nei confronti del marxismo. Per questo motivo continuiamo a ricordare che la sua funzione sociale è, fondamentalmente, una variabile derivata dall’uso che ne può fare il capitale (anche se noi stessi,
utilizziamo in modo critico e ponderato una parte dell’armamentario ‘scientifico’ di questa società). Torniamo sul concetto di assioma, e confrontiamolo con i costi parametrici e standard del budget aziendale. Come vengono progettati questi costi? In realtà essi vengono ipotizzati allo scopo di un confronto successivo con i costi reali e consuntivi, ad esempio di una certa produzione, e il loro valore numerico – monetario è semplicemente determinato da una media aritmetica dei valori dei costi effettivamente sostenuti nei periodi passati di quella certa produzione. Dalla realtà della produzione passata, si inferiscono quindi i dati numerici per costruire il costo parametrico e il costo standard atto a prevedere il budget di spesa richiesto per una certa produzione, e infine si ottiene uno strumento di controllo concomitante e consuntivo per rilevare eventuali scostamenti in più o in meno fra il dato standard previsionale e il dato reale. Il controllo budgetario ha lo scopo di verificare, attraverso lo strumento assiomatico dei costi parametrici e standard, l’efficienza e l’efficacia della gestione aziendale complessiva, così come quella relativa a singole aree della gestione (produzione, amministrazione, commercializzazione), o perfino a singoli reparti e uffici.
Ecco quindi mostrato un pratico esempio di utilizzo di modelli assiomatico numerici, nella sfera del controllo di gestione. Dove, attraverso i budget fondati su logiche previsionali, basate sulla probabilità che i costi sostenuti nel passato recente possano riproporsi anche nel presente e nel futuro a breve termine, si ottiene una limitazione (o meglio un tentativo di limitazione) del carattere aleatorio e imprevedibile dell’attività economico – aziendale.
Nel lavoro dal titolo ‘Storia e dialettica’ abbiamo ripercorso i momenti cruciali della teoria della conoscenza, così come emergono nelle relazioni di Bordiga degli anni sessanta. In quelle relazioni è rinvenibile una gnoseologia particolare, caratterizzata da due aspetti inequivocabili. Uno di essi è il ruolo del partito, inteso come ponte di conoscenza fra i saperi sedimentatisi in epoche di trapasso rivoluzionario, poiché in queste fasi della storia umana si manifesta l’avanzamento della conoscenza (e quindi il superamento di paradigmi precedenti, ormai inadeguati a comprendere i nuovi rapporti sociali). Tuttavia solo la prassi della rivoluzione comunista porrà in essere il superamento definitivo dei dualismi e degli enigmi ‘filosofici’ caratteristici delle società divise in classi, proprio come nel caso del famoso enigma dello scioglimento del nodo gordiano, tagliato semplicemente con la spada da Alessandro Magno. Il partito, organo energetico-politico della classe, e ricettacolo della conoscenza umana sintetizzata in forma non alienata, esprime quindi la potenza formale e la conoscenza-scienza storica della classe destinata a sopprimere tutte le classi, e quindi per tale motivo si può definire come genericamente umana (non di classe) questa conoscenza. Azione e teoria, potere e sapere, assimilazione conoscitiva del pensiero umano presente e passato ( in forma non alienata già nel partito) e lancio di ponti di conoscenza e superamento dei dualismi antinomici, caratteristici dell’alienazione delle società classiste (con la rivoluzione diretta dal partito). Il cambiamento della struttura socio-economica produce (produrrà) dei cambiamenti consequenziali nella sovrastruttura culturale e quindi nei modi di percepire e conoscere la realtà. Storia dei modi di produzione e correlativa analisi dei modi di pensare, in fondo si sostanzia anche in questo uno dei compiti del materialismo storico-dialettico, cioè dello strumento migliore di conoscenza posseduto dalla specie umana e dal partito
(in altre parole la metodologia critico- cognitiva materialistica, i suoi risultati, le leggi tendenziali socio-economiche, definite anche dottrina storicamente invariante). Il secondo aspetto, inequivocabile, delle relazioni degli anni sessanta è la critica alla scienza di quel periodo, lo svelamento del suo carattere subordinato e funzionale alle esigenze del capitale, e in definitiva la sua strutturale fallacia cognitiva legata a questo stesso carattere prevalente di subordinazione derivata e funzionale al capitale. Secondo Bordiga, stante questa caratteristica inestricabile e prevalente della scienza attuale, resta solo il partito a svolgere l’attività del soggetto conoscente, in quanto arca raccoglitrice dei saperi umani in forma non alienata, e quindi conseguente traghettatore e lanciatore rivoluzionario di ponti di conoscenza fra la sponda dell’apparato conoscitivo comunista delle origini, e la sponda del potenziale-embrionale apparato di conoscenza della società comunista futura (contenuta in forma embrionale nel ventre del mostro sociale capitalistico). Chiariamo che l’embrione non è altro che una potenzialità rispetto alla vita vera e propria, e quindi non è realistico dire che esso (il comunismo embrionale ) esiste già in forma di vita vera e propria, cioè come se fosse un essere (uomo/donna) in grado di intendere e di volere, dotato di autonomia di pensiero e di volizione: invece questo embrione di comunismo esiste come un entità contenuta e, soprattutto, imprigionata nel ventre capitalistico. In questo senso la rivoluzione è la levatrice della storia, e in questo senso rifulge e si comprende il ruolo e la natura del partito, definiti da Bordiga al pari di una piccola realtà socio-cognitiva anticipatrice del comunismo, un piccolo insieme di punti (teoria dell’evoluzione punteggiata) ormai esterni al corpo della società borghese e al suo embrione comunista, e quindi proprio per questo in grado di svolgere un ruolo politico decisivo nel parto rivoluzionario. Questo ruolo è delineato con chiarezza, sulla base delle esperienze storiche pregresse, e quindi non è opera saggia sottovalutare o negare la sua funzione con espedienti teorici o sofismi di vario genere, al fine di sostenere il collasso automatico, una sorta di partenogenesi spontanea, volutamente e consapevolmente negatrice della variabile incarnata nella lotta di classe e nel partito che ne è espressione sub specie di sapienza storicamente accumulata e di potenza organizzativa formale. Se proprio vogliamo utilizzare i termini coniati nella teoria del caos, allora possiamo rilevare che il complesso sistema dinamico capitalista, e il suo orizzonte degli eventi caotico, nel capitale di Marx viene già ordinato attraverso la scoperta di leggi di sviluppo e di funzionamento di tipo scientifico-tendenziale. Leggi, oppure giocando con la terminologia predetta, attrattori anti caotici, che delineano una certa regolarità nelle orbite percorse dagli eventi, e quindi configurano una geometria del caos. Fra questi attrattori, Marx annota la lotta di classe e il partito, come variabili basilari della transizione, e tuttavia essi scompaiono quasi del tutto nella vulgata presente e passata dello spontaneismo meccanicista e fatalista.
Quarto capitolo:
Teoria matematica degli insiemi e tentativi di trasposizione nel campo filosofico. Un abbozzo di critica iniziale.
Soprattutto negli anni sessanta e settanta sono fioriti molti tentativi di ‘aggiornamento’ della teoria marxista, sotto l’influsso delle correnti strutturaliste, psicoanalitiche, o perfino della teoria matematica degli insiemi. Sarebbe opera ardua ripercorrere i sentieri tracciati da questi ‘generosi’ tentativi di rinforzamento e innovazione del marxismo, drasticamente ridotti dal trionfante neo-liberismo degli anni ottanta e novanta (neo-liberismo che sembra un po’incrinato dopo la crisi finanziaria del 2008). Il filosofo francese Badiou, come altri suoi colleghi, tenta in quegli anni a cavallo dei decenni sessanta e settanta di dare un fondamento logico-matematico alla teoria marxista. Leggendo dei ritratti presenti in rete, corredati da parti significative dei suoi ultimi lavori filosofici, emerge una elaborazione che si auto presenta come a-dialettica, cioè, si suppone, non dipendente dalla concezione dialettica dell’essere. Una molteplicità di molteplici in cui si manifesta localmente una singolarità fenomenica. Questo molteplice, se ben comprendiamo, è categorizzato in contenitori ontologici o di significato (semantici) definiti sulla scorta della nota teoria matematica degli insiemi. Leggendo le pagine (alcune) di questo autore, sembra che il concetto euristico di insieme possa costituire un valido contributo alla fondazione di una concezione logico-ontologica della realtà. A noi sembra, tuttavia, perlomeno problematico il rapporto fra una qualsivoglia ontologia e la teoria degli insiemi; poiché un discorso sull’essere in quanto tale, cioè dal nostro punto di vista un discorso sull’essere in quanto negazione logico-fenomenologica del nulla (nulla inteso come l’assoluto senza luogo sia attuale che potenziale, e non in quanto concetto opposto o contrario dialettico dell’essere), non è facilmente riconducibile a questa teoria matematica (ricordiamo l’aporia del barbiere di Russel). In modo particolare la natura di modello euristico e convenzionale del concetto di insieme, ben poco si attaglia al principio di non contraddizione, identità e terzo escluso, che dovrebbe essere alla base di un discorso ontologico. Parliamo del principio di non contraddizione concepito dalla scuola eleatica e successivamente formalizzato da Aristotele, e oggi riproponibile non solo come mero strumento di indagine o forma del ragionare, ma come la inconfutabile immediatezza ontologico-fenomenologica di un campo sintattico-semantico di manifestazione di una molteplicità di essenti (che si impone con necessità come orizzonte di negazione permanente del nulla). Alla fin fine, anche il tentativo di negare questo campo ontologico – fenomenologico, con l’impiego di proposizioni scettiche o nichiliste, è solo un’auto negazione, poiché la stessa proposizione negatrice dell’essere è costretta, nel tentativo di negare la realtà dell’essere, a porre comunque il contenuto di un ente (seppure nella veste di una proposizione che nega ogni ente) e quindi la postulazione del nulla è un atto che, in quanto affermazione in ogni caso di un qualcosa, è anche immediata auto negazione del proprio contenuto proposizionale. Quindi, sul piano logico-fenomenologico immediato, ogni negazione dell’essere vale come una auto-negazione. Di conseguenza, invece, la posizione di qualcosa come esistente, qualunque cosa essa sia, contiene, come già superata, la stessa proposizione che vorrebbe negare a questa cosa l’attributo dell’esistenza. Badiou, in alcune risposte al filosofo Severino, afferma di accettare il principio di non contraddizione e la realtà dell’essere al posto del nulla, e tuttavia resta irrisolto il problema della totalità di questo molteplice del molteplice, il quale si pone, in Badiou, come pura manifestazione di insiemi differenziati e quindi pure singolarità di insiemi, apparizioni contingenti di insiemi singolari, incorporati in insiemi più ampi, che tuttavia non sono un nuovo insieme totalità. Al di là di questo aspetto, le cui basi logiche e ontologiche non riusciamo forse a comprendere per nostra interiore inadeguatezza, ci sovviene un dubbio ulteriore in merito a questo molteplice del molteplice (o insieme degli insiemi) di cui ci sfugge la logica di sviluppo, o meglio la ragione sufficiente del suo divenire. Se davvero Badiou propone una filosofia a-dialettica, come si può poi postulare il cambiamento di stato, il movimento stesso di questo molteplice? Ci chiediamo se i fenomeni molteplici aumentano e diminuiscono, al pari di una epidemia basata su un unico agente patogeno iniziale, o per meglio dire in un modo paragonabile alla geometria dei frattali, in cui una matrice iniziale (monisticamente) si riverbera in molteplici variazioni sul tema di partenza; oppure sono innervati nella contraddizione dialettica degli opposti, duale, oppositiva, processuale? Tuttavia questa ultima ipotesi, almeno in merito al significato emerso dalla lettura di parte dell’opera di Badiou, non sembra affatto proponibile. Non stiamo qui a tentare di confutare le sottostanti argomentazioni che fondano una visione siffatta, sempre ammettendo di non avere frainteso – con la nostra lettura – il suo senso effettivo, poiché lo scopo della presente analisi è un altro. Siamo infatti convinti che adoperare la teoria degli insiemi (e non ci riferiamo a Badiou) o qualunque altra teoria matematico-scientifica, con la giustificazione che questa teoria o quell’altra teoria, hanno ormai capitolato davanti al marxismo, può invece comportare il rischio di una capitolazione reale, opposta, del marxismo al pensiero borghese.
‘Se guardi troppo a lungo nell’abisso, poi è l’abisso che inizia a guardare dentro di te’.Nietzsche
Quinto capitolo: la neutralità della scienza come mito borghese
Scienze naturali e scienze storico -sociali, sono radicate, attualmente, nel terreno alienato della società borghese. Una società costruita su una serie discendente di separazioni di tipo strutturale-economico e sovrastrutturale: l’apparato conoscitivo (e quindi la scienza), in questa situazione, è dunque esso stesso prevalentemente alienato. Usiamo il termine ‘prevalentemente’, perché ipotizziamo che insieme al primo tipo di condizionamento, cioè le idee della classe dominante, la scienza contemporanea possa essere limitatamente permeabile alla realtà potenziale del comunismo embrionale (contenuto nel grembo capitalistico). In questo senso si può parlare di capitolazioni, molto parziali, della scienza borghese davanti al marxismo. Allora possiamo meglio esprimerci dicendo che la tendenza condizionante predominante è quella borghese, mentre solo a tratti si intravedono influssi diversi agire dentro i meandri della ricerca e della sperimentazione scientifica. Questo ultimo aspetto non dovrebbe quindi spingerci a sostituire la logica dialettica marxista con la logica degli insiemi. Fondamentalmente separando l’uomo da se stesso, l’alienazione capitalistica del lavoro è la matrice materiale delle successive separazioni; quindi anche le scienze naturali e storico-sociali non possono esserne ritenute immuni. Dal punto di vista della dialettica rivoluzionaria, solo una minoranza ‘umana’, una avanguardia proletaria, può possedere già adesso il retto intendere e il retto agire e volere. Sapienza e potenza concentrata nel partito storico – formale, questa è l’equazione sostenuta fino alla nausea nei testi degli anni sessanta appena ripubblicati. Può piacere o non piacere, ma la carta canta, e quindi c’è poco da cavillare o da interpretare. Possiamo ben ricordare il ruolo complementare della innovazione tecnologica, e quindi delle collegate scoperte scientifiche, nella crescita del capitale costante in questa economia capitalistica reale, in un ciclo che partendo dall’accumulazione semplice, e poi allargata, sotto la spinta del mercato concorrenziale, diviene poi, successivamente, impulso a ridurre i costi di produzione attraverso l’impiego della tecnologia. Questa è la funzione essenziale del sapere scientifico in questo modo di produzione, e proprio per questo motivo deve essere demistificata l’apparenza di neutralità che avvolge questo sapere (così come un apparenza di neutralità avvolge da sempre lo stato borghese, il diritto, l’economia politica e tanti altri aspetti della sovrastruttura capitalistica). Socialmente condizionate, le opere dell’ingegno, le teorie pure, non sono mai state pure, poiché i loro portentosi modelli euristici, si trasformano a ciclo continuo in applicazioni tecnologiche industriali funzionali all’incremento del tasso di sfruttamento della classe proletaria.
Postilla: Apparato e scienza
Fisica relativistica, meccanica quantistica, matematica degli insiemi, teoria delle catastrofi, del caos, e varie altre narrazioni scientifiche, formano il reticolo interpretativo-cognitivo dell’attuale umanità. Si tratta di narrazioni spesso reciprocamente incompatibili, almeno dal lato della raffigurazione della realtà; pensiamo ad esempio al relativismo e alla quantistica, e quindi al contrasto fra il discreto e il continuo, cioè alle visioni opposte di ciò che viene affermato come tratto essenziale dell’essere. Il problema è anche dato dal fatto che, per l’appunto, in un modo o in un altro, si torna a parlare di spiegazioni ultime della realtà perfino in queste moderne teorie fisico-matematiche, riportando così in auge, il discorso filosofico ormai considerato da molti, semplicisticamente, morto e sepolto. Relativismo, quantistica, teoria degli insiemi e via discorrendo diventano così i moderni sostituti del vecchio discorso filosofico-ontologico o addirittura teologico. Oppure può accadere che una ontologia, pensiamo a Badiou, riconosca fra i suoi fondamenti (anche) la teoria matematica degli insiemi. In ogni caso si conferma la prevalenza della forma scientifica del sapere, sulle forme non ancora omologate al paradigma scientifico, almeno nella capacità di condizionamento della cultura del tempo. Se vogliamo tentare di essere minimamente realisti, non possiamo fare finta di credere che esista una diffusa ricerca scientifica pura, e che l’apparato militare industriale dei conglomerati capitalistici esistenti e concorrenti sia disinteressato a quello che avviene nel campo della ricerca sperimentale. Oggi lo stesso scienziato sa che le sue ricerche otterranno finanziamenti solo a patto di servire gli interessi dei finanziatori, e questi ultimi sanno bene che anche le teorie più pure e astratte, prima o poi potranno produrre le classiche uova d’oro della gallina mitologica. L’errore scientista è in fondo quello di credere a una delle più puerili e smaccate menzogne della ideologia borghese: la scienza pura, la capitolazione del sapere dominante alle ragioni del marxismo, e altre amenità varie. Dal punto di vista della realtà sociale concreta, determinata, specificamente riferita ai nostri tempi alienati, è indubbio che l’apparato militare-industriale tende a inglobare in se stesso i saperi scientifici di tutti i tipi, senza distinzioni fra scienze umane e scienze naturali. Questi saperi discendono periodicamente dall’empireo delle teoria pura, alla prosaica e terrena tecnologia utilizzabile a scopi industriali e militari. Possiamo quindi parlare, senza tema di essere smentiti, di un vero e proprio insieme composto da tre aspetti sociali interconnessi in una relazione funzionale di reciproco supporto. Quindi, in altre parole, un unico e letale apparato di dominazione militare-industriale e scientifica, come mai si è visto nella storia umana precedente. E di fronte a questa mastodontica evidenza, confermata da mille prove storiche, lo scientismo moderno continua a blaterare imperterrito il mantra della neutralità dei saperi scientifici, come se lo scopo di una ricerca non condizionasse, già in partenza, anche i mezzi impiegati e i risultati ottenuti.
Eraclito : ‘E nella notte accendono un lume, spegnendo la vista alla luce del logos’.
Capitolo sesto (conclusivo): Paradigma e totalità
Paradigma scientifico è il termine usato nella filosofia della scienza per indicare un complesso di metodi, teorie, regole di indagine e criteri di verifica, accettato e impiegato da una comunità di ricercatori. La natura del paradigma si fonda su un fatto sociale, ovvero sulla decisione che scaturisce dalla volontà di considerare una certa prassi di ricerca, orientata su certe teorie ‘scientifiche’, la corretta metodologia di ricerca. Alla base, dunque, ritroviamo una convenzione socialmente accettata dalla comunità scientifica, o meglio dalla parte dominante degli addetti ai lavori che sono membri di questa comunità. Ma quale paradigma è probabile che venga scelto come valido per l’impiego, dalla parte che decide la sua validità, e che vive in una società capitalistica, e ne subisce dunque ogni tipo di condizionamento? Possiamo porci questa domanda, oppure dobbiamo ritenere che gli operatori del settore scientifico vivano in una sfera incontaminata dai prosaici interessi del capitale, dove sono liberi di scegliere i propri indirizzi di ricerca senza alcuna pressione e condizionamento? Come si è comportata la cosiddetta comunità scientifica, o meglio la sua maggioranza, nei regimi totalitari del ventesimo secolo? Era o non era il suo lavoro,obtorto collo, asservito alle politiche di quei regimi, e alla sottostante struttura capitalistica? Per non parlare del ruolo ugualmente importante svolto nei regimi politici democratici, con annessa e sottostante struttura capitalistica. Comunità scientifica (una parte di essa) dunque, come ‘instrumentum regni’, al pari della religione nella visione del Machiavelli. Siamo spinti a ipotizzare, di conseguenza, che il paradigma scientifico venga scelto dagli addetti ai lavori, sulla base delle esigenze di potere della classe sociale dominante in una certa fase storica (in barba ai sogni di libertà delle scienze narrati dall’ideologia liberale). Inevitabilmente, le forme sintattiche, i contenuti teorici, le metodologie di ricerca e sperimentazione che formano questo paradigma, saranno quelli rivelatisi più adatti nel tempo a soddisfare gli interessi della classe sociale dominante. Altri paradigmi, altre metodologie, rivelatesi empiricamente meno efficaci a fornire tecnologia di avanguardia all’apparato militare – industriale statale, verranno gettati nel dimenticatoio e dichiarati non scientifici. Quindi, il termine scientifico o non scientifico, è spesso solo una metafora di utile o inutile rispetto ai bisogni sistemici del capitale. Domandiamo a noi stessi, quale possibilità di sviluppo applicativo potrebbe ottenere una teoria, altamente verificabile a livello sperimentale, rivolta per giunta ai bisogni collettivi della specie umana, e quindi in contrasto con gli interessi della attuale minoranza parassitaria borghese. Probabilmente non avrebbe nessuna possibilità di sviluppo e di successivo impiego di massa. Dura lex, sed lex, questa è la dura legge del capitale, e quindi non è saggio dimenticarlo o fingere di ignorarlo, per poi sostenere l’autonomia e la neutralità dell’albero scientifico (teoria pura e sviluppi applicativi) rispetto al terreno sociale in cui è radicato. I percorsi scientifici contemporanei sono invece, al di fuori di ogni dubbio e illusione, un elemento importante, e se vogliamo costitutivo, della attrezzatura di oppressione borghese, cioè dell’apparato di dominazione industriale – militare e scientifico capitalistico. Industria militare, eserciti, ricerca scientifica (teoria pura e connessi sviluppi tecnici), sono i tre elementi, reciprocamente funzionali, che formano l’attrezzatura di oppressione politico-statale borghese. Anche il pensiero e l’idea ‘scientifica’ in apparenza più lontani da una trasformazione applicativa, se dovessero possedere delle potenzialità applicative interessanti, si convertirebbero prima o poi in tecnologia per il capitale. Eppure noi sosteniamo che gli echi della lunga fase storica del comunismo delle origini, insieme agli impulsi sociali delle lotte proletarie e al comunismo embrionale imprigionato nel ventre della società capitalistica, possano determinare la realtà potenziale, e a tratti anche attuale, di un diverso paradigma conoscitivo (rispetto a quello dominante). Negli anni sessanta Bordiga concepisce l’attualità di questo paradigma conoscitivo diverso, eppure antico, legato ai bisogni umani di specie, e più in generale alle ragioni della vita, come un qualcosa di presente nel partito storico, posseduto dunque dal partito, che assurge, in fondo, al rango di soggetto collettivo di conoscenza. Ma anche nei paradigmi e nelle narrazioni scientifiche dominanti, trapelano, anche se in modo frammentario, e a volte confuso, le scintille di questa conoscenza diversa e antica insieme. Un sapere disalienato, libero dalle antinomie e dai dualismi delle società divise in classi, e quindi integralmente umano e naturale, cioè finalmente, dialetticamente, sintesi autentica del molteplice nella totalità e corrispondente apertura della parte alla totalità dell’essere diveniente.